Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.3784 del 15/02/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 36626/2018 proposto da:

DEUTSCHE BANK AKTIENGESELLSCHAFT, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 39, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MASSIMILIANO DANUSSO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO ***** SRL N. *****, UNICREDIT FACTORING SPA, ASL LANCIANO VASTO CHIETI;

– intimati –

nonchè da:

FALLIMENTO ***** SRL N. *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI SAN NICOLO’ DE’ CESARINI N. 3, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MACARIO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrenti incidentali –

e contro

DEUTSCHE BANK AKTIENGESELLSCHAFT;

– intimata –

nonchè da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE ***** LANCIANO VASTO CHIETI, elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 294, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO VOLO RANCATI, rappresentato e difeso dall’avvocato LAMBERTO GIUSTI;

– ricorrente incidentale –

e contro

FALLIMENTO ***** SRL N. ***** DEUTSCHE BANK AKTIENGESELLSCHAFT, UNICREDIT FACTORING SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1142/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 13/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto.

SVOLGIMENTO IN FATTO 1. Con ricorso notificato il 13/12/2018 la Deutsche Bank Aktiengesellshaft (DB) ricorre avverso la sentenza n. 1142 resa dalla Corte d’appello di l’Aquila il 22 maggio 2018 nella controversia instaurata nel 2009 dalla *****, nei confronti della ASL di Lanciano – Chieti per far accertare i crediti nei confronti di quest’ultimo ente.

2. Nel giudizio di primo grado svoltosi innanzi al Tribunale di Chieti, su chiamata della ASL convenuta, intervenivano varie società di factoring cui erano stati ceduti i crediti della Casa di Cura: in particolare, DB interveniva volontariamente per contestare la legittimazione della Casa di Cura in ordine a due cessioni di credito, la n. ***** e la n. *****, operate nell’ambito di un contratto di factoring, deducendo di avere interamente pagato il corrispettivo della cessione, e chiedendo di accertare l’importo residuo ancora dovuto da parte della ASL che per alcune rimesse aveva opposto il superamento delle prestazioni accreditate da parte dell’impresa cedente. Nel frattempo interveniva il fallimento della Casa di Cura che provocava l’interruzione del giudizio; dopo la riassunzione del giudizio nei confronti del Curatore, questi contestava l’opponibilità al fallimento delle operate cessioni, a suo dire riguardanti crediti futuri ceduti in massa e non ancora venuti in essere alla data della stipula, o comunque cessioni di cui mancava la prova certa del pagamento, ritenendoli non opponibili al fallimento della L. n. 52 del 1991, ex artt. 5 e 7.

3. Con sentenza non definitiva n. 219/2012, il Tribunale rigettava l’eccezione del fallimento della Casa di Cura in ordine alla inefficacia delle cessioni nei confronti della ASL per mancata accettazione, posto che la suddetta eccezione avrebbe potuto essere sollevata solo dalla pubblica amministrazione tenuta al relativo pagamento; rigettava anche l’eccezione di nullità dei contratti di factoring opposte dal fallimento e dei negozi di cessione; dichiarava invece non opponibili al fallimento le cessioni, qualificabili come cessioni in massa, L. n. 52 del 1991, ex art. 3, per le quali, sull’assunto che riguardassero crediti futuri, avrebbe dovuto essere provata l’accettazione o notificazione ex art. 3, del singolo credito venuto ad esistenza ovvero, ex art. 5, l’avvenuto pagamento, anche parziale, del corrispettivo delle cessioni relative all’operazione n. *****.

4. La sentenza parziale veniva impugnata da Unicredit per far valere l’opponibilità al fallimento dei suoi crediti; la ASL impugnava la sentenza in via incidentale. Deutsche Bank impugnava in via incidentale la sentenza per far valere l’opponibilità al fallimento della cessione dei crediti di massa relativi alla operazione di factoring n. *****, riguardante crediti futuri ceduti in massa sino alla scadenza del 27 marzo 2007, per avvenuta notifica della cessione in massa, stipulata il 29 settembre 2006, alla ASL debitrice, resasi opponibile al fallimento L. n. 52 del 1991, ex art. 5, chiedendo la trasmissione del fascicolo d’ufficio e l’accertamento della cessione relativa ai contratti n. *****.

