Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.33689 del 11/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25237/2019 proposto da:

B.I., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO BORSIERI n. 12, presso lo studio dell’avvocato ANGELO AVERNI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIOVITO ALTAMURA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BARI, depositato il 24/07/2019, R.G.n. 16806/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Il sig. B.I. ha proposto ricorso, sulla scorta di due motivi, per la cassazione del decreto del tribunale di Bari, Sezione specializzata in materia di immigrazione, che, rigettando la domanda da questi formulata, ha integralmente confermato il provvedimento di diniego della protezione internazionale ed umanitaria emesso dalla competente Commissione territoriale.

Il ricorrente, originario del Pakistan, aveva affermato di essere fuggito dal suo Paese per timore di essere ucciso dai familiari della ragazza con cui aveva intrapreso una relazione sentimentale, i quali si opponevano a tale relazione per essere lui sunnita e lei sciita, giungendo sino a uccidere la ragazza e a tentare di uccidere esso ricorrente.

Il tribunale ritiene non sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo dedotte situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta, ed esclude la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non essendo allegate circostanze suscettibili di rientrare nella nozione di “danno grave”. Nonostante la diffusione in Pakistan di fenomeni di violenza contro le donne e di omicidi dei parenti in nome dell’onore, il racconto del richiedente difetta di coerenza interna, appare vago e generico e contraddittorio.

Il tribunale esclude, altresì, la protezione sussidiaria di cui dell’art. 14, lett. c), in quanto le fonti internazionali citate non consentono di rilevare una violenza indiscriminata nel distretto di Mandi Bahauddin, di provenienza del ricorrente, concentrandosi i fenomeni di conflittualità nel sud del Punjab e non avendo il ricorrente addotto elementi peculiari inerenti la sua situazione personale.

Infine, il tribunale rigetta la domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari, non riscontrando un’effettiva lesione dei diritti fondamentali del richiedente, né una specifica situazione denotante vulnerabilità del soggetto, anche in considerazione del fatto che in patria il ricorrente era perito elettronico e, dunque, non versava in condizione di disoccupazione o difficoltà economica. L’integrazione socio-economica raggiunta in Italia, argomenta poi il tribunale, non è di per sé bastevole ai fini del riconoscimento di questa forma residuale di protezione e, in ogni caso, non vale a radicarla la documentazione prodotta, attestante la conoscenza della lingua italiana ed un contratto di lavoro a tempo determinato.

Il Ministero dell’Interno ha presentato controricorso.

La causa è stata chiamata all’adunanza di Camera di consiglio del 10 febbraio 2021, per la quale non sono state depositate memorie.

Con il primo motivo di ricorso, riferito dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il sig. B.I. deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 35 bis, comma 9 e D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 14, per avere il tribunale negato la protezione sussidiaria senza esaminare la situazione socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, venendo meno al dovere di cooperazione istruttoria. Il ricorrente allega diversi frammenti tratti da siti internet citati, dai quali si desume la diffusione dei delitti d’onore in Pakistan e l’incapacità delle autorità ivoriane di offrire adeguata protezione, contestando al tribunale di aver omesso qualsivoglia indagine sul punto.

Il motivo è inammissibile perché sollecita una rivalutazione del merito. Il tribunale cita un rapporto EASO 2017 sul Pakistan dal quale desume che i fenomeni di conflittualità generalizzata e di terrorismo sono concentrati nel sud della regione Punjab; per altro verso, riconosce – richiamando un rapporto di Amnesty International – la diffusione in Pakistan di violenze contro le donne e di omicidi dei parenti in nome dell’onore, ritenendo, tuttavia, il racconto del richiedente eccessivamente vago e generico sul punto e supportando tale giudizio con una motivazione esplicita e non adeguatamente censurata.

Con il secondo motivo di ricorso, riferito dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il sig. B.I. deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 30 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Il ricorrente contesta ancora una volta la violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria, in particolare del giudice, con riferimento alla sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria, che richiede di accertare la situazione di vulnerabilità del richiedente in concreto ed il rischio in caso di rimpatrio di andare incontro a sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani. Considerata la struttura bifasica del giudizio D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, si argomenta nel mezzo di gravame, il giudizio di impugnazione/opposizione determina devoluzione totale al tribunale della situazione soggettiva oggetto dell’invocata protezione, dovendosi valutare la fondatezza della domanda di protezione a prescindere dagli specifici motivi di ricorso, tenendo conto delle allegazioni del ricorrente e delle risultanze istruttorie acquisite d’ufficio.

Anche il secondo motivo va disatteso.

Il ricorrente si sofferma sui presupposti normativi per il riconoscimento della protezione in discorso e della condizione di vulnerabilità e di privazione dei diritti umani in termini generali, senza misurarsi specificamente con la motivazione del decreto impugnato. La riflessione sulla natura bifasica del giudizio – con conseguente integrale devoluzione al tribunale, quale giudice dell’opposizione, della situazione soggettiva del richiedente – sovrappone il piano dell’allegazione e il piano dell’accertamento dei fatti. Certamente il tribunale ha sulla domanda di protezione cognizione piena e sganciata dai motivi addotti, ma ciò non può supplire alle carenze nelle allegazioni di parte. Si veda Cass. ord. n. 19177/2020: “In tema di protezione internazionale, una volta che il richiedente abbia assolto l’onere di allegare i fatti costitutivi del proprio diritto, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria – e, cioè, di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari – è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non si estende alle condizioni individuali del soggetto richiedente, essendo evidente che il giudice, mentre è tenuto a verificare, anche d’ufficio, se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente medesimo, non può, al contrario, essere chiamato a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale di costui, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5”.

Il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza.

Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere al Ministero controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.100, oltre spese prenotate a debito.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021

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