Tributi erariali indiretti, imposta sul valore aggiunto (i.v.a.) , oggetto, prestazione di servizi, operazioni esenti, prestazioni accessorie

Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.40726 del 20/12/2021

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Tributi erariali indiretti, imposta sul valore aggiunto (i.v.a.) , oggetto, prestazione di servizi, operazioni esenti, prestazioni accessorie

In tema d'IVA, per prestazioni accessorie esenti dall'imposta devono intendersi le operazioni poste in essere dal medesimo soggetto in necessaria connessione con l'operazione principale, a cui accedono con la funzione di integrarla, completarla o renderla possibile. (nel caso di specie è stata. esclusa l'accessorietà, rispetto alle prestazioni proprie dei servizi di pompe funebri esenti dall'imposta, delle operazioni di allestimento delle epigrafi sulle lapidi e di fornitura dei cd. "ricordini" dei defunti, in quanto non aventi la funzione di integrare o di rendere possibili dette prestazioni).

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Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.40726 del 20/12/2021

(Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente; Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere)

FATTI DI CAUSA

R.D., esercente l’attività di servizi funerari e pompe funebri, impugnò l’avviso di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Ravenna – a seguito di una attività di controllo con accesso presso l’azienda attraverso cui era emersa una contabilità “parallela” o “in nero” con annotazione sul computer in uso alla ditta verificata dei preventivi per i servizi funerari prestati, in assenza di un listino ufficiale dei prezzi per i servizi ai clienti, nonché la omessa indicazione ai fini dello studio di settore del cespite costituito da una autovettura acquistata nel 2005 ed annotata nel registro dei beni ammortizzabili e la esclusione dall’IVA di prestazioni accessorie a quelle tipiche del funerale – aveva rettificato il reddito di impresa per l’anno 2005, ai fini IRPEF, IRAP ed IVA, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, determinando maggiori ricavi ai fini IRPEF per Euro 65.892 e disconoscendo l’esenzione dall’IVA per Euro 14.484.

Con il ricorso iniziale il contribuente dedusse, per quanto ancora interessa, che la tenuta di un listino dei prezzi non era obbligatoria mentre il documento “preventivi” rinvenuto nel computer era stato predisposto nel 2007, che il valore dell’auto ad uso promiscuo era stato indicato e che la esenzione dall’IVA spettava anche per la apposizione delle epigrafi funerarie e per la fornitura dei “ricordini” del defunto in quanto servizi accessori alla prestazione principale, il che fu contrastato dalla Agenzia delle Entrate che sostenne la correttezza dell’accertamento.

La Commissione Tributaria Provinciale di Ravenna, aderendo alla tesi dell’Ufficio, confermò l’accertamento con sentenza n. 243/2/2011 che fu appellata dal contribuente il quale ribadì che il file rinvenuto e ritenuto dimostrativo della “contabilità in nero” era successivo all’anno di imposta 2005, che non si comprendeva quale errore avrebbe commesso il contribuente nella compilazione dello studio di settore e che infine tutte le prestazioni eseguite dovevano erano ritenute esenti dall’IVA in quanto accessorie al servizio funebre.

La Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, con sentenza n. 2909/3/2015, depositata in data 21.12.2015, rigettò l’appello del contribuente rilevando che la ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio si basava innanzitutto sul rinvenimento di significativa documentazione extracontabile (contabilità in nero), cui si aggiungevano più elementi utili a rideterminare le poste contabili, quali il confronto fra il reddito dichiarato ed il risultato di accessi ed ispezioni operate presso la sede della ditta contribuente, risultando fra l’altro inspiegabili l’assoluta mancanza di listino dei prezzi praticati al pubblico per le diverse componenti dei servizi che viceversa trovavano riscontro nella contabilità in nero, nonché la mancanza di trasparenza per eccessiva indeterminatezza dei servizi prestati e la assenza in fattura della monodopera impiegata. Osservò inoltre che i valori dichiarati ai fini dello studio di settore risultavano alterati dalla mancata indicazione del cespite costituito dall’autovettura acquistata nel 2005 ed annotata nel registro dei beni ammortizzabili e che la applicazione dell’IVA con riguardo alla fornitura dei “ricordini” ed alla incisione delle “epigrafi” era giustificata per la sistematica prestazione di servizi e beni che rientravano nel campo dell’IVA ordinaria.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione il contribuente con atto notificato in data 11.12 aprile 2016, affidato a due motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate. Il contribuente ha presentato altresì successiva memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 27, e art. 12, per avere la sentenza impugnata escluso erroneamente la accessorietà, ai fini dell’IVA, dei servizi di allestimento delle epigrafi sulle lapidi e della fornitura dei cd. “ricordini” del defunto, in quanto ritenuti dalla Agenzia delle Entrate servizi non attinenti al servizio funebre ed integranti, quanto ai “ricordini” una vera e propria cessione dei beni, benché si trattasse invece di prestazioni richieste dai parenti del defunto al momento della commissione del funerale e contestuali alla cerimonia funebre e la stessa Corte di Cassazione con la sentenza sez. lav. n. 9955 del 2001 avesse ritenuto che il servizio funebre doveva essere considerato nel suo complesso.

