Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.38877 del 07/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21509/2018 proposto da:

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAMERINO 15, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA VICINANZA, rappresentata e difesa dall’avvocato BIAGIO CARTILLONE;

– ricorrente principale –

UNIVERSITA’ COMMERCIALE *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato BERNARDO BRUNO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

C.R.;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1080/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/06/2018 R.G.N. 339/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/09/2021 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE.

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di Milano con la sentenza n. 1080/2018 aveva rigettato il reclamo proposto, in sede di procedimento L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, da C.R. avverso la decisione con cui il Tribunale di Milano aveva respinto l’opposizione all’ordinanza con cui, in sede sommaria, era stata dichiarata l’illegittimità, per sproporzione, del licenziamento intimato al C. dall’Università *****; era ritenuto provato il solo addebito riguardante le ingiurie rivolte al coordinatore V., esistenti, ma non di gravità tale da legittimare il recesso, ed invece non provata l’insubordinazione e le minacce oggetto di insubordinazione In particolare la Corte territoriale aveva valutato che gli epiteti offensivi rivolti dal C. al coordinatore V. erano da ritenersi “in contrasto con i generali canoni di civile convivenza, nonché, specificamente, con i basilari obblighi nascenti dal rapporto di lavoro”, se pur non rilevanti sotto il profilo penalistico afferente le ipotesi di ingiuria. Peraltro, la Corte medesima, valutava sproporzionata la sanzione espulsiva irrogata rispetto al comportamento addebitato, valutando invece adeguata la tutela indennitaria.

Avverso detta statuizione C.R. proponeva ricorso affidato a quattro motivi cui resisteva con controricorso l’Università commerciale ***** anche contenente ricorso incidentale affidato a tre motivi.

L’Università depositava successiva memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Ricorso principale.

1) Con il primo motivo è dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., con riferimento all’art. 35 del Contratto collettivo dell’Università Bocconi ed all’art. 2119 c.c., per aver, la Corte di appello, erroneamente interpretato il disposto della norma collettiva senza considerare la avvenuta depenalizzazione del reato di ingiuria e dunque senza considerare che il comportamento sanzionabile con il licenziamento per giusta causa deve comunque essere astrattamente riconducibile alla figura dell’ingiuria così come mutata nell’apprezzamento del sistema penalistico.

2) Con il secondo motivo è lamentata la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver, la corte di merito, dichiarato la nullità dell’art. 35, comma 7, lett. d) ccnl Università ***** in quanto in contrasto con l’art. 2119 c.c., a seguito della depenalizzazione del reato di ingiuria.

I motivi possono essere trattati congiuntamente perché relativi, sotto differente profilo, alle disposizioni del Contratto collettivo dell’Università *****. Deve preliminarmente rilevarsi che si tratta di un contratto aziendale rispetto al quale “Il sindacato di legittimità sui contratti collettivi aziendali di lavoro può essere esercitato soltanto con riguardo ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella specie, nel testo antecedente al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012 “ratione temporis” applicabile), ovvero ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, per violazione delle norme di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., a condizione, per detta ipotesi, che i motivi di ricorso non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella del provvedimento gravato, ma prospettino, sotto molteplici profili, l’inadeguatezza della motivazione anche con riferimento alle norme del codice civile di ermeneutica negoziale come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e congruità della motivazione stessa” (Cass. n. 4460/2020).

Nel caso in esame non sussistono le condizioni per il detto sindacato in quanto i due motivi non indicano la contrapposizione con le norme di ermeneutica contrattuale invece proponendo una diversa interpretazione rispetto a quella fornita dal giudice d’appello.

Peraltro inconferente risulta anche il richiamo alla influenza della depenalizzazione sulla disciplina contrattuale in quanto il testo ivi contenuto non richiama il “reato” di ingiuria ma l’ingiuria quale contenuto di offese. A tal riguardo, richiamato il principio di autonomia tra giudizio penale e disciplinare, deve ritenersi che “la gravità della condotta ascritta al dipendente licenziato per giusta causa può avere un sufficiente rilievo disciplinare ed essere idonea a giustificare il licenziamento anche ove la stessa non costituisca reato” (Cass. n. 8716/2002); ciò a cui occorre prestare attenzione è “l’idoneità della condotta a ledere la fiducia del datore di lavoro, al di là della sua configurabilità come reato, e la prognosi circa il pregiudizio che agli scopi aziendali deriverebbe dalla continuazione del rapporto” (Cass. n. 7127/2017). In tale dimensione la valutazione operata dal giudice di appello è dunque correttamente diretta al rapporto di pregiudizialità tra comportamento tenuto dal lavoratore e permanenza del vincolo fiduciario. Le doglianze risultano pertanto infondate.

