LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Maria – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 24448/2020 proposto da:
O.U., alias K.B., nato *****, rappresentato e difeso dall’avv. Elena Petracca, del foro di Rovigo, per mandato in calce al ricorso;
contro
Commissione Territoriale Per il Riconoscimento Della Protezione Internazionale, Ministero Dell’Interno, *****;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1120/2020 della CORTE D’APPELLO di Venezia depositata;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2021 Dott. da CAPRIOLI MAURA.
Ritenuto che:
O.U., alias K.B. cittadino della Nigeria, propose opposizione al Tribunale di Milano avverso il provvedimento della Commissione territoriale che aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale, sussidiaria e umanitaria.
La Corte d’appello ha respinto il gravame di O.U.,alias K.B., osservando che: non era credibile il racconto del ricorrente circa la sua asserita appartenenza al partito ***** evidenziando inoltre la non coincidenza fra le versioni fornite avanti alla Commissione e quella data avanti al Tribunale; era dunque da escludere la protezione internazionale e quella sussidiaria, per mancanza di ogni pericolo per il ricorrente; e per la misura sussidiaria della protezione umanitaria riteneva non sussistenti le condizioni personali di vulnerabilità, né indici d’integrazione sociale.
O.U., alias K.B. ricorre in cassazione con cinque motivi.
Il Ministero si è costituito al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.
Considerato che:
O.U., alias K.B. con un primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione del diritto ad essere giudicato dal giudice naturale e precostituito per legge e per difetto di costituzione del giudice, violazione degli artt. 25 e 102 Cost., art. 158 c.p.c., R.D. n. 12 del 1941, art. 110, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Lamenta in particolare il ricorrente che il procedimento di appello sarebbe stato assegnato ad un magistrato proveniente da un tribunale del distretto in forza di un progetto per la definizione del contenzioso in materia di immigrazione attraverso quindi un modello organizzativo non ispirato ai criteri di specializzazione che presiedono la trattazione del contenzioso in materia di immigrazione.
Questa applicazione costituirebbe – in tesi – una violazione del principio di competenza per materia e una violazione del dettato dell’art. 25 Cost., in quanto l’applicazione generalizzata dei giudici del distretto non sarebbe coerente con il principio di specializzazione che regola la materia di immigrazione, nel senso previsto dal D.L. n. 13 del 2017, art. 2;
Il ricorrente assume che il Presidente della Corte d’appello abbia elaborato un progetto per lo smaltimento del contenzioso in materia di protezione internazionale, che prevedeva l’applicazione di numerosi giudici del distretto per un brevissimo lasso di tempo, ciascuno nell’ambito di collegi straordinari composti da un magistrato della sezione, da un magistrato applicato e un giudice ausiliario.
Il coinvolgimento dell’impugnazione in questo progetto avrebbe fatto sì – a dire del ricorrente – che la causa fosse decisa attraverso un modello organizzativo non si sarebbe ispirato ai criteri di specializzazione che presiedono la trattazione del contenzioso in materia di immigrazione.
La sentenza impugnata, tuttavia, non riporta traccia, nella sua intestazione, della presenza nel novero del collegio di magistrati applicati o ausiliari.
Era dunque onere del ricorrente suffragare i propri assunti, sia trascrivendo il contenuto dei provvedimenti a cui ha fatto riferimento (vale a dire del progetto di definizione del contenzioso evocato e, soprattutto, dei provvedimenti direttamente riconnessi alla lite relativi all’assegnazione della stessa ad un collegio composto nel modo denunciato) oppure facendo un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, sia spiegando dove tali atti ora si rinverrebbero.
Il mancato assolvimento di un simile onere si traduce in una violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, con la conseguente inammissibilità del ricorso presentato (in merito all’autosufficienza del ricorso ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in caso di riferimento a documenti o atti processuali, i quali non solo devono essere specificamente individuati anche quanto alla loro collocazione, ma altresì devono essere oggetto di integrale trascrizione quanto alle parti in contestazione ovvero di sintetico ma completo resoconto del contenuto, si vedano Cass. 16900/2015, Cass. 4980/2014, Cass. 5478/2018, Cass. 14784/2015 e Cass. 8569/2013); il che esime dal dire che il magistrato applicato non può essere considerato una persona estranea all’ufficio e non investita della funzione esercitata, in presenza di un provvedimento di applicazione da parte del Presidente della Corte d’appello ai sensi del R.D. n. 12 del 1941, art. 110.
