LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5201-2017 proposto da:
DIGA S.R.L., IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR n. 17, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PANZARANI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CRISTINA POTOTSCHNIG e FEDERICO PERGAMI;
– ricorrente –
contro
CONDOMINIO VIA PAOLO SARPI 8 MILANO, in persona dell’amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. ALBERTO MARELLI e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;
– controricorrente –
e contro
Y.O.Y., M.N.C.A.G. e Z.V.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2959/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/09/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 20.4.2009 il Condominio di ***** e O.Y.H. evocavano in giudizio M.N.C.A.G. innanzi il Tribunale di Milano per sentir dichiarare che l’appartamento della convenuta, venuto ad esistenza in seguito a sopraelevazione del fabbricato posto in *****, era stato realizzato in violazione delle distanze legali rispetto al condominio attore, e per l’effetto condannarla alla riduzione in pristino ed al risarcimento del danno. In ogni caso, gli attori lamentavano che il balcone a servizio dell’alloggio della convenuta violava le norme in materia di vedute e ne chiedevano quindi la demolizione o la chiusura, anche in questo caso con condanna della M. al risarcimento del danno.
Si costituiva la M. resistendo alla domanda e chiamando in causa, in manleva, la Società Immobiliare Diga S.p.a., sua dante causa. Quest’ultima si costituiva a sua volta, eccependo la carenza di legittimazione attiva degli attori, la nullità dell’atto di citazione introduttiva, e comunque resistendo alla domanda di manleva svolta nei suoi confronti. In subordine, la Società Immobiliare Diga S.p.a. chiamata chiamava a sua volta in garanzia la Immobiliare Pastorelli S.r.l. e Z.V.. Si costituiva soltanto quest’ultima, resistendo alla domanda svolta nei suoi riguardi da Diga S.p.a., mentre rimaneva contumace Immobiliare Pastorelli S.r.l..
Con sentenza n. 10478/2014, resa in esito a C.T.U. sullo stato dei luoghi, il Tribunale accoglieva in parte la domanda attorea, condannando la M. a riportare a distanza legale la porzione dell’edificio realizzata in violazione della normativa sulle distanze, nonché al risaricimento del danno nella misura di Euro 10.000; condannava inoltre Diga S.p.a. a tenere indenne la M. da ogni conseguenza pregiudizievole; e condannava infine la Z. e Immobiliare Pastorelli S.r.l. a tenere, a loro volta, indenne Diga S.p.a..
Interponeva appello avverso detta decisione M.N.C.A.G.. Si costituivano in seconde cure, resistendo al gravame, gli originari attori. Si costituiva anche Diga S.p.a., che aveva a sua volta appellato la sentenza di prime cure, invocando la riunione delle due impugnazioni, eccependo l’inammissibilità del gravame proposto dalla M. e spiegando a sua volta appello incidentale, con il quale riproponeva le conclusioni proposte in prime cure. Si costituiva anche la Z., aderendo all’appello principale della M..
Nel corso del giudizio di appello si apprendeva che Immobiliare Pastorelli S.r.l. era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Milano e la relativa procedura fallimentare era stata chiusa con provvedimento dell’11.10.2013. Preso atto di tale circostanza, Diga S.p.a. rinunciava alla domanda proposta nei confronti di Immobiliare Pastorelli S.r.l..
Con la sentenza impugnata, n. 2959/2016, la Corte di Appello di Milano rigettava gli appelli proposti da M. e Z.; dichiarava cessata la materia del contendere tra Diga S.p.a. e Immobiliare Pastorelli S.r.l.; confermava, nel resto, la decisione impugnata.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione Diga S.r.l., affidandosi a tre motivi.
Resistono con controricorso il Condominio di ***** e O.Y.J., M.N.C.A.G. e Z.V., intimate, non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 64, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente configurato come nuova costruzione un intervento che in realtà era limitato alla semplice ristrutturazione del sottotetto di un preesistente edificio e alla sua trasformazione in locale abitabile. Trattandosi di intervento di recupero del sottotetto a fini abitativi, esso ricadeva – ad avviso della ricorrente – nell’ambito dell’art. 27, comma 1, della richiamata legge regionale, e dunque avrebbe dovuto essere configurato come intervento di semplice ristrutturazione, e non invece come nuova costruzione, con conseguente inapplicabilità delle prescrizioni in materia di distanze tra gli edifici.
