LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29133-2016 proposto da:
CONGREGAZIONE SUORE FRANCESCANE ELISABETTINE VULGO BIGIE, rappresentata ed assistita dall’avvocato Antonio Giuseppe Pagliuca;
– ricorrente –
contro
G.G., G.A., elettivamente domiciliati in Roma, Via Giovanni Antonelli 49, presso lo studio dell’avvocato Sergio Como, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Alfonso Procacci;
– controricorrenti –
nonché contro G.V.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 3387/2016 della Corte d’appello di Napoli, depositata il 22/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/06/2021 dalla Consigliera CASADONTE Annamaria.
RILEVATO IN FATTO
che:
– la Congregazione Suore Francescane Elisabettine Vulgo Bigie (d’ora in poi solo la Congregazione) ha impugnato per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Napoli che ha accolto solo parzialmente il gravame dalla stessa proposto nei confronti della sentenza del Tribunale di Napoli che aveva rigettato tutte le sue domande;
– la Congregazione aveva, infatti, citato in giudizio G., A., G. e G.V. esponendo di essere proprietaria di un immobile denominato “*****” sito in *****, ed il cui quinto piano sottostrada comprendeva anche la vecchia chiesa o cripta alla quale era possibile accedere tramite una scala denominata “scala santa” in parte in comunione con il condominio di via *****;
– lamentava la Congregazione che i convenuti, pur non avendo mai avuto accesso alla chiesa dalla suddetta scala, nell’effettuare nel 2001 dei lavori di ristrutturazione nel proprio immobile – venduto dalla Santa sede con rogito del 24/7/1978 alla società ” G. di G. e V. G. s.n.c.”- avevano installato un ascensore esterno, avevano rimosso un cancello di proprietà esclusiva della Congregazione, ristretto l’apertura in cui detto cancello era collocato per posizionare il castelletto dell’ascensore ed installato un cancello piccolo del quale detenevano le chiavi, con l’effetto di impedire l’accesso alla chiesa dalla cosiddetta scala santa;
– la Congregazione allegava che l’ascensore ed il castelletto erano stati edificati senza rispettare le distanze legali e con occupazione di una vanfila di proprietà esclusiva e che l’appartamento al quinto piano sottostrada assegnato in sede grotta deposito denominata “eremo” e costituente parte integrante della chiesa;
– tanto premesso la Congregazione chiedeva l’accertamento della proprietà unica ed esclusiva dell’intero locale chiesa e del cancello che consentiva l’uscita nella scalda santa nonché della vanella con condanna dei convenuti alla demolizione del vano ascensore e di ogni parte connessa alla violazione dei diritti di essa attrice nonché della nullità dell’atto di divisione operato fra i convenuti e, in subordine, chiedeva la dichiarazione del possesso ultradecennale o ultraventennale della porzione terminale della scala santa con conseguente intervenuta usucapione della proprietà esclusiva con rimozione del cancello installato e ripristino dei luoghi;
– i convenuti si costituivano eccependo la legittimità del loro operato in quanto proprietari dei vani oggetto di causa in virtù dell’acquisto effettuato nel 1978;
– il tribunale napoletano rigettava tutte le domande di parte attrice con condanna alle spese di lite;
– proposto appello da parte della Congregazione, la corte napoletana ha ritenuto, sulla scorta della chiara individuazione dell’oggetto della vendita contenuta nel rogito che la vendita effettuata nel 1978 del fabbricato censito al numero civico *****, da cielo a terra e sottosuolo, ricomprendeva tutte le parti non espressamente escluse come quelle al quarto ed al terzo livello sottostrada con la conseguenza che il subalterno n. 25, corrispondente al quinto piano sottostrada, non essendo espressamente citato nel rogito come parte esclusa non poteva ritenersi di proprietà esclusiva della Congregazione;
– la corte ha osservato che la mancata indicazione è ininfluente avendo le parti espressamente pattuito l’irrilevanza di inesattezze di misurazione o catastali in considerazione delle caratteristiche dei beni e della loro compenetrazione;
– la corte d’appello ha ritenuto, inoltre, sulla scorta del richiamo alla sentenza n. 6253/2012 del Consiglio di stato che l’ascensore quale “volume tecnico” o “impianto tecnologico” strumentale alle esigenze tecnico funzionali dell’immobile non possa essere inteso quale costruzione in senso strettamente civilistico e sottoposta al regime giuridico delle distanze legali;
– ad avviso della corte territoriale l’ascensore, come le serventi delle condotte idriche o termiche, rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici e che, pertanto, debbono essere sottoposti alla legislazione in materia di rimozione delle barriere architettoniche, di cui al disposto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 79, comma 1, non ritenendo pertinente il richiamo svolto dall’appellante alla sentenza di questa Corte n. 13.358 del 2016;
– la corte territoriale ha ritenuto, invece, fondato il terzo motivo di impugnazione relativo all’importo delle spese vive liquidate dal giudice di prime cure in Euro 300,00, in mancanza di una fattura attestante le spese sostenute con conseguente loro riduzione alla misura di Euro 100;
– la cassazione della sentenza d’appello è chiesta dalla Congregazione con ricorso affidato a quattro motivi illustrati da memoria, cui resistono con controricorso, pure illustrato da memoria, G. ed A.G.;
– non ha svolto attività difensiva l’intimato G.V..