La contestazione relativa alle modalità con cui l’applicazione è stata disposta non consente poi di ipotizzare alcuna nullità della decisione assunta con la partecipazione del magistrato applicato.
Invero, posto che l’art. 156 c.p.c., prevede che la nullità di un atto per inosservanza di forme non può essere pronunciata se non è comminata dalla legge, nessuna norma contempla una nullità di atti ricollegata alle modalità con cui il Presidente della Corte d’appello si avvale del potere di disporre l’applicazione al suo ufficio di magistrati del distretto.
Il primo motivo va pertanto respinto.
Con un secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa interpretazione nella valutazione delle dichiarazioni del ricorrente e l’omessa collaborazione nell’accertamento dei fatti – violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 5, art. 5, comma 3 e art. 8, lett. d), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, art. 27, comma 1 bis e art. 35 bis, n. 9, nonché del D.L. n. 419 del 1989, art. 1, comma 5, per aver la Corte di appello non assolto al dovere di cooperazione istruttoria effettuando una valutazione sommaria e poco approfondita delle dichiarazioni del ricorrente sulla base di un giudizio a priori basato sulle scarne deduzioni della Commissione territoriale e per non avere correttamente valutato le dichiarazioni del richiedente.
Il motivo pur rubricato sotto il solo profilo della violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3), contiene in realtà una serie di critiche agli accertamenti in fatto espressi nella motivazione della corte territoriale che, come tali, si palesano inammissibili, in quanto dirette a sollecitare un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni del proprio convincimento circa l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente.
La Corte ha spiegato le ragioni per le quali il racconto non poteva considerarsi attendibile sottolineando come il richiedente,pur professandosi membro di un certo rilievo del partito ***** non fosse stato in grado di descriverne nemmeno a grandi linee il programma politico (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata) nonché evidenziando le numerose contraddizioni in cui il medesimo era incorso nella versione fornita avanti alla Commissione ed in quella data avanti al Tribunale (pag. 7 e 8 sentenza impugnata).
Con il ricorso per cassazione la parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., 07/12/2017, n. 29404; Cass., 04/08/2017, n. 19547; Cass., 02/08/2016, n. 16056).
A tal riguardo occorre osservare che il legislatore ha ritenuto di affidare la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo non alla mera opinione del giudice ma ha previsto una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del D.Lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, “non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicché è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda” (Cass. ord. 26921/2017).
Alla luce di quanto sopra appare evidente che il dovere del giudice di considerare veritiero il racconto del ricorrente anche se non suffragato da prove richiede pur sempre che le dichiarazioni rese dal richiedente asilo siano ” considerate coerenti e plausibili” (art. 3, comma 5, lett. C) e che il racconto del richiedente sia in generale “attendibile” (art. 3, comma 5, lett. E). La difficoltà di provare adeguatamente i fatti accaduti prevista espressamente dal legislatore nel citato art. 3, comma 5, non impone certo al giudice di ritenere attendibile un racconto che, secondo una prudente e ragionevole valutazione, sia incredibile e fantasioso anche perché i criteri legali di valutazione della credibilità di cui all’art. 5, comma 3, sono categorie ampie ed aperte che lasciano ampio margine di valutazione al giudice chiamato ad esaminare il caso concreto secondo i criteri generali: basti pensare ai concetti di coerenza, plausibilità (lett. c) e attendibilità (lett. e), che richiedono senz’altro un’attività valutativa discrezionale.
E’ appena il caso di aggiungere che l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene al giudizio di fatto, non sindacabile nella presente sede di legittimità se non nei ristretti limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed osta al compimento degli approfondimenti istruttori officiosi cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria (Cass., Sez. 1, n. 33858 del 2020, Rv. 660736).
