Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.38285 del 03/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9242-2016 proposto da:

ALBERGO ITALIA DI G.M.A. E C SNC, IN PERSONA DEL LEGALE RAPP.TE PRO-TEMPORE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA UMBERTO SABA N. 54 presso l’avv. PAOLO DELL’ANNO, che la rappresenta e difende unitamente agli avv.ti UMBERTO DEFLORIAN, CHRISTIAN DORIGATTI;

– ricorrente –

contro

W.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRANCESCO MASSI 15, presso lo studio dell’avvocato FABIOLA GROSSI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO PONTRELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 86/2015 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 11/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/09/2021 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato DEFLORIAN UMBERTO, che si riporta agli atti difensivi;

udito l’avv. AGNESE CASILLO, giusta delega scritta dall’avv. PAOLO PONTRELLI, che si riporta agli atti;

sentito il P.M. IN PERSONA DEL SOST. PROC. GEN. DOTT. PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1 La Corte d’Appello di Trento, con sentenza n. 86/2015 resa pubblica in data 11.3.2015, in parziale accoglimento dell’impugnazione proposta da W.M.A. contro la sentenza di primo grado (Tribunale di Trento sez. dist. Cavalese n. 8/2012), ha condannato la società appellata Albergo Italia di G.M.A. & C snc ad arretrare il fronte nord della sopraelevazione eseguita nel 2007 sulla p. ed. ***** fino alla distanza di dieci metri dalla fronteggiante p.m. della p.ed. *****, computando le distanze dal bordo esterno dei balconi che vi si affacciano, nonché ad arretrare la scala esterna posta sul fronte est del fabbricato p. ed. ***** fino alla distanza di 10 metri dal fronteggiante edificio dell’appellante p. ed. *****.

La Corte di merito ha motivato la sua decisione osservando, per quanto ancora interessa:

– che, come accertato dal consulente tecnico, la scala esterna (realizzata nel 2007 sul fronte est della p.ed. *****) era posizionata a distanza inferiore a dieci metri dal fronteggiante fabbricato p.ed. ***** di proprietà dell’appellante, così come inferiore a dieci metri era il distacco tra la sopraelevazione realizzata dalla società e l’appartamento all’ultimo piano dell’appellante, considerando i due balconi;

– che la disciplina delle distanze rientra nella materia dell’ordinamento civile appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;

– che i balconi e la scala dovevano computarsi nel calcolo delle distanze, sulla scorta dei principi elaborati dalla giurisprudenza;

– che gli strumenti urbanistici locali, prevedendo l’esclusione delle scale dei balconi dal computo delle distanze dovevano essere disapplicati in quanto contrastanti con la disciplina statale inderogabile in materia di distanza tra costruzioni posta dal D.M. n. 1968, al cui rispetto è tenuta anche la Regione a Statuto Speciale o la Provincia Autonoma nell’esercizio del potere legislativo nella materia urbanistica in cui ha competenza primaria ed esclusiva.

2 Contro tale sentenza la società soccombente ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi contrastati con controricorso dalla W..

Il Procuratore Generale ha fatto pervenire conclusioni scritte insistendo per il rigetto del ricorso richiamandole all’udienza pubblica.

Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Col primo motivo, si denunzia violazione e/o falsa applicazione della Legge Cost. n. 5 del 1948, art. 11 (Statuto Speciale per il Trentino-Alto Adige – cd. Primo Statuto speciale di autonomia), del D.P.R. n. 670 del 1972, art. 8 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige – cd. Secondo Statuto speciale di Autonomia), nonché della L.P. Trentino n. 22 del 1991, art. 21, comma 2 e 2 bis (così come modificata dalla L.P. n. 10 del 2004, art. 3) L.P. Trentino n. 1 del 2008, art. 58, comma 1 e 2 dell’art. 1 e 2 dell’all. 2 Delib. G.P. Trentino n. 2023 del 2010 e art. 18, punto 13 R.E.C. Castello Molina di Fiemme, da una parte, e del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 dall’altra; applicabilità delle normative provinciali (del Trentino) e comunali (di Castello Molina di Fiemme) che derogano alla disciplina di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9.