La censura è inammissibile. La sentenza impugnata richiama (cfr. pag. 26) l’accertamento che l’intervento aveva comportato la modifica della sagoma e del volume dell’edificio preesistente, con incrementi di altezza di colmo di 44 cm. e di gronda di 1,28 mt., variazione della pendenza delle falde del tetto e creazione di un terrazzo “a tasca”. Il giudice di merito, quindi, ha considerato l’opera come nuova costruzione ed ha correttamente applicato, in conseguenza di detta premessa logica, la normativa in tema di distanze. Sul punto, questa Corte ha affermato, proprio in relazione alla disposizione di cui alla L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 64 in tema di recupero dei sottotetti, che detta norma “… deve interpretarsi nel senso che esso consente la deroga dei parametri e indici urbanistici ed edilizi di cui al regolamento locale ovvero al piano regolatore comunale, fatto salvo il rispetto della disciplina sulle distanze tra fabbricati, essendo quest’ultima materia inerente all’ordinamento civile e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, per cui “la deroga prevista dalla norma censurata non può ritenersi estesa anche alla disciplina civilistica in materia di distanze, né può operare nei casi in cui lo strumento urbanistico riproduce disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile” (così Corte Cost., ord. n. 173 del 2011)” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 29222 del 12/11/2019, Rv. 656183, in motivazione, punto n. 10, pagg. 7 e ss.).
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2 (recte, n. 3), perché la distanza di dieci metri tra le pareti finestrate prevista da detta norma non avrebbe potuto essere applicata in presenza, nell’immobile della M., di una semplice finestra lucifera, dalla quale non si poteva esercitare né inspectio né prospectio.
La censura è inammissibile. La Corte di Appello dà atto (cfr. pag. 28 della sentenza impugnata) che il parapetto del terrazzo a tasca della proprietà M. si trova a confine dall’area scoperta degli attori, mentre le portefinestre sono collocate ad una distanza di 2,06 metri dal confine. Nel prosieguo, la Corte distrettuale esamina l’appello incidentale proposto dalla Z. (cfr. pag. 33 della sentenza) ed afferma che sul terrazzo si aprono quattro portefinestre “che consentono la vista sul prospiciente edificio (oltre che l’accesso sul terrazzo)”. Trattandosi di portefinestre, ovverosia di varchi che consentono l’accesso delle persone al terrazzo sul quale affacciano, esse non sono considerabili come mere aperture lucifere, come sembra affermare la ricorrente nell’ultima parte dell’esposizione della censura in esame. In realtà, nel caso specifico si discute di un terrazzo che – secondo l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito – è dotato di comodo accesso mediante portefinestre, per cui non si configurano semplici luci, ma di vere e proprie finestre, alle quali la disposizione di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 è certamente applicabile.
Infine, la sentenza dà atto che “Lo stabile storico degli attori (via *****) presenta, come ictu oculi constatabile dalle fotografie allegate alla CTU (all. 8, sopralluogo del 23.4.2013), nella parete fronteggiante e parallela al prospetto nord dello stabile di via *****, ove si trova l’appartamento delle M. (che peraltro è l’unico che vi si affaccia), numerose finestre (vedute) poste su diversi piani; il che costituisce condizione necessaria e sufficiente per rendere applicabile l’invocata normativa” (cfr. pag. 32).
Rispetto a tale complessivo accertamento di fatto, relativo tanto alle aperture esistenti sul prospetto della proprietà M. – come detto, non riducibili a mere luci – quanto su quelle esistenti sul frontistante prospetto dell’immobile di via *****, risulta irrilevante la verifica sull’idoneità dell’opera ai fini dell’inspicere e prospicere (condotta nella fattispecie, con esito positivo, dalla Corte di Appello) in relazione alla quale la censura in esame si sviluppa. La presenza di aperture qualificabili come finestre, infatti, sui due prospetti fronteggianti è sufficiente ai fini dell’applicazione della norma di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9. Il motivo, dunque, non si confronta in modo adeguato con l’accertamento in fatto contenuto nella decisione impugnata.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta infine la falsa applicazione dell’art. 905 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 2 (recte, n. 3), perché la Corte di Appello avrebbe dovuto considerare che la conformazione del terrazzo “a tasca” della proprietà M. non consentiva comunque una comoda inspectio e prospectio sulla proprietà degli attori.
La censura è assorbita dall’inammissibilità del secondo motivo, poiché -come già affermato- una volta verificato che, in concreto, le disposizioni sulle distanze contenute nel D.M. n. 1444 del 1968 sono applicabili al caso di specie, in funzione delle caratteristiche delle due pareti frontistanti, diviene irrilevante qualsiasi considerazione in relazione all’idoneità di talune di dette aperture ai fini dell’inspicere e prospicere in alienum.
In definitiva, il primo e secondo motivo di ricorso vanno dichiarati inammissibili, ed il terzo assorbito.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte dichiara inammissibile il primo e secondo motivo di ricorso ed assorbito il terzo. Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 10 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2021