In tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, commi 1 e 3, del D.P.R. 600/1973, l’avviso di accertamento è valido quando risulta sottoscritto dal capo dell’ufficio o da un funzionario delegato appartenente alla carriera direttiva (area III), senza necessità della qualifica dirigenziale.
La dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, D.L. 16/2012, relativa al conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari privi di concorso, non incide sulla validità degli atti impositivi già sottoscritti da tali funzionari, poiché detta pronuncia riguarda esclusivamente il rapporto interno di impiego e non la capacità dell’ufficio di manifestare validamente la propria volontà tramite funzionari della carriera direttiva.
Ne consegue che la validità dell’avviso deve essere verificata solo alla luce dell’art. 42 D.P.R. 600/1973, restando irrilevante ogni ricaduta del giudizio di incostituzionalità sul piano dell'efficacia degli atti amministrativi già emessi.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –
Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10864/2016 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– ricorrente –
contro
MERCATONE ZC s.a.s. di C.X. rappresentato e difeso giusta delega in atti dagli avvocati Roberto Cusimano, Vittorio Giordano e Massimo Castrucci con domicilio eletto presso i primi due ridetti difensori in Roma, presso lo studio Ludovici & partners in Via Sicilia n. 66;
– controricorrente e ricorrente incidentale condizionate –
Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 4657/32/15 depositata il 29/10/2015 non notificata;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 17/09/2021 dal Consigliere Roberto Succio.
RILEVATO
che:
– con la sentenza di cui sopra la CTR ha respinto l’appello dell’Ufficio e l’appello del concessionario per la riscossione, confermando quindi la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittima la cartella impugnata, per iva 2008;
– avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate con atto affidato a due motivi; la contribuente società resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato articolato in un unico mezzo di impugnazione; deposita memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
CONSIDERATO
che:
– con il primo motivo di ricorso l’Amministrazione Finanziaria censura la sentenza impugnata per la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13, nonché del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 12 e 14, degli artt. 51 e 168 L. Fall., e del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 48 e 73, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente fondato la decisione sulla violazione dell’obbligo di preventiva escussione del cedente, ritenuta condizione da soddisfare per potere rivolgere la pretesa nei confronti del cessionario; il motivo contiene poi un ulteriore profilo di doglianza incentrata sulla mancata considerazione da parte della CTR di come in ogni caso il beneficium excussionis non avrebbe potuto operare a favore del cessionario stante la sottoposizione del cedente a procedura concorsuale;
– il secondo motivo di ricorso si incentra sull’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la CTR mancato di considerare gli elementi indicati dall’Ufficio dai quali era possibile evincere l’insussistenza di prospettive di realizzazione del credito erariale per incapienza del patrimonio della società cedente, S. s.r.l. in liquidazione, che era assoggettata a concordato preventivo;
– i motivi, tra di loro strettamente connessi, possono esaminarsi congiuntamente e, con le precisazioni che seguono, sono fondati;
– la CTR ha ritenuto, annullando l’atto impugnato, che prima di emettere la cartella nei confronti del cessionario dell’azienda ceduta, odierno controricorrente, era necessario escutere il cedente e “solo in caso di incapienza” escutere quest’ultimo, sempre nei limiti del valore del ramo d’azienda conferito;
– va quindi preliminarmente rigettata l’eccezione di inammissibilità di cui al controricorso; l’Erario censura con il proprio atto l’unica ratio decidendi della pronuncia d’appello, risultando il profilo del valore di ramo d’azienda a fine dell’escussione irrelato con la questione posta in causa, che riguarda la legittimità della cartella come meglio si dirà;
– venendo allora alla questione posta, la stessa va risolta alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza n. 28709 del 16/12/2020, hanno statuito il principio cosi massimato “in tema di riscossione ed esecuzione a mezzo ruolo di tributi il cui presupposto impositivo sia stato realizzato dalla società e la cui debenza risulti da un avviso di accertamento notificato alla società e da questa non impugnato, il socio può impugnare la cartella notificatagli eccependo (tra l’altro) la violazione del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale. In tal caso, se si tratta di società semplice (o irregolare) incombe sul socio l’onere di provare che il creditore possa soddisfarsi in tutto o in parte sul patrimonio sociale; se si tratta, invece, di società in nome collettivo, in accomandita semplice o per azioni, è l’amministrazione creditrice a dover provare l’insufficienza totale o parziale del patrimonio sociale (a meno che non risulti “aliunde” dimostrata in modo certo l’insufficienza del patrimonio sociale per la realizzazione anche parziale del credito, come, ad esempio, in caso in cui la società sia cancellata). Ne consegue che, se l’amministrazione prova la totale incapienza patrimoniale, il ricorso andrà respinto; se, invece, il coobbligato beneficiato prova la sufficienza del patrimonio, il ricorso andrà accolto. Se la prova della capienza è parziale, il ricorso sarà accolto negli stessi limiti. Se nessuna prova si riesce a dare, l’applicazione della regola suppletiva posta dall’art. 2697 c.c., comporterà che il ricorso sarà accolto o respinto, a seconda che l’onere della prova gravi sul creditore, oppure sul coobbligato sussidiario”;