5. La Corte di appello, con la sentenza qui impugnata, riformando in parte la sentenza di primo grado, dichiarava estinto il giudizio tra Unicredit factoring e il fallimento per intervenuta cessazione della materia del contendere tra le due parti; respingeva l’appello incidentale della ASL; respingeva l’appello incidentale di DB, dopo avere ritenuto certi ed esistenti, e non futuri, i crediti derivanti dai contratti di cessione del 28/09/06 e del 26/10/2006 e provata la relativa comunicazione e accettazione da parte della ASL; sull’assunto che, tuttavia, non fosse provato il pagamento del corrispettivo, anche solo in parte, della cessione in massa di crediti d’impresa, riguardante certi ed esistenti, riteneva che non vi fossero le condizioni per la opponibilità al fallimento della cessione di crediti di impresa L. n. 52 del 1991, ex art. 5; infine, dopo aver compensato le spese tra le due parti che avevano rinunciato al giudizio, condannava la ASL e la DB, in via tra loro solidale, al pagamento delle spese di lite in favore del fallimento.

6. In particolare, riguardo alla cessione dei crediti di DB, riformando in parte la sentenza, la Corte d’appello rilevava che i crediti dovessero ritenersi venuti in esistenza e certi, e non futuri, in quanto nei contratti di cessione erano state allegate le relative fatture, ma che tuttavia non era stata data prova della opponibilità al fallimento con riguardo al pagamento del corrispettivo della cessione, anche solo in parte, interpretando l’art. 5 in combinato disposto con la L. n. 52 del 1991, art. 7, riguardo alla opponibilità delle cessioni al fallimento dell’impresa cedente. Inoltre, riteneva non provato l’assunto del pagamento, posto che il fascicolo di parte, contenente i documenti richiamati negli atti, non era stato prodotto da DB, nonostante la sentenza definitiva fosse stata pronunciata nel 2016, quindi prima del novembre 2017, tempo in cui la causa in appello era andata in decisione.

7. Il ricorso principale è affidato a tre motivi. Nel giudizio, inizialmente fissato per l’adunanza camerale, hanno resistito le controparti ASL di Vasto – Chieti e il Fallimento della Casa di cura, proponendo ricorso incidentale. La Asl di Vasto-Chieti ha proposto ricorso incidentale in relazione alla condanna alle spese disposta unitamente a DB. DB e il fallimento della Casa di Cura hanno depositato memorie. La controversia è stata rimessa alla odierna pubblica udienza ex art. 375 c.p.c., stante l’assenza di precedenti giurisprudenziali in termini. Il PM ha depositato conclusioni scritte instando per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale e il rigetto o l’inammissibilità degli ulteriori motivi e dei ricorsi incidentali.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la banca ricorrente deduce violazione dell’art. 1265 c.c. e della L. n. 52 del 1991, artt. 3,5,7, in quanto nelle cessioni di credito, inquadrabili nel cd contratto di factoring regolato dalla succitata legge, l’art. 5 prevederebbe il perfezionamento della cessione, in via alternativa, con le modalità di cui all’art. 1265 c.c., ovvero anche tramite la prova del pagamento, anche parziale, del corrispettivo, mentre nella pronuncia in esame si sarebbe inteso operare un illegittimo collegamento con l’art. 7 della medesima Legge, il quale regola specificamente l’azione revocatoria delle cessioni effettuate nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento del cedente, da cui si desume che la cessione effettuata con la consapevolezza dello stato d’insolvenza sia inopponibile al fallimento, e comunque sia revocabile il pagamento con riguardo ai crediti non venuti in esistenza nell’anno anteriore al fallimento, previa restituzione del pagamento effettuato.

