Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33673 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Maria – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20172/2020 proposto da:

M.J., rappresentato e difeso dall’avo Chiara Pernechele, per mandato con procura speciale rilasciato in calce al ricorso.

contro

Commissione Territoriale Per il Riconoscimento Della Protezione Internazionale, Ministero Dell’Interno, *****;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4999/2019 della CORTE D’APPELLO di Venezia depositata;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2021 da Dott. CAPRIOLI MAURA.

FATTO E DIRITTO

Considerato che:

M.J. impugna per cassazione la sentenza della Corte di appello sulla base di tre motivi.

Il Ministero si costituisce solo formalmente.

Con il primo motivo si deduce la violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 7 e 8 nonché art. 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, ed il vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di appello con motivazione apparente fatto propria la valutazione del Tribunale di Venezia sulla presunta non credibilità del racconto senza confrontarsi con i rilievi critici articolati nei motivi di gravame.

Con un secondo motivo si duole del vizio di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nella parte in cui la Corte di appello non ha saputo considerare, da un lato, l’effettiva vulnerabilità del ricorrente e, dall’altro, la sua integrazione socio lavorativa ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria secondo i principi delle S.U. 29460/2019.

Con un terzo motivo si censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 24 Cost., art. 6 Convenzione dei diritti dell’Uomo e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e degli art. 74, comma 2, nonché del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 75,76,119 e art. 126, comma 3, nella parte in cui la Corte di appello non ha correttamente applicato i criteri legali in punto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Il primo motivo è inammissibile.

La Corte distrettuale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.

In particolare, ha condiviso la valutazione espressa dal Tribunale in punto credibilità spiegando, con motivazione ben al di sopra del minimo costituzionale,come la gravità degli episodi narrati in termini generici dal richiedente non poteva giustificarsi con il tempo trascorso dai fatti e con il basso livello di scolarità ma solo con la non corrispondenza al vero delle vicende narrate In questo quadro ha ritenuto che il generico timore di essere perseguitato per motivi religiosi non poteva integrare il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato.

Del resto la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).

Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censurabilità del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione.

I giudici di merito, infatti, hanno definito il racconto caratterizzato da estrema vaghezza e non verosimiglianza del narrato.

Il ricorrente censura detta affermazione senza però spiegarne le ragioni ovvero allegando fatti di rilevanza in ordine alla ricorrenza della credibilità, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.

Il secondo motivo è generico e come tale inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.

A siffatto rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente ai rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta a fronte di un sistema a tutele tipizzate.

Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale dei richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, neanche l’esistenza di un rapporto di lavoro. Peraltro, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Inoltre, se è pur vero che, in tema di protezione umanitaria, la valutazione in ordine alla sussistenza dei suoi presupposti deve essere il frutto di autonoma valutazione avente ad oggetto le condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti, tuttavia, la necessità dell’approfondimento da parte del giudice di merito non sussiste se, già esclusa la credibilità del richiedente, non siano state dedotte – come nel caso di specie – ragioni di vulnerabilità diverse da quelle dedotte per le protezioni maggiori (vedi Cass. n. 29624/2020).

in particolare, il ricorrente neanche indica quali altre eventuali ragioni di vulnerabilità avrebbe allegato al giudice di merito.

Il terzo motivo è inammissibile.

Il ricorrente chiede sostanzialmente a questa Corte di sostituire il giudizio di manifesta infondatezza, che ha determinato la revoca da parte della Corte della sua ammissione al patrocinio a spese dello Stato, con una valutazione di infondatezza, al fine di conseguire la vanificazione del predetto provvedimento di revoca. Ma, in base al consolidato orientamento di questa Corte (v., tra le altre, Cass., ordd. n. 10487 del 2020, n. 3028 e n. 32028 del 2018), indipendentemente dalla circostanza che esso sia eventualmente pronunziato nel contesto della sentenza che definisce il giudizio di merito, il provvedimento di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato resta in ogni caso assoggettato esclusivamente al mezzo di impugnazione suo proprio, e cioè l’opposizione da proporsi al capo dell’ufficio giudiziario del magistrato che ha disposto la revoca, ai sensì del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170.

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nessuna determinazione in punto spese per il mancato svolgimento dell’attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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