LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8461/2019 proposto da:
A.E., elettivamente domiciliato in Roma Via Barnaba Tortolini 30 presso lo studio dell’avvocato Ferrara Alessandro che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 Avvocatura Generale Dello Stato. che lo rappresenta e difende.
– controricorrente –
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 28.2.2019, ha rigettato l’appello proposto da A.E. alias A.A., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza del 18.4.2017 con cui il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
E’ stato, in primo luogo, negato al ricorrente lo status di rifugiato, non essendo le sue dichiarazioni state ritenute credibili (il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal paese a causa della madre adottiva, la quale, dopo la morte del padre, allo scopo di far succedere nell’eredità paterna i fratellastri, aveva ingaggiato una setta per farlo uccidere).
Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria L. cit., ex art. 14, lett. c), il giudice di merito ha evidenziato l’insussistenza di una situazione di violenza generalizzata derivante da conflitto armato in Edo State della Nigeria.
Infine, il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una sua specifica situazione di vulnerabilità personale.
Ha proposto ricorso per cassazione A.E. alias A.A. affidandolo a tre motivi.
Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 11.
Lamenta il ricorrente che la Corte di merito ha negato la plausibilità e verosimiglianza del suo racconto violando i criteri previsti dalla legge per la valutazione della credibilità del richiedente.
Rileva che il giudice deve attingere agli ampi poteri istruttori officiosi al fine di vagliare l’attendibilità e non può esimersi dal menzionare specificamente le risultanze istruttorie e men che meno fornire una parziale e lacunosa reinterpretazione del verbale di audizione per pervenire al giudizio di non credibilità disattendo le richieste istruttorie formulate sia in primo che in secondo grado. Infine, il ricorrente lamenta che le informazioni generali sull’Edo State evidenziavano forti tensioni sociali e tribali soprattutto in merito alle controversie di natura familiare ed ereditaria.
Infine, si duole che la valutazione di inattendibilità della Corte, fondata sulla asserita vaghezza e genericità del suo racconto, sia priva di una giustificazione obiettiva.
2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e mancata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 11.
Assume il ricorrente che la sentenza impugnata è affetta dal vizio di arbitraria ed apparente motivazione in merito al fatto decisivo inerente alla riferibilità delle minacce subite dalla setta satanico-esoterica ingaggiata dalla madre adottiva per diseredarlo, non avendo la Corte di merito avvalorato il giudizio di non credibilità con alcuna attività istruttoria.
3. I primi due motivi, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, presentano profili di inammissibilità ed infondatezza.
Va, in primo luogo, osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Cass. n. 3340 del 05/02/2019).
Nel caso di specie, la motivazione del Tribunale soddisfa il requisito del “minimo costituzionale”, secondo i principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 8053/2014), avendo la Corte territoriale ritenuto il racconto del richiedente generico e stereotipato sul rilievo che costui non era stato neppure in grado di fornire informazioni sulla setta di cannibali che lo avrebbe sequestrato.
Con tale affermazione il ricorrente non si è minimamente confrontato, svolgendo censure assolutamente generiche e che avrebbe potuto formulare con riferimento a qualsiasi vicenda processuale, come quelle che la Corte di merito avrebbe fornito una parziale e lacunosa reinterpretazione del verbale di audizione (di cui non ha avuto cura di indicare minimamente il contenuto) o sarebbe pervenuta al giudizio di non credibilità disattendo le (imprecisate) richieste istruttorie formulate sia in primo che in secondo grado.
Palesemente infondata è, inoltre, la censura del ricorrente secondo cui il giudice di merito sarebbe venuto meno all’obbligo di cooperazione istruttoria, non considerando che questa Corte ha più volte statuito che qualora le dichiarazioni del richiedente siano giudicate (come nel caso di specie) inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine – analogo discorso vale per il pericolo di “danno grave” – salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. 27 giugno 2018, n. 16925; e v. ancora, fra le altre, Cass. 31 maggio 2018, n. 13858 e n. 14006; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340).
Infine, manifestamente infondata è la lamentata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che è configurabile solo se si alleghi che il giudice abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, fattispecie completamente estranee alla causa in esame (Cass. n. 1229 del 17/01/2019).
4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione è stata dedotta la violazione e mancata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, art. 11 e art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, in relazione agli artt. 2,10 e 117 Cost..
Lamenta il ricorrente che la Corte ha esaminato la domanda di protezione umanitaria omettendo di esaminare la denunciata violazione dei diritti di natura socio-economica, oltre a non aver considerato la condizione di vulnerabilità emergente dalle minacce di morte subite dalla madre adottiva, dall’impossibilità di condurre una vita normale a causa della condotta aggressiva dei familiari e della situazione di deprivazione dei diritti umani fondamentali connessi alle più elementari e basilari esigenze di una esistenza dignitosa.
5. Il motivo è inammissibile.
Va, in primo luogo, osservato che la sentenza impugnata, dopo aver premesso in conformità al consolidato orientamento di questa Corte – che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre verificare che un eventuale rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo della dignità personale in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza, ha evidenziato che il ricorrente non ha mai dedotto nè di essersi integrato in Italia, nè di versare in una diversa situazione che possa giustificare la sua permanenza nel nostro paese.
Orbene, a prescindere dal rilievo che, anche in questa sede, il ricorrente non ha neppure allegato di essersi integrato in Italia, in ogni caso, la sua affermazione, secondo cui avrebbe denunciato la violazione dei diritti di natura socio-economica nonchè la condizione di deprivazione dei diritti umani fondamentali cui sarebbe stato esposto in caso di rimpatrio, è priva del carattere di autosufficienza e specificità.
In proposito, è principio consolidato di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 09/07/2013, n. 17041). Ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni non esaminate dal giudice di merito – addirittura, nel caso di specie, la Corte napoletana ha escluso che la questione della deprivazione dei diritti del ricorrente fosse stata dedotta innanzi a sè – è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro illustrazione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 13/06/2018, n. 15430).
Nel caso di specie, il ricorrente non adempiuto al proprio onere di allegazione, non avendo indicato nè il luogo nè il modo di deduzione innanzi al giudice d’appello della censura illustrata nel terzo motivo, di talchè l’odierna doglianza si appalesa inammissibile.
Infine, è indubitabile che il giudizio di inaffidabilità e non credibilità del racconto del ricorrente assuma un rilievo dirimente in ordine alla ritenuta insussistenza della dedotta condizione di vulnerabilità legata alla situazione familiare del ricorrente.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite, essendo le difese del Ministero del tutto sganciate e, quindi, non minimamente correlate ai motivi svolti dal ricorrente.
PQM
Rigetta il ricorso.
Compensa tra le parti le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2021