2. Con il secondo motivo si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti integrato dalla circostanza che la creazione del documento “Preventivi”, assunto dalla Agenzia delle Entrate quale pilastro dell’accertamento, era avvenuta nel 2007 e quindi era successiva alla annualità di imposta in considerazione e che non era vero che il contribuente non avesse esposto correttamente nello studio di settore il valore dei beni.

3. Il ricorso è infondato.

4. Quanto al primo motivo, il ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 27, e art. 12, escluderebbero dalla imponibilità dell’IVA le prestazioni che la Agenzia delle Entrate aveva ritenuto imponibili nel caso in esame in quanto l’allestimento delle epigrafi sulle tombe e la fornitura dei “ricordini” del defunto rientrerebbero nelle “prestazioni proprie dei servizi di pompe funebri” ovvero in quelle “accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese” poiché proprie del complesso delle onoranze con cui si celebrano i funerali.

4.1. Il ricorrente però trascura che le disposizioni che prevedono fattispecie di esenzione dalle imposte sono di stretta interpretazione, il che è confermato nel caso di specie dallo specifico riferimento normativo alle “prestazioni proprie dei servizi di pompe funebri”, la cui formulazione restringe ancor più il campo di esenzione dall’applicazione dell’IVA attraverso l’uso di una espressione inequivocabile che vuole ritenere imponibili quelle prestazioni che non hanno specifica attinenza con le pompe funebri, in quanto relative a servizi diversi o ulteriori rispetto a quelli funerari strettamente intesi, come appaiono essere quelli sopra indicati, fra l’altro neppure contestuali alle onoranze funebri vere e proprie, anche se in ipotesi commissionati contestualmente (v. ex pluribus, da ultimo, quanto alla natura di stretta interpretazione delle disposizioni agevolative in materia tributaria, che, avendo natura derogatoria di previsioni impositive generali, non ammettono neppure interpretazioni estensive e tanto meno analogiche, Cass. Sez. U -, Sentenza n. 10013 del 15/04/2021 Rv. 661014 – 01; Sez. 5 -, Sentenza n. 23686 del 28/10/2020 Rv. 659306 – 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 23081 del 17/09/2019 Rv. 655075 – 01).

4.2. A tale stregua si deve quindi escludere che la predisposizione dei “ricordini” del defunto, commissionati dai parenti del defunto e delle incisioni sulle lapidi, fra l’altro successive alla avvenuta tumulazione, possano rientrare fra le prestazioni proprie dei servizi funerari.

4.3. Il ricorrente adduce ancora che le suddette prestazioni potrebbero comunque essere esenti in quanto accessorie rispetto alle prestazioni proprie dei servizi funerari, a norma del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12, secondo cui: “Il trasporto, la posa in opera, l’imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all’imposta nei rapporti fra le parti dell’operazione principale. Se la cessione o prestazione principale è soggetta all’imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie imponibili concorrono a formarne la base imponibile”.

4.4. Neppure tale tesi è però condivisibile poiché, se la formulazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, punto 27, riduce espressamente la possibilità di fare rientrare nella esenzione prestazioni diverse da quelle proprie, è evidente che ciò esclude anche la possibilità di una interpretazione che includa fra le prestazioni accessorie quelle che il legislatore ha voluto escludere espressamente da quelle principali, che sono state normativamente limitate a quelle “proprie”.