3) Con la terza censura il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, per la mancata applicazione, da parte della corte territoriale, del disposto della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, trattandosi di condotta punibile, secondo la previsione della norma collettiva, con sanzioni conservative. In particolare richiama il disposto dell’art. 35, comma 4, lett. b) e comma 5, lett. f). Il primo di essi afferisce a “condotta non conforme a principi di correttezza verso l’Università, gli altri dipendenti…” il secondo a “alterchi negli ambienti di lavoro nei confronti di altri dipendenti, di utenti o di terzi, anche per motivi non attinenti al servizio”.

Il motivo è inammissibile poiché, sotto l’apparente denuncia della violazione di legge, in realtà è richiesta nuova valutazione di merito del comportamento che la corte territoriale ha ritenuto di evidente rilevanza disciplinare. Il giudice di appello ha infatti valutato sussistente il fatto materiale e la esistenza di “epiteti offensivi” che sono in “contrasto con i generali canoni di civile convivenza nonché con i basilari obblighi nascenti dal rapporto di lavoro”, in tal modo esercitando un giudizio di merito e di valenza disciplinare estraneo alle fattispecie contenute nell’invocata norma collettiva.

4) Con il quarto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per la esclusa rilevanza della mancata affissione del codice disciplinare, in presenza di una condotta il cui disvalore appariva di immediata percezione senza necessità di specificazione e tipizzazione.

Anche tale censura è inammissibile in quanto aggredisce una valutazione di merito, argomentata dal giudice di appello, invocando un differente giudizio estraneo alla sede di legittimità.

Ricorso incidentale.

5) Con il primo motivo l’Università ha dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per la mancata considerazione, nell’ambito del giudizio di sproporzione della sanzione compiuto dalla Corte, della assenza di precedenti disciplinari. In particolare il motivo sottolinea come l’assunto della Corte sia in contrasto con quanto emerso in istruttoria circa i precedenti disciplinari riguardanti il lavoratore.

Il motivo è inammissibile poiché, pur richiamando specifiche risultanze istruttorie, non contiene specificazioni sul dove e come tali circostanze (precedenti disciplinari) siano entrati nel processo ed abbiano costituito oggetto di confronto tra le parti. Questa Corte ha chiarito che “il ricorrente non può limitarsi a denunciare l’omesso esame di elementi istruttori, ma deve indicare l’esistenza di uno o più fatti specifici, il cui esame è stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui essi risultino, il “come” ed il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività” (Cass. 7472/2017).

6) La seconda censura attiene all’omesso esame di un fatto decisivo quale il rifiuto del lavoratore ad eseguire un ordine legittimo. L’università precisa che tale addebito avrebbe dovuto essere considerato dalla Corte territoriale ai fini della determinazione in punto di gravità della condotta e di ragione della scelta espulsiva.

Deve rilevarsi che con la decisione impugnata la Corte di appello ha collocato l’addebito (rifiuto di eseguire un ordine) nel contesto piu” generale di manifestazione da parte del lavoratore del disagio già rappresentato all’Università anche in precedenza ed anche nella qualità di rappresentante sindacale. Tali determinazioni evidenziano la valutazione in punto svolta dal giudice del merito che ha posto in rilievo, nell’ambito della complessiva condotta, le offese rivolte al coordinatore quale illegittimo comportamento sia pur in un contesto che al più avrebbe consentito l’inosservanza dell’ordine impartito. Il fatto contestato è stato quindi oggetto di giudizio di merito e di qualificazione giuridica conseguente che non offre spazio per l’attuale censura di omessa valutazione.

7) Con il terzo motivo è dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio quali l’erronea qualificazione giuridica della condotta, l’omesso esame delle complessive circostanze della dinamica (presenza di terzi), l’omesso esame di precedenti disciplinari.

In disparte il “cumulo” delle censure che affligge il motivo e lo rende inammissibile, sul primo punto, l’inammissibilità è anche determinata dalla inconferenza della denuncia (erronea qualificazione giuridica) con il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Gli altri due profili della censura sono altresì inammissibili poiché richiamano le “ulteriori circostanze di fatto ” quali la presenza di terzi, e la presenza di precedenti disciplinari, accertate nelle due fasi di merito, ma non ne contengono lo specifico riferimento e neppure ove e come siano state acquisite al processo, con effetti negativi sulla necessità di sufficiente specificazione della censura.

Il ricorso incidentale, per le esposte ragioni deve pertanto ritenersi infondato.

Le spese, attesa la reciproca soccombenza, sono compensate.

Visto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; Rigetta il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ed incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2021

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