Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33688 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23872/2019 proposto da:

R.A., rappresentato e difeso dall’avv. FELICE PATRUNO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, PROCURATORE GENERALE presso la CORTE di CASSAZIONE;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BARI, depositato il 21/06/2019, R.G.n. 13988/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Il sig. R.A. ha proposto ricorso, sulla scorta di due motivi, per la cassazione del decreto del tribunale di Bari, Sezione specializzata in materia di immigrazione, che, rigettando la domanda da questi formulata, ha integralmente confermato il provvedimento di diniego della protezione internazionale e umanitaria emesso dalla competente Commissione territoriale.

Il tribunale barese osserva, in primo luogo, che la domanda di protezione si fonda su un conflitto di carattere meramente privatistico. Il ricorrente, originario del Pakistan, nato e vissuto nel distretto di Mandi Bahauddin, afferma di essere fuggito perché minacciato dai fratelli della sua fidanzata, i quali si opponevano al loro matrimonio, al punto di uccidere quest’ultima una volta scoperto il progetto dei due di scappare insieme. Il sig. R., a seguito di questo episodio, fugge a Lahore dove vive per sette anni fino all’espatrio.

Il racconto del richiedente presenta, secondo il tribunale, tratti ampiamente contraddittori e deficitari, il che dimostrerebbe che costui non ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la sua domanda. Non sussisterebbero quindi, per il tribunale, i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, né elementi idonei a fondare il pericolo di un danno grave alla persona ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. La prospettata esigenza di tutela manca di attualità, essendo il richiedente rimasto nel Paese d’origine per altri sette anni dopo l’accaduto, sicché, se i fratelli della ragazza avessero voluto ucciderlo, avrebbero potuto farlo.

In ordine alla protezione sussidiaria di cui alla lett. c) del citato art. 14, dai rapporti EASO risulterebbe che soltanto nel sud del Punjub sussiste una condizione di violenza generalizzata, fonte di pericolo per ogni civile presente sul territorio, non anche nel nord-est del Pakistan, distretto di Mandi Bahauddin, di provenienza del richiedente.

In merito alla richiesta di asilo costituzionale, il tribunale osserva che il diritto d’asilo è interamente attuato dai tre istituti di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria e umanitaria) e regolato dalle rispettive previsioni normative.

Infine, il tribunale rigetta la domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, non risultando un’effettiva lesione dei diritti fondamentali del richiedente, né una specifica situazione denotante vulnerabilità del soggetto. L’integrazione socio-economica raggiunta in Italia non è di per sé bastevole ai fini del riconoscimento di questa forma residuale di protezione e, in ogni caso, non vale a radicarla la circostanza di lavorare due giorni a settimana in una pizzeria, percependo una retribuzione non sufficiente a soddisfare in modo congruo le necessità di vita del ricorrente.

Il Ministero dell’Interno non ha espletato attività difensive.

La causa è stata chiamata all’adunanza di Camera di consiglio del 10 febbraio 2021, per la quale non sono state presentate memorie.

Con il primo motivo di ricorso, riferito dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il sig. R.A. deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 8 e 11, in combinato disposto con l’art. 16 della direttiva n. 32/2013, per non avere il tribunale, pur in assenza della disponibilità della videoregistrazione dell’audizione compiuta dalla Commissione territoriale, proceduto alla fissazione dell’udienza per la comparizione delle parti e per l’audizione personale del richiedente. L’audizione di quest’ultimo – si argomenta nel motivo – integra un necessario approfondimento a tutela del diritto di difesa, che consente di spiegare e chiarire eventuali incongruenze o contraddizioni nelle dichiarazioni rese innanzi alla Commissione.

Il motivo va rigettato. Questa Corte ha chiarito, nella sentenza n. 25439/20, che “in materia di protezione internazionale, ove venga impugnato il provvedimento di diniego della commissione territoriale e non sia disponibile la videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza di comparizione delle parti ma, se non sono dedotti fatti nuovi o ulteriori temi d’indagine, non ha l’obbligo di procedere all’audizione del richiedente, salvo che quest’ultimo non ne faccia espressa richiesta deducendo la necessità di specifici chiarimenti, correzioni e delucidazioni sulle dichiarazioni rese in sede amministrativa. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso dello straniero affermando che, non avendo adempiuto a tale onere di allegazione, non aveva diritto di essere nuovamente sentito solo perché vi erano contraddizioni e incongruenze nella versione dei fatti già narrati)”. Dall’epigrafe dell’impugnato decreto si rileva che esso è stato emesso “a scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza del 18/04/2019”; l’udienza, quindi, fu celebrata, mentre non rileva la mancata audizione del richiedente; donde l’infondatezza della doglianza.

Con il secondo motivo di ricorso, riferito dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il sig. R.A. deduce la violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e 19, comma 2 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 32. Si contesta il mancato riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in ragione della condizione di vulnerabilità del richiedente, che andava riscontrata valutando l’inserimento sociale raggiunto in Italia, di cui la stabile occupazione è certamente un indice significativo, e confrontandolo con quello che troverebbe in caso di rimpatrio nel Paese d’origine, dove il ricorrente andrebbe incontro alla mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza dignitosa, nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale.

Il motivo è inammissibile perché prospetta censure di merito: il tribunale ha valutato gli indici di integrazione sociale e lavorativa addotti dal richiedente, ritenendoli non sufficienti a fondare la concessione della protezione umanitaria ed ha escluso la condizione di vulnerabilità del soggetto. Il mezzo di ricorso tende dunque ad una nuova valutazione di tali presupposti, vale a dire ad un nuovo apprezzamento di fatto, inammissibile in sede di legittimità.

Il ricorso è rigettato.

Nulla sulle spese, essendo il Ministero rimasto intimato.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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