LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 21521/2020 proposto da:
M.T., rappresentato e difeso dall’Avv. Valentina Graziani, in virtù di mandato conferito in calce al ricorso per cassazione.
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, nella persona del Ministro in carica.
– intimato –
avverso il decreto del Tribunale di BOLOGNA n. 4145/2020, pubblicato il 30 giugno 2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/09/2021 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.
RILEVATO
Che:
1. Con decreto del 30 giugno 2020, il Tribunale di Bologna ha rigettato il ricorso proposto da M.T., nato in *****, avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale della Commissione territoriale competente.
2. Il richiedente aveva dichiarato di essere fuggito dal paese di origine a causa di un incendio che aveva causato la distruzione della casa dello zio, dove viveva dopo lo morte del padre, che lo aveva ritenuto responsabile dell’accaduto e che lo aveva picchiato e rinchiuso in casa per due giorni.
3. Il Tribunale di Bologna ha affermato che le dichiarazioni erano generiche, ma che tuttavia il ricorrente non aveva dedotto la sussistenza di profili di persecuzione o di un rischio effettivo di danno grave nei termini di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b); in Senegal, alla luce delle fonti richiamate ed aggiornate al 2018, non sussisteva una condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato tale da porre in pericolo la popolazione civile; per quanto concerne la protezione umanitaria, non erano emerse situazioni peculiari di vulnerabilità ed anche dalla valutazione comparativa non emergevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
4. M.T. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
5. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10, 13 e 27; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27; artt. 2 e 3 CEDU; art. 16 della Direttiva Europea 2013/32/UE; nonché il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e l’omesso esame di fatti decisivi, in quanto il racconto del richiedente, valutato attendibile sia dalla Commissione, che dal Tribunale, riportando le violenze sofferte e la prigionia subita dallo zio, integrava una grave situazione che lo esponeva, in caso di rientro in patria, a seri pericoli per la sua sopravvivenza ed incolumità; né il richiedente poteva richiedere la protezione dello stato, tenuto conto del livello di illegalità presente in Senegal e del grado di corruzione delle forze dell’ordine, oltre che della situazione di povertà esistente nel paese e delle criticità del sistema sanitario nazionale, non in grado di fornire servizi essenziali a un gran numero di persone, in particolare nelle zone rurali.
1.1 Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
1.2 Nel caso concreto, come si evince dalla lettura del provvedimento impugnato, il Tribunale ha ritenuto che, proprio alla stregua del racconto del richiedente, non sussistevano i presupposti della protezione del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 7 e 8, poiché non erano state dedotte situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile, né era stata prospettata la sussistenza di un rischio effettivo di danno grave nei termini contemplati dall’art. 14, lett. a) e b) del D.Lgs. citato e ha, altresì, affermato che il ricorrente non aveva dimostrato di essersi rivolto alla polizia per chiedere protezione, sicché non era da escludere che le stesse autorità gli avrebbero fornito adeguata tutela.
Inoltre, il Tribunale, con un iter argomentativo che non è stato minimamente censurato, ha affermato che, a prescindere dalla estrema genericità delle dichiarazioni rese, il ricorrente, pur mantenendo tuttora riferimenti nel Paese di origine, non aveva prodotto alcun documento sulla vicenda che aveva determinato la sua fuga.
1.3 La decisione censurata, quindi, nel caso in esame, ha valutato, con un accertamento in fatto, adeguatamente motivato e non censurabile in sede di legittimità, le dichiarazioni rese dal ricorrente, ritenendo, tuttavia, che fossero assenti, nella specie, atti di persecuzione e il rischio effettivo di danno grave alla vita o all’incolumità della persona.
1.4 Orbene il legislatore, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, richiede che gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e tali da dare origine al fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (art. 1, lett. a e art. 15, paragrafo 2, della CEDU; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e)). Rileva, pure, l’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello stato di cittadinanza e/o di residenza ed anche le fonti richiamate, sul punto, dal ricorrente, non denotano un sistema diffuso di corruzione delle forze dell’ordine, quanto un eccessivo uso della forza nei confronti dei manifestanti e la sussistenza in capo alla Commissione africana sui diritti umani e dei popoli di “preoccupazioni” sull’incapacità delle autorità di tutelare la libertà d’espressione e sugli arresti e le detenzioni arbitrarie (cfr. pag. 5 del ricorso per cassazione).
2. Con il secondo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14 e l’omessa valutazione di fatti decisivi e specificamente della condizione sociale e politica del Senegal.
2.1 Il motivo è infondato, avendo il Tribunale esaminato, alla pagina 4 del decreto impugnato, la situazione del Senegal, alla luce delle fonti richiamate e aggiornate al 2018, ed avendo escluso la sussistenza di un conflitto armato d”intensità e violenza tali da mettere in pericolo la vita e l’incolumità persona della popolazione civile; mentre, con riferimento al riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), già si è detto che il Tribunale ha evidenziato che il ricorrente non aveva nemmeno prospettato il rischio di subire la condanna a morte o l’esecuzione della pena di morte o ancora la possibilità di essere sottoposto a tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante nel suo paese di origine.