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
– con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione ed errata applicazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 e dall’art. 1363 c.c. per avere la corte d’appello limitato l’indagine al senso letterale delle parole utilizzate nell’atto notarile senza indagare la comune intenzione delle parti desumibile dal loro complessivo comportamento ed omettendo il possibile riferimento alle planimetrie catastali che costituiscono criterio sussidiario nella determinazione del confine;
– la censura è inammissibile, come rilevato dalla parte controricorrente, per difetto di specificità per non avere la ricorrente trascritto nell’ambito della censura svolta il contenuto del rogito ai fini dell’apprezzamento della critica sollevata;
– con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione ed errata applicazione della L. n. 13 del 1989, art. 3 nonché la violazione ed errata applicazione degli artt. 873 e 907 c.c. per non avere la corte territoriale statuito conformemente al principio secondo cui l’ascensore realizzato tra fabbricati adiacenti ma all’interno della proprietà individuale deve rispettare le distanze legali dalle vedute, non potendosi invocare la disciplina speciale prevista dalla normative sulle barriere architettoniche; -la censura si fonda sul richiamo al principio affermato dalla Corte di cassazione con la sentenza 13.358 del 2016;
– la censura è infondata;
– D.P.R. n. 380 del 2001, art. 79, nel quale è stato poi trasfuso la L. n. 13 del 1989, art. 3, si riferisce alle “Opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche realizzate in deroga ai regolamenti edilizi” e prevede che:
“1. Le opere di cui all’art. 78 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati.
2. E’ fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c., nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.
– la corte d’appello ha motivato la conclusione circa la non applicabilità delle distanze non sulla scorta della constatazione che fra l’impianto dell’ascensore e la proprietà dell’appellante esiste uno spazio o proprietà di uso comune fra le parti, secondo le previsioni civilistiche, circostanza esplicitamente esclusa dalla ctu, ma sulla diversa ratio che l’ascensore costituisce un impianto tecnologico strumentale alle esigenze tecnico funzionali dell’immobile e che la normativa sulle barriere architettoniche là dove contiene espressioni quali “spazio o area di proprietà comune o di uso comune” non possa essere intesa in senso strettamente civilistico, potendo rilevare anche uno spazio che comunque denominato per le caratteristiche si presti ad essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti;
– in tale prospettiva interpretativa la corte territoriale con apprezzamento di fatto ha ritenuto che la Congregazione aveva riconosciuto di avere sempre utilizzato detto spazio oggetto di causa e ciò giustificava l’applicazione della sopra citata previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 79, comma 1, che ha recepito della L. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1;
– in conseguenza della ritenuta interpretazione del riferimento allo spazio od area di uso comune contenuto nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 79, comma 1, finalizzata a favorire l’eliminazione delle barriere architettoniche fra edifici privati, né la pronuncia della Corte n. 13358/2016, né quella successiva richiamata nella memoria di parte ricorrente (cfr. Cass. 25835/2018), entrambe riguardanti aree di proprietà esclusiva, appaiono rilevanti per annullare la conclusione della corte territoriale alla stregua della situazione concretamente accertata e cioè l’uso comune dello spazio oggetto di causa e del quale, peraltro, la ricorrente aveva formulato domanda di usucapione;
– con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione ed errata applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3, per avere la corte d’appello violato la disposizione richiamata condannando la ricorrente all’esborso di Euro 100,00 per spese non imponibili relative al giudizio di primo grado e nello stabilire in Euro 50,00 alle spese non imponibili relative al giudizio di appello;
– la censura è inammissibile per difetto di specificità non avendo la ricorrente giustificato le ragioni della sollevata critica con riferimento agli importi asseritamente indicati nella parcella non trascritta;
– con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., oltre al difetto assoluto di motivazione quanto alla determinazione delle spese del giudizio di appello;
– la censura è inammissibile per difetto di specificità non contenendo la indicazione dei principi interpretativi e dei parametri asseritamente violate dalla corte d’appello;
– il ricorso è rigettato;
– sussistono giusti motivi, in ragione della eccezionale peculiarità della fattispecie dedotta in giudizio, per la integrale compensazione delle spese di lite;
– sussistono, infine, i presupposti processuali per il versamento;
– ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di lite.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2021
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