Rimproverando alla Corte d’Appello di avere disposto l’arretramento nonostante la conformità delle opere alla concessione edilizia e agli strumenti urbanistici all’epoca vigenti nel Comune di Castello Molina di Fiemme (Piano regolatore Generale e regolamento Edilizio Comunale emanati in forza della legge urbanistica del Trentino) e alla legislazione provinciale, la ricorrente, attraverso un articolato ragionamento corredato da richiami dottrinari e giurisprudenziali, pone in dubbio l’efficacia precettiva del D.M. n. 1444 del 1968 rispetto alle norme emesse dalle Regioni ordinarie e in particolar modo dalle Province autonome di Trento e Bolzano, aventi potestà legislativa primaria o esclusiva nella materia urbanistica e di rango sovraordinato rispetto a quelle comunali.

Procede ad un excursus delle varie disposizioni succedutesi giungendo ad affermare l’esclusione di un regolamento ministeriale, come il D.M. n. 1444 del 1968, con efficacia cogente rispetto alla funzione legislativa concorrente delle Regioni o addirittura primaria delle Province Autonome di Trento e Bolzano, quando la legge autorizzativa non avesse almeno fissato precisi paletti e indirizzi generali per l’esercizio da parte del ministro di attività amministrativa-regolamentare in materia coperta da ipotizzata riserva di legge.

A dire della ricorrente, comunque, l’efficacia del decreto ministeriale sulla normativa regionale risulterebbe poi naturalmente troncata in radice in senso negativo qualora si dovesse ritenere, secondo una serie di sentenze della Corte Costituzionale, che un atto regolamentare statale non possa creare vincoli cogenti per l’esercizio di attività normativa rientrante nella competenza regionale. Evidenzia, infine, le conseguenze “aberranti” ed “esplosive” derivanti da una diversa interpretazione normativa.

2 Col secondo motivo la società ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 in riferimento agli artt. 1 e 2 dell’All. 2 Delib. G.P. Trentino n. 2023 del 2010 e art. 18, punto 13 R.E.C. Castello Molina di Fiemme: mancato contrasto tra la normativa regolamentare statale e la disciplina locale in materia di distanze tra edifici non ricadenti in zone A) o C). Osserva, infatti, che il D.M. 1968 si limita a prevedere i distacchi “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, mentre la normativa locale si riferisce ai distacchi tra i fabbricati (concetto, quindi, ben diverso e comprendente anche elementi strutturali e aggettanti, quali scale e balconi).

3 Col terzo motivo, si denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. la violazione degli artt. 116 e 134 Cost., D.P.R. n. 670 del 1972, art. 8 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige – cd. Secondo Statuto speciale di Autonomia), nonché della L.P. Trentino n. 22 del 1991, art. 21, comma 2 e 2 bis (così come modificata dalla L.P. n. 10 del 2004, art. 3) L.P. Trentino n. 1 del 2008, art. 58, comma 1 e 2, artt. 1 e 2 dell’All. 2 Delib. G.P. Trentino n. 2023 del 2010 e art. 18, punto 13 R.E.C. Castello Molina di Fiemme, da una parte, e del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 dall’altra: rimessione alla Consulta della questione di costituzionalità della L.P. Trentino n. 22 del 1991, art. 21, comma 2 e 2 bis (così come modificata dalla L.P. n. 10 del 2004, art. 3) L.P. Trentino n. 1 del 2008, art. 58, comma 1 e 2, artt. 1 e 2 dell’All. 2 Delib. G.P. Trentino n. 2023 del 2010 e art. 18, punto 13 R.E.C. Castello Molina di Fiemme per violazione dell’art. 116 Cost. e D.P.R. n. 670 del 1972, artt. 4 e 8 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige – cd. Secondo Statuto speciale di Autonomia per il T-A.A.) con riferimento al D.M. n. 1444 del 1968.