2.2 D’altra parte, le fonti richiamate dal ricorrente, oltre ad essere del tutto generiche in relazione alla vicenda personale dallo stesso raccontata, sono lungi dal confermare la sussistenza in Senegal di un conflitto armato, che, per come affermato da questa Corte, di recente, ricorre nelle situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati antagonisti, o nella quale due o più gruppi armati si contendono tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché detto conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza – tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili, della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche, della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento, del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento – correrebbe individualmente, per la sua sola presenza su quel territorio, la minaccia contemplata dalla norma (Cass., 2 marzo 2021, nn. 5675 e 5676).
2.3 Il richiamo, poi, a precedenti giudiziari favorevoli a persone provenienti dal Senegal non può assumere decisivo rilievo in quanto frutto della valutazione delle circostanze specificamente accertate in detti giudizi.
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19; l’errato e omesso esame di fatti decisivi, anche in riferimento alla integrazione sociale e lavorativa in Italia.
3.1 La censura è inammissibile.
3.2 Sul punto, la sentenza delle Sezioni Unite del 13 novembre 2019, n. 29459 ha affermato che i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suol diritti fondamentali inviolabili.
Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio; né il livello di integrazione dello straniero in Italia né il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455). Quindi l’accertamento delle condizioni per il riconoscimento del permesso di soggiorno fondato su ragioni umanitarie si fonda sui seguenti presupposti: l’allegazione come gravi motivi di elementi derivanti dalla situazione sociale, politica o ambientale del Paese di provenienza del richiedente, pur non configuranti il pericolo di persecuzione o di danno grave, rilevanti ai fini della protezione internazionale, che incidano eziologicamente in modo individuale sulle condizioni personali di vita del richiedente; la valutazione della situazione vissuta nel Paese di accoglienza, rilevante come elemento di comparazione, a cui dare rilievo mediante un giudizio prognostico che fa ritenere che sussisterebbe una grave violazione dei diritti umani se il richiedente fosse rimpatriato.
Il giudice del merito e’, dunque, tenuto ad operare la comparazione, in ragione del proprio dovere di collaborazione istruttoria officiosa, al fine di accertare se con il rimpatrio possa determinarsi, all’attualità, non il mero peggioramento della condizione di vita goduta dallo straniero nel nostro paese, ma, tenuto conto della sua condizione soggettiva ed oggettiva (età, salute, radici relazionali e parentali, condizione personale, appartenenza ad u gruppo sociale ecc.), una compressione dei diritti umani correlati al suo profilo, che lo priverebbe della concreta possibilità di condurre un’esistenza coerente con il rispetto della dignità personale, soltanto dopo che il richiedente abbia documentato il suo grado di integrazione in Italia ed abbia allegato i fatti oggettivi e soggettivi indicativi, a suo dire, della condizione di vulnerabilità cui sarebbe esposto nel paese d’origine il richiedente (Cass., 28 luglio 2020, n. 16119), circostanza che nella specie, non si è verificata.
3.3 Il ricorrente, del resto, nel denunciare dell’impugnato decreto la violazione della normativa protezione umanitaria, non si confronta con lo specifico iter argomentativo del giudice di merito, che, lungi da non considerare l’integrazione sociale e lavorativa del ricorrente in Italia, ha affermato che lo svolgimento di attività lavorativa in via non continuativa e comprovata solo per alcuni mesi degli anni 2017 e 2018, non appariva tale a evidenziare un adeguato grado di inserimento o il radicamento sul territorio italiano, in mancanza di seri motivi di carattere umanitario ostativi al rientro del ricorrente in patria, che nella specie non erano ravvisabili, ove si considerava che il ricorrente, di anni 25, non aveva manifestato problematiche di salute, né aveva dedotto ulteriori e diverse situazioni di vulnerabilità personale (cfr. pagina 5 del provvedimento impugnato).
14 Il motivo, dunque, si risolve nella mera istanza di revisione del giudizio di fatto operato dal giudice di merito, nel rispetto, peraltro, del principio statuito da questa Corte secondo cui, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, se il giudice è chiamato a verificare l’esistenza di seri motivi, che impongano di offrire tutela a situazione di vulnerabilità individuale, è comunque “necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass., 2 luglio 2020, n. 13573).
3.5 In ultimo, mette conto rilevare che la condizione di povertà del Paese di provenienza può assumere rilievo ove considerata unitamente alla condizione di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto ove rimpatriato, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali (Cass., 4 settembre 2020, n. 18443), pericolo nei caso di specie neppure specificamente allegato.
4. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Nessuna statuizione va assunta sulle spese, poiché l’Amministrazione intimata non ha svolto difese.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021