– tale sentenza, seppur resa sulla specifica questione relativa all’impugnabilità della cartella di pagamento, notificata al socio illimitamente responsabile in relazione a debiti della società, a causa della mancata preventiva escussione del patrimonio sociale, statuisce, in motivazione, principi in materia di beneficium excussionis, applicabili anche al cessionario di azienda alla luce di quanto sancito dal D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, art. 14, comma 1. Quale primo principio le Sezioni Unite, risolvendo l’insorto contrasto giurisprudenziale, hanno statuito, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 114 del 2018, la possibilità per il cessionario di far valere la natura sussidiaria della propria obbligazione, eccependo il beneficium excussionis, tramite l’impugnazione della cartella innanzi al Giudice tributario (v.pag.12 di Sez.Un. 28709/20 cit.) ma, al contempo, hanno anche sancito che, essendo pur sempre il coobbligato beneficiato a dover far valere il beneficio al fine di impedire che inizi l’esecuzione vera e propria, non si configura alcuna impossibilità di notificare al coobbligato sussidiario la cartella prima dell’escussione dei beni dell’obbligato principale;
– ne deriva l’ulteriore principio per cui “la violazione del beneficium excussionis non configura un vizio proprio della cartella, perché la relativa deduzione è eccezione che va a integrare autonoma causa petendi di impugnazione appartenente al perimetro dell’esecuzione. Inoltre la mera violazione dell’ordine che il creditore deve seguire per fare valere le proprie ragioni non può di per sé comportare la caducazione delle pretesa rivolta al socio, ma al più può fondare la richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’atto riscossivo impugnato, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 47” (v. pagg. 17-18 Sez. Un. 28709/20 cit. e sul punto anche Cass. n. 14736 del 2021);
– sotto questo profilo, la lettura dei principi appena illustrati, diversamente da quanto sostenuto in memoria, non preclude affatto la tutela in esecutivis al contribuente che, dopo la notifica della cartella, intenda eccepire il benficium excussionis; come chiaramente precisato ancora dalle Sezioni Unite di questa Corte sebbene il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, si limiti a individuare gli atti di cui possono conoscere le commissioni tributarie, senza precisare quale possa essere l’oggetto del giudizio, deriva chiaramente dal sistema che anche in materia tributaria si possono svolgere contestazioni a tutto tondo: chi ricorre contro atti relativi a crediti tributari è quindi ammesso a denunciarne l’irregolarità formale, introducendo contenuti analoghi a quelli che, nel sistema del codice di rito, rientrano nel perimetro dell’opposizione agli atti esecutivi (in termini, Cass., sez. un., 5 maggio 2011, n. 9840; sez. un., 17 aprile 2012, n. 5994); ma egli è anche ammesso, qualora non si siano formate preclusioni, a contestare il diritto del creditore di procedere esecutivamente, introducendo contenuti analoghi a quelli che, nel sistema del codice di rito, appartengono al perimetro dell’opposizione all’esecuzione. Laddove restano esclusi dalla giurisdizione tributaria gli atti dell’esecuzione tributaria successivi alla notificazione, effettivamente e validamente eseguita, della cartella o dell’intimazione di pagamento (Cass., sez. un., n. 7822/20, cit., punto 3.5.). Ne’ avrebbe senso una tutela aggiuntiva dinanzi alla giurisdizione ordinaria (del resto esclusa da Corte Cost. n. 114/18), magari al solo fine di ottenere la sola tutela prevista dall’art. 615 c.p.c., comma 1, ossia la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo: il giudice tributario, difatti, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 47, investito del giudizio d’impugnazione di atti della riscossione, può appunto sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato, qualora al ricorrente possa derivare dall’atto un danno grave e irreparabile, e, quindi, può disporre per quest’aspetto tutele corrispondenti a quelle interne al procedimento di opposizione all’esecuzione (Corte Cost. n. 114/18, punto 9, ultimo cpv; Cass., sez. un., n. 7822/20, cit., punto 3.8.1);
– applicando i superiori principi al caso in esame deve escludersi la nullità della cartella per il sol fatto che l’emissione della stessa e l’iscrizione a ruolo non siano stati preceduti dalla preventiva escussione del cedente il ramo di azienda;