Sostiene la ricorrente che la Corte d’Appello ha frainteso la normativa vigente all’epoca della sopraelevazione perché, reputando che la disciplina fosse solo quella del regolamento edilizio comunale e del piano regolatore generale, ha dimenticato la fonte sovraordinata da cui promanavano tali normative, fonte rappresentata dalla legislazione della Provincia Autonoma di Trento. Rileva infatti che le norme del regolamento edilizio e del piano regolatore sono state emanate in forza della legge urbanistica del Trentino (L.P. n. 22 del 1991 come modificata dalla L.P. n. 10 del 2004, cui ha fatto seguito la Legge Urbanistica del 2008, L.P. n. 1 del 2008). Ricorda la ricorrente che le disposizioni provinciali, essendo sovraordinate, prevalgono su quelle comunali in contrasto con esse e sono espressione della competenza legislativa primaria o esclusiva della Provincia Autonoma di Trento nell’ambito dell’urbanistica e dei piani regolatori ai sensi del D.P.R. n. 670 del 1972, art. 8 (riproduttivo della Legge Costituzionale n. 5 del 1948, art. 8). La deroga alla disciplina delle distanze previste dal D.M. n. 1444 del 1968 è dunque ammessa dalla L.P. n. 22 del 1991 e prevista sia dalla L.P. n. 1 del 2008 sia dagli artt. 1 e 2 dell’Allegato 2 alla Delib. G.P. n. 2023 del 2010, norme più favorevoli e quindi applicabili al caso di specie. Di conseguenza secondo la tesi della ricorrente – le norme provinciali o sono legittime o sono illegittime ed in tal caso andrebbero sottoposte al giudizio della Corte Costituzionale piuttosto che disapplicate, giacché la disapplicazione opera solo in presenza di regolamenti comunali.

4 I primo e terzo motivo, che ben si prestano ad esame unitario (per il comune riferimento ai rapporti tra la normativa statale e quella locale in tema di distanze), sono privi di fondamento.

Secondo l’orientamento di questa Corte, formatosi nel solco della giurisprudenza costituzionale, il regime delle distanze fra costruzioni nei rapporti tra privati appartiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, cui le Regioni possono derogare solo con previsioni più rigorose, funzionali all’assetto urbanistico del territorio (tra le tante, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 18588 del 13/07/2018 Rv. 649865; Sez. 2, Sentenza n. 51 del 07/01/2010 Rv. 611002).

E ancora, le condizioni di legittimità delle deroghe alla disciplina statale delle distanze fra costruzioni nei rapporti tra privati introdotte dalle Regioni nell’ambito della propria competenza legislativa concorrente – da individuarsi nell’inserimento della prescrizione derogatoria in strumenti urbanistici e nella funzionalità della stessa rispetto alla conformazione dell’assetto urbanistico, complessivo ed unitario, di determinate zone del territorio – operano anche per i regolamenti attuativi della legge regionale, i quali solo entro tali limiti possono dettare una disciplina direttamente incidente sulla materia delle distanze in deroga a quanto previsto dagli artt. 873 c.c. e ss. e dal D.M. n. 1444 del 1968 (cfr. Sez. 2 -, Ordinanza n. 26518 del 19/10/2018 Rv. 650785; Sez. 2 -, Sentenza n. 27638 del 30/10/2018 Rv. 651174).

In particolare, è stato affermato che la legge provinciale non può porsi in contrasto con i principi generali dell’ordinamento e che la disciplina sulle distanze tra fabbricati è materia inerente all’ordinamento civile e pertanto in ipotesi di contrasto la legge provinciale dovrebbe essere rimessa alla valutazione della Corte Costituzionale (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 741 del 2012 in motivazione).

Sul fronte più specifico della giurisprudenza costituzionale, va rilevato che il giudice delle leggi è già stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di disposizioni delle Province Autonome, sul mancato richiamo al rispetto delle norme sulle distanze fra edifici, integrative del codice civile e, in particolare, del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9: con la sentenza n. 114/2012 (riguardante la L. n. 4 del 2011 della Provincia Autonoma di Bolzano), emessa sempre nel solco del proprio orientamento, la Corte Costituzionale ha ribadito che “le norme in materia di distanze fra edifici costituiscono principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze.

In particolare, data la connessione e le interferenze tra interessi privati e interessi pubblici in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati (sentenza n. 232 del 2005)”.

Afferma ancora la Corte Costituzionale nella citata sentenza n 114/2012 che “Nel caso di specie, la norma in questione, attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9 emesso ai sensi della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies recante “Legge urbanistica” (introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17), avente, per giurisprudenza consolidata, un’efficacia precettiva e inderogabile.

In quanto tali deroghe non attengono all’assetto urbanistico complessivo delle zone di cui si verte, il mancato richiamo alle norme statali vincolanti per la Provincia, determina l’illegittimità costituzionale delle relative norme per violazione dell’art. 117 Cost., comma 2, lettera l), avendo invaso la competenza statale in materia di ordinamento civile”.

Anche di recente, con la sentenza n. 119/2020, la Corte Costituzionale è tornata sull’argomento dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale in materia di distanze, richiamando il principio, ormai consolidato, secondo cui “la disciplina delle distanze, che ha la sua collocazione anzitutto nella Sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi, sicché non si può dubitare che tale disciplina per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 41 del 2017, n. 6 del 2013 e n. 232 del 2005)”.

