Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.33785 del 12/11/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12930/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

F. CAMICIE Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Armando Ceccoli giusta procura speciale a margine del ricorso ed elettivamente domiciliata in Roma, nella via Mantegazza n. 24 presso lo studio Gardin;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 601/1/2013 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, depositata in data 2 dicembre 2013;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 27.5.2021 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini;

Lette le conclusioni depositate, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020 n. 176, dal Procuratore Generale presso questa Corte, in persona del Sostituto Dott. Visonà Stefano, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Società F. CAMICIE Srl impugnò l’accertamento per la annualità 2004 con cui la Agenzia delle Entrate, sulla base di un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza -che aveva ritenuto l’indebito utilizzo da parte della contribuente del regime agevolativo connesso al deposito fiscale IVA poiché le società SAIMA AVANDERO Spa e WORK SYSTEM Srl erano risultate gestori di depositi fiscali fittizi dei quali si era virtualmente servita la società F. Camicie – aveva recuperato a tassazione l’IVA, che non poteva essere detratta perché le merci erano state sottratte al pagamento dell’IVA interna al momento della loro destinazione alla società intimata, nonché i costi fittiziamente sostenuti dalla F. Camicie per le inesistenti operazioni di deposito, ritenuti indeducibili in quanto riconducibili ad operazioni inesistenti.

La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, con sentenza n. 174/31/2012, in accoglimento del ricorso della società contribuente, annullò l’accertamento ritenendo che, in applicazione della interpretazione autentica dell’istituto del deposito IVA di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, convertito dalla L. n. 427 del 1993, per effetto della L. 28 gennaio 2009, n. 2, art. 16, comma 5-bis, di conversione del D.L. n. 185 del 2008, il passaggio della merce negli spazi limitrofi o adiacenti al deposito fiscale fosse equiparabile alla loro introduzione.

L’Agenzia delle Entrate lamentò con l’appello come, sulla base delle dichiarazioni concordanti dell’amministratore e dei dipendenti della società di trasporto e delle bolle di accompagnamento della merce estera, non risultava come destinataria la società di gestione del deposito IVA, bensì la stessa impresa intimata, per cui la merce in molti casi neppure transitava per il detto deposito e in quelli in cui era indicata come destinazione il deposito fiscale la permanenza era minima, non emergendo neppure che fosse stata stoccata né che venisse gestito il deposito, posto che la società SAIMA AVANDERO non aveva registri di deposito e tutta la sua contabilità era inattendibile, il che rendeva indebita sia la detrazione dell’IVA, che era risultata non versata per la simulazione posta in essere con l’utilizzo dell’autofatturazione, sia la deduzione dei relativi costi. La Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 601/1/2013 depositata il 2 dicembre 2013, ritenne l’appello solo parzialmente fondato poiché il mancato riconoscimento delle agevolazioni ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 4, lett. b), comportava il recupero dell’IVA da parte della Agenzia delle Dogane, non pagata in Dogana all’atto dello sdoganamento, ma non anche il recupero dei costi indicati in autofattura dalla Società F. Camicie per cui doveva essere dichiarata l’illegittimità dell’avviso di accertamento per il recupero dei costi ritenuti indeducibili ai fini IRES ed IRAP per complessivi Euro 477.644,00, mentre doveva essere riconosciuta la legittimità della rettifica della dichiarazione per l’IVA per Euro 156,00 ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate con atto notificato in data 19 maggio 2014 e successiva memoria, cui ha resistito la società F. Camicie con controricorso.

Il ricorso, già assegnato alla Sesta Sezione, è stato successivamente chiamato alla odierna udienza pubblica.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 11 maggio 2021 conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con un unico motivo la ricorrente denuncia violazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 5, convertito dalla L. n. 472 del 1993 e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto la competenza esclusiva e tassativa dell’Agenzia delle Dogane per il recupero dell’IVA all’importazione con esclusione della competenza dell’Agenzia delle Entrate sul controllo dell’IVA interna, da versarsi al momento della introduzione della merce nel mercato interno, nonché della relativa indeducibilità dei costi nell’ipotesi in cui si contesti l’utilizzo fraudolento di detti depositi, i quali non costituiscono i concreti e reali destinatari iniziali della merce, così confondendo l’IVA all’importazione, che non va versata, atteso che la merce transita temporaneamente in un deposito autorizzato, con il normale potere di accertamento degli uffici delle entrate, previsto dal citato art. 50, comma 5, sulle detrazioni IVA e relative deduzioni di costi per le merci che risultano transitate in depositi di cui si è accertata la natura virtuale, come nel caso in esame in cui la verifica aveva consentito di accertare la natura fittizia del deposito di cui si erano serviti i cessionari dei beni in modo fraudolento e quindi di recuperare l’IVA interna.

