Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33687 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27086/2019 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’avv. LOREDANA LISO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

contro

PROCURATORE GENERALE presso la CORTE di CASSAZIONE, PROCURATORE della REPUBBLICA presso la CORTE D’APPELLO di BARI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1616/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 18/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE Il sig. A.S., propone ricorso, sulla scorta di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 1619/2019 della Corte di appello di Bari che, confermando la pronuncia del tribunale cittadino, ha rigettato il ricorso da lui proposto avverso il provvedimento ***** della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Bari (nel prosieguo “Commissione”), la quale non aveva accolto le richieste di protezione internazionale e umanitaria da lui avanzate.

La Corte di appello di Bari ha negato la protezione internazionale sul rilievo che la vicenda narrata dal richiedente – di essere fuggito dal proprio Paese, la Nigeria, per paura di essere condannato a seguito della consumazione di un furto di petrolio in un deposito – non integrava il presupposto del diritto al riconoscimento dello status di rifugiato. Inoltre, la Corte non ha accordato la protezione sussidiaria sul rilievo che il richiedente né rischierebbe la pena di morte o trattamenti inumani e degradanti né proverrebbe da una regione della Nigeria in cui è attivo un conflitto armato. Infine, il giudice d’appello non ha concesso la protezione umanitaria, vista l’assenza di elementi idonei a dimostrare una integrazione del ricorrente nel territorio italiano (tali non sarebbero “la dichiarazione di apprendimento rilasciata dalla Regione Puglia”, cfr. pag. 4 della sentenza).

Il Ministero dell’Interno non ha presentato controricorso, ma ha depositato comparsa di costituzione ai fini della discussione orale.

La causa è stata chiamata all’adunanza in Camera di consiglio del 10 febbraio 2021.

Col primo motivo di ricorso si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) ed f) e artt. 7 e 8. Ad avviso del ricorrente, il giudice di appello non avrebbe preso in considerazione il fatto che questi aveva subito trattamenti inumani e degradanti in Libia e che quindi, avrebbe dovuto vedere riconosciuto il diritto alla protezione sussidiaria “per il rischio concreto di subire torture o maltrattamenti nel paese di rinvio”.

Il motivo è inammissibile. La doglianza sollevata è inconferente con la ratio decidendi della motivazione poiché il paese di rimpatrio è la Nigeria, e non la Libia, e questa Corte ha già chiarito che, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione (Cass. 29875/18, Cass. 24193/20).

Col secondo motivo di ricorso si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e h) e art. 14. Ad avviso del ricorrente, non sarebbero “condivisibili (…) le conclusioni della Corte di Appello di Bari nella parte in cui sosterrebbe genericamente che non vi sono i presupposti per la concessione di alcuna forma di protezione”, poiché le “notizie riguardanti la zona di provenienza del richiedente attestano ancora oggi l’esistenza di una situazione di violazione dei diritti umani” (pag. 12 ricorso).

Il motivo è inammissibile. Esso critica, con petizioni di principio e considerazioni di merito non supportate dal riferimento a pertinenti C.O.I., le argomentazioni svolte dalla corte di appello in ordine all’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

Col terzo motivo di ricorso si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 8. Ad avviso del ricorrente, né il giudice di primo grado né quello di appello avrebbero speso i loro poteri istruttori d’ufficio al fine di acquisire le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione concreta della Nigeria.

Il mezzo è inammissibile, perché si sostanzia in una doglianza generica circa il mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi del giudice.

Col quarto motivo si denuncia motivazione apparente e violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Il giudizio di credibilità del ricorrente sarebbe stato effettuato sulla scorta di soggettive opinioni del giudice di merito e non alla stregua dei criteri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Inoltre, sul punto, la motivazione sarebbe apparente perché fondata su clausole si stile, visto che non esprimerebbe un giudizio autonomo ma coinciderebbe con quella del Tribunale e, prima ancora, della Commissione. Infine, il giudice avrebbe dovuto valutare non soltanto le ragioni che spinsero il ricorrente a fuggire dalla Nigeria ma avrebbe dovuto anche valutare la situazione della Libia, paese di transito.

Il motivo è inammissibile perché non è pertinente alle motivazioni dell’impugnata sentenza, la quale non mette in discussione la credibilità del racconto del richiedente, ma giudica i fatti da costui raccontati inidonei a fondare il diritto del medesimo alla protezione internazionale.

Con quinto motivo di ricorso si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3. Ad avviso del ricorrente, vi sarebbero, nel caso in specie, dato il rischio di perdere i diritti acquisiti in Italia, gli estremi per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Anche questo motivo è inammissibile. Esso si sostanzia in petizioni di principio e in argomenti di merito del tutto generici circa l’assunto che il ricorrente, se tornasse in Nigeria, perderebbe le tutele ed i diritti acquisiti maturati in Italia.

Il ricorso va dichiarato inammissibile.

Non vi è luogo a regolazione di spese, in difetto di sostanziale attività difensiva del Ministero intimato.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato parti a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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