4.5. I documenti di “prassi” citati dal ricorrente al fine di sostenere la accessorietà delle prestazioni di cui si tratta rispetto a quelle proprie dei servizi di pompe funebri non sono dal loro canto pertinenti poiché riguardano diverse ipotesi, ad esempio di trasporto o di pubblicità, che trovano aggancio nell’art. 12, comma 1, secondo cui punti cardine per valutare l’accessorietà di una operazione restano sempre: 1) il concetto di “funzionalità necessaria” o “nesso di causalità necessaria” (la prestazione che si ritiene accessoria deve assumere una posizione subordinata rispetto a quella principale e non può prescindere dall’esistenza di quest’ultima); 2) la definizione di prestazioni accessorie come atti posti in essere per integrare, completare o rendere possibile l’operazione principale; 3) la convergenza di tutte le prestazioni considerate nella direzione della realizzazione di un unico obiettivo; 4) la necessità che le cessioni o prestazioni accessorie, per essere considerate tali, devono essere effettuate direttamente dal cedente ovvero per suo conto e a sue spese e cioè situazioni non assimilabili in alcun modo a quelle oggetto del presente giudizio in cui la fornitura di “ricordini” e la successiva predisposizione di epigrafi sulle lapidi non aveva funzione integrativa di quella propria delle pompe funebri e tanto meno quella di rendere possibile la detta prestazione o cessione principale (v. Risoluzione Ministeriale 4 luglio 2002, n. 206/E; Risoluzione ministeriale 11 febbraio 1998, n. 6/E – prestazioni pubblicitarie -: sono accessorie solo le operazioni poste in essere dal medesimo soggetto in necessaria connessione con l’operazione principale alla quale, quindi, accedono e che hanno, di norma, la funzione di integrare, completare o rendere possibile la detta prestazione o cessione principale; Risoluzione ministeriale 15 luglio 2002, n. 230/E: La risoluzione, relativa ad una istanza di interpello presentata ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 11, fornisce chiarimenti in merito alle condizioni necessarie affinché si delinei un rapporto di accessorietà tra due prestazioni. In particolare, l’Agenzia precisa che non è sufficiente una generica utilità della prestazione accessoria all’attività principale, unitariamente considerata. La prestazione accessoria deve formare un tutt’uno con l’operazione principale. Infine, sono considerate accessorie solo le operazioni poste in essere dal medesimo soggetto in necessaria connessione con l’operazione principale alla quale, quindi, accedono e che hanno, di norma, la funzione di integrare, completare o rendere possibile la detta prestazione o cessione principale).

4.6. Tale interpretazione è d’altronde conforme al principio generale previsto dalla Dir. n. 2006/112/CE, art. 2, par. 1, secondo cui ciascuna operazione in tema di IVA deve essere considerata come autonoma e indipendente ed a questa regola fanno eccezione solo le operazioni accessorie, caratterizzate dalla concomitanza di operazioni diverse, ma accomunate da un rapporto di dipendenza dell’una rispetto all’altra.

4.7. La normativa comunitaria non fornisce in realtà la definizione di accessorietà, limitandosi a stabilire che nella base imponibile vanno comprese “le spese accessorie, quali le spese di commissione, di imballaggio, di trasporto e di assicurazione addebitate dal fornitore all’acquirente o al destinatario della prestazione” (Dir. n. 2006/112/CE, art. 78, comma 1, lett. b)). Pur ritenendo che l’individuazione del nesso di accessorietà debba, pertanto, avvenire ricorrendo ai principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria secondo i quali l’operazione è accessoria ad una operazione principale quando non costituisce per il destinatario un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni dell’operazione principale, l’operazione accessoria e’, quindi, quella che accede a quella principale allo scopo di integrarla, completarla o renderla possibile, secondo i principi recepiti dall’Amministrazione Finanziaria nei documenti di prassi già sopra esaminati sulla cui base si può escludere che le prestazioni ritenute imponibili nel caso in esame fossero dirette a rendere possibile la prestazione principale o anche soltanto a completarla così da costituire un tutt’uno con la prestazione principale, trattandosi invece, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, di “sistematica prestazione di servizi e beni che rientrano nel campo di IVA ordinaria”.