1.1. Il motivo è fondato per quanto di seguito esposto.

1.2. La pronuncia in esame, nel ritenere non opponibile al fallimento la cessione di cui non è provato il pagamento del relativo corrispettivo si è allineata a un filone giurisprudenziale, presente tra i giudici di merito, che assume che il principio generale di cui alla L. Fall., art. 67, debba essere applicato con riguardo alle cessioni di credito anche in caso di operazioni di factoring regolate dalla L. n. 52 del 1991. Conseguentemente, ha statuito che, per rendere qualsiasi cessione opponibile al fallimento, deve farsi riferimento ad un trasferimento della titolarità del credito che, se a titolo oneroso, deve essere accompagnato da un pagamento, anche solo parziale, del corrispettivo, avente data certa. Per tale via, ha ritenuto che l’art. 5, 1 comma, della richiamata Legge del 1991, letta in combinato disposto con l’art. 7, regoli l’opponibilità della cessione a terzi (compreso il fallimento) “mentre non riguarda l’efficacia della cessione nei confronti del debitore ceduto, che continua ad essere regolata dagli artt. 1264 c.c. e segg.”. Pertanto la prova del pagamento, per l’opponibilità al terzo, ” non costituisce una mera alternativa introdotta al solo fine di agevolare l’onere probatorio del cessionario in ipotesi di cessioni di massa, ma una condizione ulteriore al fine di rendere opponibile la cessione a terzi creditori e, nel caso di specie, al fallimento del cedente intervenuto dopo la cessione (p. 15 sentenza)”.

1.3. Assume la ricorrente che la Corte d’appello, pur avendo accertato che la “cessione n. *****” qui in discussione riguardi crediti ceduti in massa esistenti, certi e già fatturati, e non crediti futuri (a differenza di quanto ritenuto in prime cure), e che sia stata fornita dimostrazione dell’effettiva accettazione di tali cessioni da parte del debitore ceduto (ASL), non avrebbe coerentemente considerato che con la notifica delle cessioni, una volta venute ad esistenza, si sarebbe perfezionata la condizione di cui alla L. n. 52 del 2001, art. 5, comma 2, prevista quale modalità alternativa di opponibilità della cessione nei confronti dei terzi. Contesta, pertanto, l’interpretazione data dalla Corte d’appello nell’applicare la legge in questione, tesa a semplificare il regime di circolazione dei crediti d’impresa, come indicato nella relazione introduttiva della medesima legge. La parte resistente, di contro, deduce l’infondatezza della interpretazione offerta dalla ricorrente, ritenendo che, nonostante l’ambiguità del testo normativo, per quanto la L. n. 52 del 1991, art. 5, preveda la facoltà per il cessionario di rendere opponibile la cessione nei modi previsti dal codice civile, il combinato disposto della L. n. 52 del 1991, art. 5, comma 1, lett. c) e art. 7, comma 1, risponde alla volontà del legislatore di inserire all’interno delle previsioni generali un regime specifico applicabile al peculiare caso in cui il “terzo” coincida con il fallimento della società cedente.

1.4. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il tratto peculiare della normativa riguardante la cessione in massa di crediti d’impresa è dato dal fatto che “la cessione dei crediti d’impresa, a norma della L. 21 febbraio 1991, n. 52, artt. 5 e 7, è opponibile al fallimento (dell’impresa cedente) non già dal momento del perfezionamento dell’atto contrattuale, ma dalla data del pagamento del corrispettivo della cessione da parte del cessionario, sempre che il pagamento abbia data certa, sia stato eseguito nell’anno anteriore al fallimento e prima della scadenza del credito ceduto e che il curatore, agendo L. Fall., ex art. 67, dimostri la conoscenza da parte del cessionario dello stato di insolvenza del cedente a quella data” (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14260 del 08/07/2015 (Rv. 635764 – 01); Cass., N. 16828 del 2013 Rv. 627134 – 01, N. 12994 del 2015).

1.5. Le pronunce sopra richiamate, poste invero a fondamento della decisione qui impugnata, riguardano però l’interpretazione e applicazione dell’art. 7 della Legge in questione, che regola specificamente l’azione revocatoria nei riguardi del fallimento della cedente, ove ai fini della sua esperibilità non risulta solo necessaria la prova del pagamento anteriore avente data certa, ma anche della scientia decoctionis. Dette decisioni si attagliano alla fattispecie in esame solo là dove mettono in rilievo la peculiarità della disciplina speciale del factoring con riguardo alla prova della cessione, che può essere data anche con il pagamento del corrispettivo. I principi affermati in quelle decisioni, per il resto, non sono tuttavia idonei a regolare il caso in questione, ove il fallimento della cedente non ha inteso esercitare l’azione revocatoria regolata dall’art. 7 e il factor ha fatto valere l’avvenuta cessione mediante accettazione del debitore, sulla base del principio generale consensualistico indicato nell’art. 5 della medesima Legge Speciale.