Con tale pronuncia la Corte Costituzionale ha poi individuato, sulla scia della precedente giurisprudenza, “il punto di equilibrio tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ex art. 117 Cost., comma 2, lett. l), e la potestà legislativa concorrente della Regione in materia di governo del territorio ex art. 117 Cost., comma 3”, mettendo in luce “come alle Regioni non sia precluso fissare distanze in deroga a quelle stabilite nelle normative statali, purché la deroga sia giustificata dal perseguimento di interessi pubblici ancorati all’esigenza di omogenea conformazione dell’assetto urbanistico di una determinata zona, non potendo la deroga stessa riguardare singole costruzioni, individualmente ed isolatamente considerate (ex plurimis, n. 13 del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 134 del 2014 e n. 6 del 2013). E tale delimitazione è stata recepita dal legislatore statale, il quale, con l’introduzione del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 2-bis (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), da parte del D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 30, comma 1, lett. Oa), (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 98, ha sancito i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M. n. 1444 de11968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (ex multis, sentenze n. 50 e n. 41 del 2017, n. 231, n. 185 e n. 178 del 2016, e n. 134 del 2014).

La deroga alla disciplina delle distanze realizzata dagli strumenti urbanistici è stata, in conclusione, ritenuta legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati (“gruppi di edifici”) e sia fondata su previsioni planovolumetriche, che evidenzino una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario, ai sensi del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, u.c., disposizione, quest’ultima, che rappresenta la sintesi normativa del punto di equilibrio tra la competenza statale in materia di ordinamento civile e quella regionale in materia di governo del territorio (tra le tante, sentenze n. 13 del 2020, n. 50 e n. 41 del 2017, n. 185 e n. 178 del 2016, n. 134 del 2014 e n. 6 del 2013)”.

Venendo adesso al panorama normativo locale, la L. n. 1 del 2008 della Provincia di Trento (cd. legge urbanistica provinciale) all’art. 58 detta gli standard urbanistici e stabilisce al comma 1 che “La Giunta provinciale può determinare, per zone territoriali omogenee, i limiti di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati e dai confini di proprietà, nonché i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, che devono essere osservati dagli strumenti di pianificazione territoriale e dai relativi piani attuativi”.

La L.P. n. 22 del 1991 (ordinamento urbanistico e tutela del territorio) a sua volta all’art. 23 stabiliva che “1 Fermo il rispetto dei criteri, degli indirizzi e dei parametri stabiliti dal piano urbanistico provinciale, nella formazione degli strumenti di pianificazione territoriale e nella modificazione di quelli esistenti debbono esser osservati limiti di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati e dai confini di proprietà, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.

2. La Giunta provinciale, sentita la CUP nonché la competente commissione permanente del Consiglio provinciale, fissa, entro diciotto mesi dall’approvazione della presente legge, ed aggiorna quando necessario tali limiti e rapporti per zone territoriali omogenee, distinguendo in particolare, tra gli spazi riservati alle attività collettive, quelli da destinare ad attrezzature religiose.

L’allegato 2 alla Delib. della giunta Provinciale n. 2023 del 2010 emanata ai sensi della L.P. n. 1 del 2008, art. 58 all’art. 1 detta le disposizioni generali in tema di distanze e al comma 3 dispone espressamente che “Le disposizioni del presente allegato sostituiscono le corrispondenti disposizioni di cui al D.M. lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, emanato ai sensi della L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, comma 9, di seguito denominato D.M. n. 1444 del 1968”.

Il successivo art. 2 detta i criteri di misurazione delle distanze e al comma 2 stabilisce che “Sono esclusi dal computo della distanza gli sporti di gronda, i balconi, le scale aperte e gli elementi decorativi che non costituiscono volume, purché di aggetto non superiore a 1,50 m….”.

Così ricostruito il quadro di riferimento sia normativo che giurisprudenziale, appare evidente che il problema di coordinamento della legge della Provincia Autonoma di Trento con la Legge Statale è mal posto dalla ricorrente perché non è la legge provinciale a discostarsi dalle prescrizioni statali, posto che essa ha un mero contenuto programmatico, conferendo alla Giunta Provinciale il potere di determinare in concreto i limiti di distanza tra i fabbricati.