4.8. In senso del tutto conforme si segnalano le seguenti sentenze della Corte di Giustizia: – Corte di Giustizia della Comunità Europea, sentenza 5 giugno 1997, causa C-2/95; – Corte di Giustizia della Comunità Europea, sentenza 11 gennaio 2001, causa C-2/76/99; – la pronuncia della Corte di Giustizia in causa c-2/95 che riguarda l’ambito d’applicazione delle esenzioni IVA contemplate dalla sesta Dir., art. 13, lett. d), nn. 3 e 5, che peraltro trovano corrispondenza nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10 (In particolare la sentenza ha affrontato la questione dell’esenzione IVA a proposito dei servizi resi da un centro d’informatica alle banche e ai loro clienti stabilendo che le operazioni indicate nel citato art. 13, sono esenti anche se effettuate da un soggetto che non svolge attività bancaria poiché “l’esenzione non è soggetta alla condizione che le operazioni siano effettuate da un certo tipo di istituti di credito, da un certo tipo di persona giuridica o, in tutto o in parte, in una determinata maniera, elettronica o manuale”); -Corte di Giustizia CE, sent. 2 maggio 1996, causa C-231/94; -Corte di Giustizia CE, sent. 26 settembre 1996, causa C-327/94; Corte di Giustizia CE, sent. 11 gennaio 2001, causa C-76/99.

4.9. La sentenza della sezione lavoro di questa Corte n. 9955 del 2001 è stata infine invocata dal ricorrente ugualmente in modo improprio poiché non ha alcuna attinenza con il sistema delle agevolazioni tributarie, che sono improntate al principio di stretta interpretazione, riguardando invece i presupposti che, ai sensi della L. n. 443 del 1985, art. 3, deve possedere l’impresa per essere ritenuta artigiana ed ha quindi ritenuto essere artigiana, a tali fini, non solo l’impresa che esercita un’attività di produzione di beni (anche semilavorati), ma anche quella che esercita “attività di prestazione di servizi”, escluse le attività agricole e commerciali, aggiungendo che, ai limitati fini dell’inquadramento di una impresa come artigiana o meno, la prestazione del servizio, nel caso di una impresa di pompe funebri, deve essere valutata nel suo complesso e non scissa nelle sue singole componenti, affidandosi, poi, ad un giudizio di prevalenza dell’una sulle altre: il che appare del tutto condivisibile con riferimento all’inquadramento di un’impresa nel settore artigiano o meno, ma non anche con riguardo alla spettanza o meno delle agevolazioni tributarie che è governata dal principio di stretta interpretazione e non ammette neppure interpretazioni estensive.

4.10. In ogni caso, nella fattispecie in esame la predisposizione dell’epigrafe sulla lapide e la fornitura dei cd. “ricordini” del defunto sono stati ritenuti dalla sentenza impugnata prestazioni di beni e servizi rientranti nel campo dell’IVA ordinaria in quanto sistematica prestazione non accessoria a quella propria dei servizi di pompe funebri e quindi non rientranti neppure nella previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12, attraverso una valutazione di merito espressamente confermativa di quella operata dal giudice di primo grado e dalla Agenzia delle Entrate in sede di accertamento, che non appare contestabile in sede di legittimità appunto in quanto valutazione di fatto propria del giudice del merito.

4.11. Il vizio di violazione di legge consiste infatti nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (In applicazione di tale principio, questa Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con il quale era stata proposta una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice di merito, in assenza di qualsivoglia censura dei criteri ermeneutici asseritamene violati o di specifica indicazione di un preciso “error in iudicando”: Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 Rv. 645538 – 03; Sez. 1 -, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019 (Rv. 652398 – 01).

5. Anche il secondo motivo è infondato.

5.1. Con esso viene dedotto, in primo luogo l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella circostanza che il file excel contenente il documento “preventivi” che avrebbe autorizzato l’accertamento in via induttiva era stato creato solo nel 2007 e cioè in anno successivo a quello cui si riferiva l’accertamento impugnato, il che non era stato preso in esame dalla sentenza impugnata pur essendo stato esposto a pagina 4 dell’appello.

5.2. In proposito occorre premettere che, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5), presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (v. Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21257 del 08/10/2014 Rv. 632914 – 01 e successive conformi).