1.6. E invero, il riferimento normativo rilevante nel caso di specie è rinvenibile proprio nella L. n. 52 del 1991, art. 5, il quale disciplina in maniera più ampia gli effetti verso i terzi della cessione in massa dei crediti, operata mediante il contratto di factoring, qualora esso sia intervenuto tra parti qualificabili, da una parte, come imprenditore-produttore di beni (cedente il credito) e, dall’altra, come banca o intermediario finanziario (cessionario del credito) che offra la prestazione di un complesso servizio di gestione del credito d’impresa mediante contratto di factoring, indicato nel proprio oggetto sociale (ex. art. 1). Più precisamente, per quanto riguarda gli effetti della cessione nei confronti del fallimento dell’impresa cedente, la norma di cui all’art. 5, dispone che “1) qualora il cessionario abbia pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione ed il pagamento abbia data certa, la cessione è opponibile: a)…b)…. c) al fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento, salvo quanto disposto dall’art. 7, comma 1", aggiungendo al comma 2 che ” 2) E’ fatta salva per il cessionario la facoltà di rendere la cessione opponibile ai terzi nei modi previsti dal codice civile. 3) E’ fatta salva l’efficacia liberatoria secondo le norme del codice civile dei pagamenti eseguiti dal debitore a terzi.

1.7. Inoltre l’art. 5, comma 1, pur dando rilievo al pagamento del corrispettivo ai fini della opponibilità ai terzi della cessione, fa salvo per il fallimento della cedente l’esperimento dell’azione revocatoria alle due condizioni date nell’art. 7 (pagamento del corrispettivo e prova della scientia decoctionis). La disposizione di cui all’art. 7, richiamata dall’art. 5, con riguardo alla disciplina dell’azione revocatoria, subordina quindi la dichiarazione di inefficacia della cessione di cui vi sia prova del pagamento, anche solo parziale -che come tale la renderebbe opponibile al fallimento in base all’art. 5, comma 1 – alla prova della scientia decoctionis, anch’essa riferita alla data del pagamento (così Cass., Sez. 1, 5 luglio 2013, n. 16828). E invero, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria disciplinata dall’art. 7, il pagamento del corrispettivo della cessione – o di parte di esso – alla società in bonis, poi fallita, è modalità solutoria parimenti insufficiente ai fini dell’opponibilità al fallimento della cedente qualora sia provato che il factor cessionario conosceva lo stato di insolvenza del cedente nel momento in cui ha eseguito il pagamento e sempre che questo sia avvenuto nell’anno anteriore alla sentenza dichiarativa del fallimento e prima della scadenza del credito ceduto (cfr. sul punto Cass., sez. 1, n. 8961/2010).

1.8. Deve quindi assumersi che il richiamo all’art. 7, valido per una più ristretta fattispecie, non valga a mutare il criterio generale fissato nell’art. 5, che non ha escluso che le cessioni dei crediti di impresa possano continuare ad essere opponibili al fallimento con le stesse modalità previste dal codice civile, anche ove manchi la prova del pagamento del corrispettivo. Pertanto, la norma di cui all’art. 7, lungi dal fungere da elemento di raccordo per tutta la disciplina in esame, pone solamente un limite alla regola della opponibilità della cessione al fallimento della cedente mediante prova del pagamento del corrispettivo, posto che a questo non deve accompagnarsi la scientia decoctionis da parte del factor.

1.9. Del resto, è opinione consolidata in dottrina che quando la L. n. 52 del 1991, art. 5, dispone che la cessione è opponibile al fallimento della impresa cedente se il cessionario ha pagato il corrispettivo della cessione medesima ed il pagamento ha data certa anteriore al fallimento, il termine “efficacia” della rubrica e il termine “opponibile” dell’art. 5, comma 1, lett. c), non potendone avere uno diverso dall’altro nello stesso contesto normativo, hanno necessariamente lo stesso significato: quello di opponibilità nel senso di rilevanza ed efficacia esterna dell’atto nei confronti di terzi propria dell’ipotesi regolata dalla L. Fall., art. 45. La “non opponibilità al fallimento del cedente” dell’efficacia della cessione verso i terzi, prevista dell’art. 7, comma 1, va intesa, quindi, in un senso profondamente diverso dalla inopponibilità dell’art. 5, significando, piuttosto, inefficacia relativa di un atto di disposizione analoga a quella che si domanda e si ottiene con l’azione revocatoria e, in particolare, con l’azione revocatoria fallimentare regolata dalla L. Fall., art. 67, comma 2.