– inoltre, poiché secondo la già citata pronuncia delle Sezioni Unite la responsabilità sussidiaria può scattare soltanto quando il creditore non riesca a soddisfarsi, in tutto o in parte, sui beni dell’obbligato principale (e del resto, quando l’incapacità patrimoniale della società è accertata con sentenza che ne dichiara il fallimento, la legge ammette, immediatamente e senza attendere i risultati dell’esecuzione concorsuale, l’azione esecutiva del creditore sociale sul patrimonio del socio, facendo conseguire al fallimento della società quello dei soci illimitatamente responsabili ex art. 147 L. Fall.) è sul socio che incombe l’onere di provare che il creditore può agevolmente soddisfarsi sul patrimonio sociale (arg. da Cass. 15 dicembre 1990, n. 11921 e da Cass. n. 7000 del 2003);
– nel caso della società in nome collettivo e di quelle in accomandita semplice e per azioni, così come nella relazione tra cedente e cessionario che qui ci occupa, l’onere della prova s’inverte: qui è il creditore a dover provare l’insufficienza del patrimonio sociale. Nondimeno, quando risulti aliunde dimostrata in modo certo l’insufficienza del patrimonio sociale per la realizzazione anche parziale del credito (ad esempio, in caso in cui la società sia cancellata), non c’e’ necessità per il creditore di sperimentare l’azione esecutiva sul patrimonio della società (Cass. n. 4606/83, cit.);
– nella presente controversia, il Giudice di merito non ha effettivamente compiuto alcun esame sulla circostanza che l’incapienza patrimoniale della cedente il ramo d’azienda risultasse aliunde oppure in ordine all’assolvimento o meno dell’onere probatorio che le Sezioni Unite variamente distribuiscono al fine di ritenere o meno fondata l’eccezione con cui il contribuente ritenga di avvalersi del beneficium excussionis, previsto dalla norma in esame. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte il motivo, allora, va accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al Giudice del merito, affinché proceda al riesame, adeguandosi ai superiori principi, e regoli le spese del giudizio di legittimità;
– per le sopra esposte ragioni, quindi, il ricorso principale è accolto;
– deve quindi esaminarsi il motivo di ricorso incidentale della società contribuente; esso verte sulla violazione e falsa applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, del D.L. n. 150 del 2013, art. 1, comma 14, del D.L. n. 192 del 2014, art. 1, comma 8, della sentenza della Corte Costituzionalen. 37 del 2015, nonché della L. n. 87 del 1953, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, per avere la CTR erroneamente ritenuto che la declaratoria di illegittimità costituzionale che ha investito le ridette disposizioni di rango legislativo non travolga gli atti amministrativi emanati in base delle stesse;
– il motivo è infondato;
– questa Corte ha ripetutamente affermato (tra le molte, vedasi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015; Sez. 5, Ordinanza n. 14851 del 14 giugno 2017; Sez. 5, Ordinanza n. 5177 del 26/02/2020) che in tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito nella L. n. 44 del 2012 (principio affermato ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3);
– tal sentenza del giudice delle Leggi riguarda infatti il solo aspetto attinente al citato D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito con mod. nella L. n. 44 del 2012, dichiarato illegittimo per il fatto di consentire alle Amministrazioni Finanziarie l’attribuzione di incarichi dirigenziali a propri funzionari fino all’espletamento delle procedure concorsuali. Tuttavia, i due aspetti – quello della dirigenza e quello della validità degli atti anteriormente sottoscritti da impiegati della carriera direttiva, preposti agli uffici finanziari o delegati – non sono, per quanto esposto, in modo alcuno confondibili, non essendo previsto che gli avvisi di accertamento promanino, per essere imputabili all’Amministrazione finanziaria, da soggetti aventi qualifiche dirigenziali. Cosicché non è utile ai fini specifici insistere oltre, circa la portata retroattiva ordinariamente ascrivibile alla citata declaratoria di incostituzionalità, per il semplice fatto che quella declaratoria resta irrilevante quanto alla soluzione del problema in esame; la pronuncia della Consulta non supera quindi, sul piano degli effetti che essa produce, i confini del rapporto interno (di impiego o di servizio) tra l’Amministrazione e il personale direttivo; ne deriva che essa non attinge la sorte degli atti, rispetto ai quali rileva in modo autosufficiente (solo) il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in rapporto alla disciplina del quale devesi stabilire se la volontà dell’ente sia stata validamente manifestata dal soggetto che, indipendentemente dalla qualifica dirigenziale, legittimamente rivestiva la funzione da esso articolo considerata;
– pertanto, il ricorso incidentale condizionato è rigettato;
– da tal rigetto deriva il c.d. “raddoppio” del contributo unificato per atti giudiziari dovuto dal ricorrente incidentale condizionato;
PQM
accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale condizionato; cassa la sentenza impugnata limitatamente ai motivi di impugnazione accolti e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione che statuirà anche quanto alle spese del presente giudizio di Legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale condizionato, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale condizionato a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2021