Dovendosi quindi intendere che l’attribuzione fatta dalla legge provinciale in questione alla potestà regolamentare della Giunta si sia conformata ai limiti posti dalla Costituzione alle possibilità di intervento della Provincia Autonoma in tale ambito, va esclusa la diretta contrarietà della norma primaria provinciale alla previsione di cui all’art. 117 Cost., lett. l), ravvisandosi per converso l’illegittimità della sola previsione regolamentare dell’Allegato 2 Delib. della giunta Provinciale n. 2023 del 2010 che, eccedendo sia dai limiti ricavabili in generale dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, che dalle stesse previsioni della legge provinciale (da interpretarsi in senso conforme alla Costituzione), andava pertanto disapplicata (cfr. per una fattispecie assimilabile, Sez. 2 -, Ordinanza n. 26518 del 19/10/2018 Rv. 650785 in motivazione).

La nuova normativa intervenuta nelle more del giudizio di legittimità e richiamata nella memoria della ricorrente non apporta argomenti per opinare diversamente perché comunque non risulta dimostrata la sussistenza delle specifiche condizioni (sopra richiamate) legittimanti la deroga alla disciplina delle distanze tra fabbricati.

Ed allora, nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata del D.M. n. 1444 del 1968, si rivela corretta la decisione impugnata laddove ha fatto applicazione della normativa statale e si rivela superflua ogni disquisizione sulla fonte (legge provinciale) da cui promana la normativa regolamentare del Comune di Castello Molina di Fiemme in cui si trovano gli immobili delle parti in causa.

Da quanto esposto, discende, come logica conseguenza, che una eventuale questione di legittimità costituzionale della legge Provinciale sarebbe manifestamente infondata.

Parimenti, si rivela infondata la tesi, pure sostenuta nel primo motivo di ricorso, della assenza di efficacia cogente del D.M. n. 1444 del 1968 rispetto alla funzione legislativa concorrente delle Regioni o addirittura primaria delle Province Autonome di Trento e Bolzano: ed invero, contrariamente a quanto assume la ricorrente, il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 2, non ha una mera efficacia regolamentare, ma di legge dello Stato.

Come, infatti, ripetutamente affermato da questa Corte, il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 2, essendo stato emanato sulla base della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla L. n. 765 del 1967, art. 17 ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (cfr. tra le tante, Sez. 2 -, Ordinanza n. 624 del 15/01/2021 Rv. 660122; Sez. 2 -, Sentenza n. 1616 del 23/01/2018 Rv. 647082; Sez. U, Sentenza n. 14953 del 07/07/2011 Rv. 617949).

E’ stato altresì affermato ripetutamente che la nozione di costruzione è unica, ai sensi dell’art. 873 c.c., e non può subire deroghe da parte di fonti secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, atteso che il rinvio a norme integrative contenuto nell’ultima parte dell’art. 873 c.c. riguarda la sola possibilità, per tali norme, di stabilire un distacco maggiore di quello codicistico. In particolare, non sono computabili per la misurazione delle dette distanze esclusivamente le sporgenze esterne del fabbricato con funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica quelle aventi particolari proporzioni, come gli aggetti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità ed ampiezza, poiché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, essendo destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati (cfr. tra le tante, Sez. 2 -, Ordinanza n. 23845 del 02/10/2018 Rv. 650630; con riferimento ai balconi, Sez. 2, Sentenza n. 18282 del 19/09/2016 Rv. 641075; Sez. 2, Sentenza n. 17242 del 22/07/2010 Rv. 614192; con riferimento alle scale, v. Sez. 2, Sentenza n. 1966 del 30/01/2007 Rv. 594945; Sez. 2, Sentenza n. 1556 del 26/01/2005 Rv. 578604).

Nel caso in esame, avendo il giudice di merito accertato, con apprezzamento in fatto qui non sindacabile, la violazione delle distanze prescritte nella zona dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 considerando nel computo anche i balconi e la scala, che per le loro “caratteristiche emergenti dalla descrizione fattane dal CTU” rientravano senza dubbio nel concetto di costruzione (cfr. sentenza impugnata pagg. 17 e 18, nonché pag. 13, ove si dà atto della larghezza della scala pari a mt. 1,22 e pag. 14 ove si dà atto della sporgenza dei balconi, pari a mt. 1,18), la decisione si rivela giuridicamente corretta e quindi si sottrae alle censure mosse dalla ricorrente.