2. La contribuente, con il controricorso, ha opposto che la premessa da cui era partita la Agenzia delle Entrate ricorrente – e cioè che la sentenza impugnata avesse ritenuto che l’accertamento della detrazione IVA e della deduzione dei relativi costi dei beni transitati in depositerie accertate poi come virtuali fosse riservato all’Agenzia delle Dogane – era erronea poiché l’esame della sentenza, raffrontata con le argomentazioni sviluppate dall’Agenzia delle Entrate con l’atto di appello, dimostrava che l’appello era stato in parte rigettato con motivazione diversa da quella sostenuta dall’Agenzia delle Entrate nel ricorso per cassazione. In ogni caso la pretesa della Dogana sarebbe stata illegittima in quanto il tributo era stato già assolto con la procedura dell’autofatturazione e il nuovo pagamento avrebbe dato luogo ad una duplicazione della riscossione dell’imposta.

3. Con successiva memoria in data 13 ottobre 2015 la Agenzia delle Entrate, in risposta alla relazione per la camera di consiglio del 25 novembre 2015, inizialmente fissata davanti alla Sesta Sezione di questa Corte, ha rilevato che, qualora il deposito sia solo virtuale e quindi la merce non transiti effettivamente nel deposito virtuale beneficiando di una sospensione di imposta non dovuta, il cessionario, emettendo autofattura sulla base di una operazione in realtà inesistente, elude l’IVA dovuta al momento dell’ingresso dei beni nel territorio italiano ed emettendo autofattura solo al momento di immissione del bene nel mercato interno, fruisce della detrazione dell’IVA, così ponendo in essere una operazione soggettivamente inesistente con conseguente indetraibilità dell’IVA cui il contribuente avrebbe potuto sottrarsi sono mediante dimostrazione della sua completa estraneità rispetto al meccanismo evasivo sotteso alla inesistenza del soggetto emittente la fattura; e comunque l’irregolarità dell’intera operazione commerciale posta in essere dal cedente, che aveva utilizzato il regime connesso al deposito IVA, in realtà solo virtualmente, non esimeva dall’applicazione di sanzioni amministrative per ritardato versamento dell’IVA.

4. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con le conclusioni scritte depositate in data 11 maggio 2021, ha chiesto il rigetto del ricorso poiché lo stesso non si era misurato con la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non aveva respinto la pretesa dell’Agenzia delle Entrate per averla ritenuta “incompetente” sul controllo dell’IVA interna e sul recupero delle imposte asseritamente omesse, come dedotto con il motivo di ricorso, mentre aveva ritenuto, in sostanza, che la violazione delle regole del regime agevolativo del deposito IVA non comportava di per sé la prova dell’inesistenza delle relative operazioni di acquisto e non giustificava, pertanto, il recupero delle imposte per disconoscimento dell’effettività dei costi dedotti.

5. Il ricorso è inammissibile.

5.1. La motivazione della sentenza impugnata, al di là di alcune superabili contraddizioni interne (laddove, ad esempio, sostiene, dapprima che l’appello è infondato mentre poi lo accoglie parzialmente sia nella motivazione che nel dispositivo) e di alcuni refusi nella indicazione delle somme, nella sostanza, dopo la trascrizione di alcune disposizioni legislative e la premessa che la mancata introduzione nel deposito fiscale della merce importata comporta la responsabilità solidale tra gestore e soggetto passivo per la mancata applicazione dell’imposta (IVA), è testualmente ed esclusivamente questa: “Invero il mancato riconoscimento delle agevolazioni contenute nel D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 4, lett. b), comporta il recupero dell’IVA, da parte della Agenzia delle Dogane, non pagata in dogana all’atto dello sdoganamento della merce e non anche il recupero dei costi indicati in autofattura dalla F. Camicie Srl, in base al metodo del reverse charge, previsto sia per gli acquisti intracomunitari sia per le importazioni con l’introduzione della merce nel deposito IVA. Per tali motivi va dichiarata l’illegittimità dell’avviso di accertamento riguardo al recupero dei costi ritenuti indeducibili riconducibili ad operazioni per complessivi Euro 477.644,00 ai fini IRES e IRAP, mentre va riconosciuta la legittimità della rettificava della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, l’IVA per Euro 156,00”.

5.2. Orbene, tale essendo la ratio decidendi della sentenza impugnata, il ricorso è completamente disallineato rispetto alla stessa, poiché la Agenzia delle Entrate ricorrente deduce la violazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 5, convertito dalla L. n. 427 del 1993 per avere la sentenza impugnata ritenuto “riservata all’Agenzia delle Dogane….la competenza funzionale all’accertamento del diritto alla detrazione IVA e alla deduzione dei relativi costi di beni acquistatati mediante il transito in depositerie, accertate poi come virtuali”, mentre invece l’art. 50-bis, riconosceva che l’Ufficio delle Entrate era “legittimato ad eseguire controlli per il rispetto degli adempimenti fiscali connessi alla gestione ed utilizzo dei depositi IVA, potendo recuperare l’eventuale detrazione dell’IVA operata dal soggetto destinatario finale della merce depositata, qualora si accerti – come nella fattispecie – mediante verifica fiscale, la natura virtuale del deposito, trattandosi in tal caso di accertamento e recupero di IVA interna” e cioè una censura ad una argomentazione che non si trae dalla sentenza impugnata e che comunque non costituisce la giustificazione della decisione impugnata che non è fondata in alcun modo sulla competenza funzionale dell’organo deputato all’accertamento nel caso in esame, avendo invece dichiarato la legittimità della rettifica operata dalla Agenzia delle Entrate ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, per l’IVA sulla base del mancato riconoscimento delle agevolazioni contenute nel D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 4, lett. b), che comportava il recupero dell’IVA da parte dell’Agenzia delle Dogane, non pagata in Dogana all’atto dello sdoganamento della merce ed invece l’illegittimità dello stesso accertamento riguardo al recupero dei costi, ritenuti dall’Agenzia delle Entrate indeducibili, riconducibili ad operazioni per complessivi Euro 477.644,00.