1.10. Alla luce dei suddetti chiarimenti di natura terminologica, ripresi dalla dottrina, l’interpretazione della L. n. 52 del 1991, art. 5, recante norme sull’opponibilità nei confronti dei terzi della cessione di crediti d’impresa verso corrispettivo, risulta più agevole di quanto indicato dal fallimento nel suo argomentare. Non è difatti controverso che la della L. n. 52, art. 5, comma 1, lett. c), secondo cui “qualora il cessionario abbia pagato in tutto o in parte il corrispettivo della cessione ed il pagamento abbia data certa, la cessione è opponibile al fallimento del cedente dichiarato dopo la data del pagamento”, ha introdotto nel nostro ordinamento, quale nuovo criterio oggettivo di opponibilità della cessione dei crediti d’impresa, il pagamento del corrispettivo avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento. Altrettanto generalmente condivisa dalla dottrina è l’opinione secondo la quale il nuovo criterio di opponibilità non ha modificato o integrato quello previsto dagli artt. 1265 e 2914 c.c. – che a suo tempo adottò lo strumento della notificazione al debitore in alternativa all’accettazione del debitore con atto di data certa – ma sì è soltanto aggiunto ad esso, senza sostituirlo. Con ciò ampliando, anzichè restringere, la sfera dei diritti del cedente, il quale oggi può rendere opponibile la cessione dei suoi crediti a terzi qualificati sia con la notificazione e l’accettazione di data certa, ai sensi degli artt. 1265 e 2914 c.c., che attraverso il pagamento di data certa del corrispettivo. Precisazione, questa, dovuta ove si consideri che lo stesso legislatore non ha mancato di precisare (art. 5, comma 2) che “è fatta salva per il cessionario la facoltà di rendere la cessione opponibile ai terzi nei modi previsti dal codice civile”. Il nuovo criterio, difatti, si distingue da quello di diritto comune non solo per l’adozione di un differente strumento di opponibilità, rappresentato dal pagamento di data certa del “corrispettivo della cessione”, ma soprattutto per la sua maggiore idoneità a facilitare l’opponibilità delle cessioni di crediti d’impresa verso corrispettivo aventi per oggetto grandi masse di crediti presenti e futuri.

1.11. Sia pure con qualche perplessità sul reale obiettivo perseguito dal legislatore, si è pure d’accordo, in dottrina, sulla ratio sottesa a questi nuovi istituti. La quale si ravvisa, generalmente, nell’intenzione del legislatore di favorire gli interessi del cessionario, sia agevolandogli l’esercizio dell’attività di finanziamento del cedente mediante la previsione della cedibilità di crediti anche futuri in massa, prima molto discussa; sia accordandogli la possibilità di ricollegare l’opponibilità delle cessioni al pagamento del corrispettivo di data certa, ossia ad un fatto interno alla fattispecie della cessione coincidente con la monetizzazione dei crediti ceduti; sia, infine, consentendogli di ottenere l’opponibilità della cessione per l’intero importo dei crediti ceduti, pagando soltanto una parte del corrispettivo. Pertanto, al di là della specifica ipotesi regolata dall’art. 7, ove viene in considerazione, ai fini della inopponibilità, la malizia del factor al tempo del pagamento del corrispettivo, più in generale, nell’ambito della cessione in massa di crediti d’impresa, attuali o futuri, è da condividersi l’opinione secondo la quale la legge sul factoring indica in maniera del tutto distinta due modalità alternative di perfezionamento della cessione ai fini della sua opponibilità ai terzi, che possono esprimersi o, ex art. 5, comma 1, con la dimostrazione del pagamento, anche solo parziale, del trasferimento di un credito esistente o futuro o, ex art. 5, comma 2, con la dimostrazione della notifica o accettazione del trasferimento alla parte debitrice, secondo la disciplina generale ex artt. 1264-1265 c.c..