La dedotta conformità dell’opera alla concessione edilizia non rileva in questa sede, in cui si discute di rapporti tra privati.

Ed infatti, in tema di distanze minime tra costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi a quelli tra privati e, pertanto, il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività edificatoria. Di conseguenza, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia, allorquando l’opera risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali e non leda alcun diritto del vicino, allo stesso modo, l’avere eseguito la costruzione in conformità dell’ottenuta licenza o concessione, non esclude, di per sé, la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (cfr. Sez. 2 -, Ordinanza n. 4833 del 19/02/2019 Rv. 652694; Sez. 2, Sentenza n. 7563 del 30/03/2006 Rv. 587076; Sez. 2, Sentenza n. 10173 del 14/10/1998 Rv. 519714).

5 Infondato è anche il secondo motivo di ricorso.

La tesi sostenuta dalla ricorrente non si confronta con la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell’art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 2 aprile 1968, 1968 – applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla Legge Urbanistica17 agosto 1942, n. 1150, come modificata dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 – stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è “contra legem” in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (L. 6 agosto 1967, n. 765, che, con l’art. 17, ha aggiunto alla Legge Urbanistica17 agosto 1942, n. 1150 l’art. 41 quinquies, il cui comma 9 fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all’art. 9, n. 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10: cfr. Sez. 2, Sentenza n. 17089 del 27/07/2006 Rv. 593396; più di recente, Sez. 2, Sentenza n. 5594 del 22/03/2016 Rv. 639403).

Come si vede, la giurisprudenza di questa Corte non opera affatto le distinzioni lessicali proposte dalla ricorrente, anche perché come è noto, il legislatore mira a garantire che tra edifici ricadenti in zone diverse da quelle di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1, nn. 1 e 3 la distanza minima tra edifici debba essere quella di 10 m.

6 Con un quarto ed ultimo motivo, infine, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU del 20.3.1952 per contrasto tra tale norma CEDU e il D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 così come interpretato dalla giurisprudenza interna: inapplicabilità del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 per rilevata violazione dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, con applicazione della normativa provinciale del Trentino e Comunale del Comune di Castello Molina di Fiemme ovvero rimessione della relativa questione di costituzionalità alla Consulta.

Rileva la ricorrente che ogni provvedimento restrittivo della proprietà deve essere sempre adottato secondo un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito. Rileva la violazione di tale principio nel caso in esame caratterizzato da un ordine di demolizione di manufatti realizzati in conformità alla concessione edilizia e alla normativa locale con grave nocumento a fronte invece della mancanza di pregiudizio per l’altra parte che non vedrebbe mutato il suo godimento per effetto dell’arretramento o meno della struttura alberghiera. Sollecita la Corte a sollevare la questione di legittimità costituzionale in caso di ritenuto contrasto con la CEDU.

La censura è infondata al pari delle precedenti.

A norma dell’art. 1 del Protocollo Addizionale “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni” “Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

“Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende”.

La Corte EDU, occupandosi dell’interpretazione della disposizione, ha chiarito più volte, che “deve esserci una ragionevole relazione di proporzionalità tra le misure adottate e le finalità da realizzare. In altre parole, la Corte deve determinare se vi sia equilibrio tra le esigenze di pubblico interesse e gli interessi dell’individuo” (v. sentenza Silickiena c. Lituania, 10/4/2012; si vedano anche le sentenze 20 gennaio 2009, Sud Fondi e altri c. Italia e 29 ottobre 2013 Varvara c. Italia).

Solo per completezza, va richiamato il principio secondo cui l’eventuale violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, va verificata sotto il profilo della proporzionalità dell’ordine di demolizione rispetto alle condizioni personali e familiari dei destinatari della sanzione (v. Cassazione penale, sez. III, sentenza 08/04/2019 n 15141).

Nel caso in esame, il criterio di proporzionalità non è violato perché non è certamente in gioco la privazione del diritto di proprietà, né il diritto alla abitazione (perché non si tratta di unità abitativa) e – ben vedere neppure “l’arretramento della struttura alberghiera”, ma soltanto la regolarizzazione di una porzione di costruzione mediante arretramento di due balconi e di una scala esterna, a fronte dell’interesse pubblico al pieno rispetto della normativa sulle distanze finalizzata ad evitare intercapedini dannose e imposizioni di servitù.

In conclusione, il ricorso va respinto con inevitabile addebito di spese alla parte soccombente. Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021

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