Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33685 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27038/2019 proposto da:

O.E., rappresentato e difeso dall’avv. LOREDANA LISO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

contro

PROCURATORE GENERALE presso la CORTE di CASSAZIONE, PROCURATORE della REPUBBLICA presso la CORTE D’APPELLO di BARI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1567/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 09/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE Il sig. O., proveniente dalla regione dell’Edo state, in Nigeria, ha richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e, in subordine, quella umanitaria, raccontando di non aver più un nucleo familiare nel Paese d’origine, ad eccezione di un fratello e di una sorella, e di essersi allontanato dalla Nigeria per una patologia che lo aveva colpito all’occhio sinistro in seguito ad un incidente stradale, che i medici dell’ospedale di ***** non erano riusciti a curare.

La competente Commissione territoriale ha disatteso tutte le suddette richieste di protezione ed il ricorso del richiedente contro il provvedimento della Commissione è stato rigettato tanto dal Tribunale di Bari, quanto dalla corte di appello della stessa città.

La corte di appello non ha ravvisato la sussistenza nel Paese di origine di situazioni da cui derivasse il rischio di un grave danno alla persona, né la possibilità che il sig. O. soffrisse lesioni ai propri diritti fondamentali, né la sussistenza di qualsiasi profilo di vulnerabilità del medesimo. Con documenti attinti da siti internazionali, la corte territoriale ha argomentato che l’oggettiva situazione del Paese di provenienza dell’appellante non consentiva il riconoscimento della protezione del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett.; né emergeva, da una valutazione comparativa tra il grado di integrazione raggiunto dal richiedente in Italia e la situazione del Paese d’origine, che sussistessero i presupposti del diritto alla protezione umanitaria.

Avverso la sentenza della corte di appello il richiedente ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di cinque motivi.

Il Ministero si è costituito in giudizio ai soli fini della partecipazione alla discussione orale.

La causa è stata chiamata all’udienza camerale del 10 febbraio 2021.

Con il primo motivo di ricorso, il sig. O., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 1, e) e f), in combinato disposto con il D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 8, attinenti al riconoscimento dello status di rifugiato e alla qualificazione delle condotte che integrano una persecuzione. Il motivo è inammissibile, perché si risolve in una sintesi della normativa in materia, con una rassegna degli atti e dei motivi che possono essere qualificati come atti di persecuzione ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, che risulta del tutto scollegata dai fatti di causa e dalle motivazioni della sentenza impugnata (il sig. O. ha riferito di essersi recato in Italia non per sfuggire ad atti persecutori, ma per ricevere cure mediche).

Con il secondo motivo di ricorso, il sig. O. censura la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, g) e h) e art. 14, rispetto alla qualificazione dei trattamenti inumani e degradanti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria. Anche il secondo motivo è inammissibile, perché si risolve nella postulazione di una situazione di violazione dei diritti umani in Nigeria formulata in termini totalmente generici. Il ricorrente argomenta che “nel caso de quo le minacce provenivano da autorità pubbliche e organizzazioni che controllano lo stato o una parte consistente e che non possano fornire protezione adeguata” ma non chiarisce a quale minacce faccia riferimento.

Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente sostiene la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 8, là dove prevede che il giudice, anche d’ufficio, può procedere agli atti di istruzione necessari nelle controversie. Il motivo è inammissibile perché enuncia il contenuto della disposizione di cui lamenta la violazione ma non spiega perché la stessa sarebbe stata violata dalla sentenza impugnata, la quale non ha posto in discussione la credibilità del ricorrente ma ha rilevato che dai fatti da lui stesso narrati non emergono i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

Con il quarto motivo, il sig. O. denuncia l’apparenza della motivazione dell’impugnata sentenza e la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. In particolare, il ricorrente si duole del fatto che la Corte non avrebbe preso adeguatamente in considerazione le circostanze attinenti alla sua situazione personale. Nello specifico, non avrebbe approfondito le sue condizioni di salute e la sua difficoltà di quest’ultimo nella ricerca di un lavoro, valutando la sua integrazione soltanto considerando la documentazione (buste paga) relativa all’attività di bracciante agricolo svolta dal ricorrente. Il motivo è inammissibile, perché censura in termini totalmente assertivi la negativa valutazione del giudice in ordine alla sussistenza di ragioni di debolezza del richiedente e in ordine alla non configurabilità “in concreto neanche di alcuna forma di seria integrazione”, anche in ragione della brevità dell’esperienza lavorativa maturata dal richiedente (“dall’agosto 2018 l’attualità”, pag. 5 della sentenza).

Infine, con il quinto motivo di ricorso, il sig. O. lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3. Il ricorrente sostiene che, se tornasse nel proprio paese, si troverebbe in una condizione estrema di vulnerabilità e censura ancora l’insufficienza della valutazione della Corte d’Appello in riferimento al grado di integrazione raggiunto dal sig. O. in Italia. Il motivo è sostanzialmente reiterativo del precedente e ne segue le sorti.

Il ricorso va dichiarato inammissibile.

Non vi è luogo a regolazione di spese, in difetto di sostanziale attività difensiva del Ministero intimato.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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