1.12. D’altro canto, proprio in questi termini si è espressa da ultimo questa Corte, là dove ha ritenuto che “In materia va segnalato, prima di tutto, il sistema normativo predisposto dalla L. 21 febbraio 1991, n. 52, artt. 5 e 7, c.d. legge factoring, con riguardo alle cessioni di “crediti futuri” che rispondano a tutti i requisiti e alle condizioni indicati negli artt. 1, 2 e 3 della Legge medesima: tale sistema risulta basato sull’anteriorità di data certa del “pagamento del corrispettivo della cessione” al fallimento, salva comunque la prova, da parte del curatore, della scientia decoctionis del factor al tempo dell’avvenuto pagamento (su questo sistema v., in particolare, Cass., 23 giugno 2015, n. 12994)”. (così Cass. Sez. 1, ord. 5616/2020). Nel precedente qui richiamato viene dato rilievo alla contemporanea vigenza, altresì, della normativa di diritto comune di cui all’art. 2914 c.c., n. 2 e L. Fall., art. 45, fondata sulla regola dell’anteriorità di data certa della notifica della cessione (secondo la nozione ripresa, anche di recente, dalla pronuncia di Cass., 23 giugno 2018, n. 16566) alla sentenza dichiarativa ovvero dell’accettazione (sempre di data certa) della medesima da parte del debitore ceduto. In proposito, si indica che “la disciplina dettata dalla citata legge speciale risulta intesa a dettare non già un regime esclusivo di opponibilità della cessione ai creditori del cedente e al fallimento di quest’ultimo, bensì un regime ulteriore di favore per le imprese autorizzate all’attività di factoring – che risulta “utilizzabile” (nel rispetto di tutte le condizioni ivi previste) in via alternativa a quella delineata dal diritto comune” (così si esprime Cass. Sez. 1, ord. 5616/2020).

1.13. Tale principio va confermato, posto che la disciplina dettata dal legislatore non appare affatto ambigua – per quanto sopra detto – e, inoltre, corrisponde a una logica di favor legislativo riguardo alla cessione di masse di crediti futuri, stante il non sempre agevole ricorso, in questi casi, alle regole di diritto comune pensate per la cessione dei singoli crediti.

1.14. Dovendosi quindi fare riferimento, nel caso di specie, alle modalità classiche di cessione del credito, con riferimento alle regole di diritto comune relative all’opponibilità della cessione di crediti futuri ai creditori del cedente e al fallimento di questi, è opportuno sottolineare che l’orientamento seguito da più tempo dalla giurisprudenza di questa Corte isola due diverse ipotesi di cessione di crediti futuri (cfr., per questo riguardo, specialmente la pronuncia di Cass., 21 dicembre 2005, n. 28300). In tali casi, la regola indicata dalla giurisprudenza è la seguente: “Per i crediti che siano relativi a un rapporto già in essere tra cedente e ceduto, dunque, si ritiene idoneo fatto di opponibilità la notifica di data certa dello stesso atto di cessione dei crediti futuri, ovvero pure l’accettazione del ceduto: solo a condizione, peraltro, che tale contesto documentale comprenda l’identificazione dei crediti in tutti i loro elementi oggettivi e soggettivi, sì da renderli singolarmente riconoscibili (diversamente, occorre comunque una notifica o accettazione ad hoc). Per i crediti meramente eventuali – frutto, cioè di rapporti tra cedente e ceduto solo potenziali al tempo dell’atto di cessione -, si ritiene, invece, che “la prevalenza della cessione richieda che la notificazione o accettazione siano non solo anteriori al fallimento, ma altresì posteriori al momento in cui il credito sia venuto ad esistenza (cfr., Cass. n. 28300/2005) ” (cfr. Cass.Sez. 1, ord. 5616/2020).