Con il terzo motivo denuncia la violazione e non corretta applicazione del disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b e c, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver omesso ogni verifica sulla corrispondenza alla realtà delle dichiarazioni rese sulle violenze che accompagnarono le elezioni presidenziali del marzo 2015 nonché sulla situazione socio politica dello stato di provenienza al momento della fuga del richiedente.
Il motivo è parimenti inammissibile in quanto non si confronta con la ratio decidendi relativa alla inattendibilità del racconto circa le ragioni dell’espatrio, limitandosi al riguardo ad affermare apoditticamente la coerenza e specificità delle dichiarazioni, con l’implicita quanto inammissibile richiesta di riesame del motivato accertamento in fatto espresso dal giudice di merito. Dal quale peraltro deriva, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la insussistenza di un dovere del giudice di integrazione istruttoria d’ufficio circa la sussistenza di un pericolo individualizzato (cfr. tra molte: Cass. n. 24575 del 2020).
Con riferimento al rischio di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la Corte ha assolto al dovere di cooperazione istruttoria, assumendo informazioni sul paese di origine da una fonte attendibile ed aggiornata (Rapporto Coi del 28.1.2019, Easo Country of Origin Information Report Nigeria 2018, Freedom House 2018, Amnesty Internazional Report 2017/2018 cfr. pag. 13 sentenza) che è stata esplicitamente menzionata nella decisione (Cass. n. 22527/2020).
A tale motivato accertamento di fatto il ricorso oppone del tutto genericamente la propria valutazione di segno opposto, facendo altrettanto generico riferimento a imprecisate “sentenze del Giudice di merito” che si è riservato di produrre. Sotto questo profilo, la doglianza di violazione del disposto normativo si risolve invece in una richiesta di revisione del giudizio di fatto rettamente espresso dal giudice di merito, richiesta evidentemente estranea alla verifica di legittimità. Con il quarto motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 289 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte omesso ogni verifica sulla vulnerabilità a prescindere dalla rilevata inattendibilità del racconto e per la mancata considerazione del contratto di lavoro prodotto con note conclusive del 31 gennaio 2020.
Con il quinto motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, comprovante l’integrazione del ricorrente.
I due ultimi motivi (quarto e quinto) che possono essere esaminati congiuntamente per l’intima connessione sono fondati nei termini di seguito esposti.
Come è noto il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al citato D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).
Di recente le S.U. della Corte con sentenza n. 24413/2021, ha ridisegnato i contorni della comparazione che il giudice di merito è chiamato a svolgere senza discostarsi dalla lettura offerta dalla precedente decisione n. 29459/2019 in merito all’istituto della protezione umanitaria.
Il focus della comparazione, secondo il recentissimo indirizzo, va incentrato sul rispetto dei diritti umani senza che assuma rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia isolatamente considerato.
Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.
Nel caso di specie, emerge dalla lettura della sentenza impugnata che, nella valutazione in ordine al riconoscimento della misura di protezione umanitaria il giudice del merito non ha tenuto conto del livello di integrazione raggiunto dal richiedente omettendo di considerare la dedotta esistenza di un stabile rapporto lavorativo nonché l’esistenza di rapporto locativo e di legami affettivi sorti nel Paese di accoglienza, ed e’, pertanto, incorsa nella violazione della norma censurata.
Resta da aggiungere che, come di recente pure chiarito da questa Corte (Cass. n. 11178/2019), la cassazione della pronuncia impugnata con rinvio per un vizio di violazione o falsa applicazione di legge che reimposti in virtù di un nuovo orientamento interpretativo i termini giuridici della controversia così da richiedere l’accertamento di fatti, intesi in senso storico e normativo, non trattati dalle parti e non esaminati dal giudice del merito, impone, perché si possa dispiegare effettivamente il diritto di difesa, che le parti siano rimesse nei poteri di allegazione e prova conseguenti alle esigenze istruttorie conseguenti al nuovo principio di diritto da applicare in sede di giudizio di rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto e quinto motivo, rigetta i restanti,cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di Venezia anche per le spese di legittimità.
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021
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