5.3. Il richiamo, da parte della sentenza impugnata, alla Agenzia delle Dogane non è infatti collegato alla competenza funzionale dell’una o dell’altra agenzia fiscale in ordine alla emissione dell’atto di accertamento quanto piuttosto alle conseguenze del mancato riconoscimento delle agevolazioni di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50-bis, comma 4, lett. b, indipendentemente dalla competenza alla emissione dell’atto di accertamento e sulla effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata il ricorso non muove alcuna censura limitandosi a chiedere (pag. 7 del ricorso, con cui viene operata la sintesi del motivo di ricorso) che “la Suprema Corte affermi la legittimità degli Uffici delle Entrate nell’esercizio dei poteri di accertamento e riscossione dell’IVA indebitamente detratta ovvero nel disconoscimento dei costi d’impresa legati all’acquisto di beni transitati in depositerie, di cui sia stata accertata la natura virtuale” e cioè una statuizione che non costituiva in alcun modo oggetto di una contestazione giudiziale effettiva e di una conseguente pronuncia da parte della sentenza impugnata.

5.4. Ciò comporta la inammissibilità del ricorso il quale deve contestare specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017 Rv. 645361 – 01), essendo inammissibile il ricorso ove dalla sua lettura non sia possibile desumere una sufficiente conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, al fine di comprendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata, come nell’ipotesi in cui non vengano adeguatamente riportate né la “ratio decidendi” della pronuncia del giudice, né le ragioni di fatto e di diritto che sostenevano le rispettive posizioni delle parti nel giudizio di merito (v. Cass. Sez. L, Sentenza n. 2831 del 05/02/2009 Rv. 606521 01).

5.5. Solo con la memoria difensiva l’Agenzia delle Entrate ha cercato di introdurre un argomento avente attinenza con la ratio della decisione impugnata, in riferimento non più ad una questione di competenza funzionale dell’organo che aveva emesso l’atto impugnata (che non aveva mai costituito oggetto di contestazione fra le parti e neppure motivo di annullamento dell’atto impugnato da parte delle sentenze di merito) quanto piuttosto alla inesistenza soggettiva della operazione, in presenza di un deposito virtuale, trattandosi di operazione realmente effettuata ma da soggetti diversi da quelli che figurano nella correlativa documentazione contabile fiscalmente rilevante, con conseguente indetraibilità dell’IVA e comunque l’applicabilità delle sanzioni amministrative per ritardato versamento dell’IVA qualora l’IVA fosse stata nel frattempo versata. Però si tratta di questione completamente diversa da quelle dedotte con il ricorso per cassazione e che non risulta neppure sia stata posta nel giudizio di merito, con la conseguenza che non può essere prese in esame in questa sede.

5.6. La memoria difensiva dell’Agenzia ha preso atto, sul punto, delle controdeduzioni della società contribuente – la quale ha allegato alle pagine 9 e 10 delle controdeduzioni il sopravvenuto pagamento dell’IVA con la procedura dell’autofatturazione, il che avrebbe comportato la illegittimità di qualsiasi pretesa della Dogana poiché il nuovo pagamento avrebbe dato luogo ad una duplicazione della riscossione dell’imposta – e pare quindi limitare la pretesa fiscale all’applicazione della sanzione per tardivo versamento dell’imposta, ponendosi in linea con la sentenza resa dalla Corte di giustizia il 17 luglio 2014 nel caso Equoland (causa C-272/13) che ha ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui al D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, comma 4, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 427 del 1993, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sia pur tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell’IVA, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione (e di ciò ha preso atto questa Corte con le pronunce Sez. 6 – 5, Sentenza n. 17815 del 08/09/2015 Rv. 636442 – 01; Sez. 6 – 5, Decreto n. 10911 del 26/05/2016 Rv. 639994 – 01 e successive conformi); ma, come già rilevato, la questione esula completamente dall’oggetto del motivo di ricorso rispetto al quale risulta del tutto disallineata.

6. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente, mentre non sussistono i presupposti per l’applicazione della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1.17, con il quale è stato modificato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, mediante l’inserimento del comma 1-quater, poiché tale disposizione non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016 Rv. 638714 -01).

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della controricorrente che liquida in Euro 5.600,00, oltre ad Euro 200 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021

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