1.15. Reputa pertanto la Corte che sia errata la interpretazione data dalla Corte di merito alla normativa sul factoring avente ad oggetto la cessione in massa di crediti d’impresa, accertati come già esistenti e notificati al debitore ceduto, là dove ha considerato come elemento necessario, per l’opponibilità al fallimento della impresa cedente ex art. 5, comma 1, il pagamento, anche solo parziale, del corrispettivo di cessione, e non anche la sola modalità riferita alla disciplina generale (la notifica della cessione o l’accettazione del terzo), in ciò confondendo il piano della disciplina speciale, dettata per altra ipotesi qui non in discussione (azione revocatoria regolata dall’art. 7) con quello della disciplina comune, che è fatta in ogni caso salva dalla L. n. 52 del 1991, art. 5, comma 2.

2. Con il secondo motivo si denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione della L. n. 52 del 1991, art. 3, in quanto la Corte d’appello non avrebbe qualificato il negozio in esame come cessione di masse di crediti futuri, qualificandolo invece come contratto di factoring inerente a crediti esistenti. La censura è inammissibile, in quanto tende a colpire una valutazione di merito non sindacabile in sede di legittimità.

2.1. Inoltre, la censura è infondata, posto che l’applicazione della normativa speciale di cui alla L. n. 52 del 1991, ex art. 1, riguarda tutti i crediti dell’imprenditore riferiti all’esercizio dell’impresa, quando il cessionario sia una banca o un’intermediario finanziario, ovvero un’impresa che abbia il factoring per oggetto sociale, con i distinguo sopra fatti in relazione al primo motivo. Difatti la normativa de qua è riferibile tanto ai crediti esistenti al tempo della cessione, ceduti in virtù di un negozio che abbia i connotati oggettivo e soggettivo del contratto di factoring, quanto a quelli futuri, non ancora venuti in esistenza al tempo della cessione, ceduti in massa al factor e individuabili solo in relazione al periodo di scadenza, con tutte le conseguenze sopra viste in ordine alla opponibilità delle cessioni al fallimento della cedente, qualora per la cessione dei crediti, anche quelli non venuti ad esistenza al tempo del fallimento, il relativo corrispettivo non sia stato versato.

2.2. Come si è accennato sopra, in relazione al primo motivo, solo per i crediti futuri, ma già pagati, ex art. 7, commi 2 e 3, è data facoltà al fallimento di recedere dal contratto restituendo il pagamento ricevuto; altrimenti, nel caso in cui manchi prova del pagamento di crediti già venuti in esistenza, essi non sono comunque opponibili al fallimento, nei limiti di quanto sopra detto con riguardo alle cessioni di masse di crediti.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 123 bis disp. att. c.p.c., in quanto la Corte di merito avrebbe omesso di esercitare il proprio potere di acquisizione di fascicolo di parte, trattenuto dal giudice di primo grado per la prosecuzione del giudizio, trattandosi dell’impugnazione di una sentenza parziale.

3.1. La censura è inammissibile sotto il profilo dell’art. 366 c.p.c., n. 4, poichè la lettura del motivo, al lume della motivazione, evidenzia come la sua illustrazione non si correli alla motivazione enunciata dalla Corte territoriale. Difatti, la Corte di merito ha dato rilievo al fatto che il fascicolo di parte, che in tesi avrebbe consentito alla Corte d’appello di rivalutare il giudizio circa la presenza della prova del pagamento anticipato della cessione dei crediti, e della loro scadenza o esistenza rispetto al tempo del fallimento, non è stato prodotto in corso di causa neanche dopo la definizione del giudizio definitivo in primo grado. Secondo la Corte di merito, sarebbe stato onere della parte produrre almeno copia del proprio fascicolo di parte.

3.2. Tuttavia, la disposizione richiamata come violata è riferita al fascicolo d’ufficio che, ovviamente, in caso di impugnazione di sentenza parziale, deve essere trattenuto dal primo giudice e può essere acquisito in copia dalla Corte d’appello, con attivazione dei suoi poteri d’ufficio. L’appellante, dal canto suo, è tenuto a fornire la dimostrazione delle singole censure, atteso che l’appello, non è più, nella configurazione datagli dal codice vigente, il mezzo per passare da uno all’altro esame della causa, ma una “revisio” fondata sulla denunzia di specifici “vizi” o nullità della sentenza impugnata. Ne consegue che è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da essa assunta nella precedente fase processuale, produrre, o ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti sui quali basa il proprio gravame o comunque attivarsi, anche avvalendosi della facoltà, ex art. 76 disp. att. c.p.c., di farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti eventualmente non depositati, perchè questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, per cui egli subisce le conseguenze anche della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte (Cass. Sez. U., Sentenza n. 28498 del 23/12/2005).

3.3. Pertanto, i documenti di parte si considerano ritualmente prodotti in giudizio quando siano posti nella reale disponibilità dell’ufficio per essere inseriti nel fascicolo di parte, con l’adempimento delle formalità previste dagli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c.. Ne consegue che, nel caso di mancato rinvenimento di documenti nel giudizio d’appello, affinchè sorga l’obbligo del giudice di disporne la ricerca, con i mezzi a sua disposizione, eventualmente disponendo l’attività ricostruttiva del loro contenuto, la parte è tenuta a dedurre e a provare di avere adempiuto le formalità stabilite per il loro deposito o la loro estrazione in copia (v. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5933 del 14/03/2011). Sicchè, non apparendo il motivo correlato alla decisione assunta dalla Corte conformemente al principio sopra riferito, esso incorre nella ragione di inammissibilità espressa dal principio di diritto recentemente confermato da Cass. SU n. 7074 del 2017, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

4. Il ricorso principale, pertanto, viene accolto quanto al primo motivo, mentre va dichiarato inammissibile quanto al secondo motivo e al terzo motivo.

5. Il ricorso incidentale, svolto in via condizionata dal fallimento, riguarda la diversa qualificazione del contratto di factoring come contratto di cessione in massa di crediti futuri, anzichè di crediti esistenti, rispetto al tempo della cessione, cui doversi applicare la disciplina di cui alla L. n. 52 del 1991, prevista per la cessione di massa di crediti futuri, che la renderebbe inopponibile qualora i crediti non siano venuti ad esistenza alla data del fallimento (L. n. 52 del 1991, art. 3). Più precisamente, il fallimento ricorrente incidentale deduce come omesso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il fatto che la cessione riguardava crediti futuri e non già crediti esistenti, come invece sostenuto dalla Corte d’appello, rispetto ai quali la Corte d’appello avrebbe dovuto verificare l’avvenuta notificazione e accettazione del singolo credito ceduto, successivamente all’insorgenza o alla determinabilità dello stesso oppure l’avvenuto pagamento, secondo la disciplina speciale in questione.

6. La censura è inammissibile, per gli stessi motivi di cui sopra, venendo a toccare questioni e accertamenti di fatto operati dalla Corte di merito, qui insindacabili, sulla base dell’analisi di documentazione prodotta, rinvenibili nel punto in cui si fa riferimento ai documenti 8 bis e 9 depositati con la memoria 183, VI n. 2 (p. 11 sentenza impugnata). Inoltre, vanno richiamate in proposito le medesime argomentazione svolte con riguardo al secondo motivo del ricorso principale.

7. Quanto al ricorso incidentale della Asl, esso è volto a denunciare la violazione dell’art. 100 c.p.c., in relazione alla condanna alle spese statuita nei suoi confronti, dopo che essa era intervenuta nel giudizio di appello con appello incidentale adesivo riferito unicamente a quello di Unicredit factoring s.p.a., che ha poi composto il giudizio con una transazione e spese compensate: la ASL denuncia di essere stata condannata alle spese nonostante il suo interesse a resistere fosse venuto meno in conseguenza della transazione intervenuta tra Unicredit e il fallimento, deducendo di non avere svolto appello incidentale autonomo. Il motivo è inammissibile mancando l’esposizione sommaria dei fatti attraverso la quale poter ricostruire la vicenda processuale, in ragione della autonomia del ricorso incidentale rispetto al ricorso principale (Sez. 3, Sentenza n. 18483 del 21/09/2015 (Rv. 637061 – 01); Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13140 del 28/05/2010 (Rv. 613334 – 01)).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso principale quanto al primo motivo, dichiara inammissibile il secondo e il terzo motivo; inammissibili il ricorso incidentale condizionato del fallimento e il ricorso incidentale della ASL; cassa in relazione e rinvia alla Corte d’appello di l’Aquila, in diversa composizione, anche per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente per impedimento del Consigliere estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. A, s.m.i..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 27 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2021

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