5.3. Il motivo di ricorso, sotto tale aspetto, rivela quindi, in primo luogo, ampi profili di inammissibilità poiché vi è stata una precisa pronuncia da parte del giudice di appello, supportata da una motivazione articolata in più punti con riguardo alla sussistenza dei presupposti per la ricostruzione induttiva dei ricavi che era stata operata con l’accertamento (con riguardo non solo al rinvenimento della contabilità in nero presso l’azienda del ricorrente ma anche ad altri “plurimi elementi utili a rideterminare le poste contabili, quali il confronto fra il reddito dichiarato ed il risultato di accessi ed ispezioni operate presso la sede della Ditta contribuente….risulta inspiegabile l’assoluta mancanza dei listini dei prezzi praticati al pubblico per le diverse categorie dei servizi che viceversa trovano riscontro nella contabilità in nero….anche la mancanza di trasparenza per eccessiva indeterminatezza dei servizi prestati, come pure l’assenza di riferimento in fattura alla manodopera impiegata si aggiunge infine che anche i valori dichiarati ai fini degli studi di settore risultano alteratì) ed appare peraltro infondato anche con riguardo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, poiché non si richiede che il giudice prenda in esame specificamente tutte le argomentazioni addotte dalle parti, bensì che spieghi l’iter logico giuridico seguito per giungere alla decisione; il che si ricava dalla sentenza impugnata considerato che il giudice di appello ha indicato plurimi elementi, fra l’altro autonomi ed autosufficienti, che giustificavano l’accertamento analitico induttivo a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), ciascuno dei quali sufficiente a supportare tale tipologia di accertamento in quanto idoneo a giustificare l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati sulla base dell’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33, ovvero del controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa, non esistendo, in particolare, un listino “ufficiale” dei prezzi praticati al pubblico e non risultando neppure dalle singole fatture i servizi prestati e la manodopera impiegata.

5.4. In tale ambito la circostanza che il listino “in nero” dei prezzi effettivamente praticati, rinvenuto nel computer aziendale al momento della successiva verifica fiscale, fosse stato quello elaborato dal contribuente nel 2007 integra quindi un elemento tutt’altro che decisivo poiché comunque era rimasto accertato che mancava nel 2005 un listino “ufficiale” dei prezzi delle prestazioni che venivano indicate in fattura in via del tutto generica, il che rendeva la contabilità di per sé inattendibile e giustificava il riferimento al listino “in nero”, pur se predisposto in un momento successivo, ma comunque assai prossimo alla annualità di imposta accertata (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27330 del 29/12/2016 Rv. 642387 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 15038 del 02/07/2014 Rv. 631536 – 01 con riferimento al principio per cui, in tema di accertamento analitico induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), in caso analogo ed assimilabile, le percentuali di ricarico, accertate in relazione ad un determinato anno fiscale, costituiscono validi elementi indiziari, da utilizzare secondo i criteri di razionalità e prudenza, per ricostruire i dati corrispondenti relativi ad anni precedenti o successivi, atteso che, in base all’esperienza, non si tratta di una variabile occasionale, per cui incombe sul contribuente, anche in virtù del principio di vicinanza della prova, qualora se ne voglia discostare, l’onere di dimostrare i mutamenti del mercato o della propria attività che possano giustificare in altri periodi l’applicazione di percentuali diverse).

5.5. Il motivo di ricorso è poi inammissibile con riguardo alla doglianza -ugualmente contenuta nel secondo motivo di ricorso – di omesso esame della questione difensiva proposta dal ricorrente con il ricorso iniziale e riproposta con l’appello con riguardo alla mancata esposizione nello studio di settore del valore della autovettura acquistata nell’anno 2005, il che concretizzava, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 5802 del 1998), il vizio di motivazione nella sua accezione anteriore alle più recenti modifiche dell’art. 360 c.p.c., n. 5, peraltro ancora attuale.

5.6. In proposito occorre rilevare che la sentenza impugnata ha però preso in esame tale doglianza e la ha rigettata specificamente con la motivazione, fra l’altro basata su un accertamento di fatto incontestabile in sede di giudizio di legittimità, che i valori dichiarati ai fini dello studio di settore “risultavano alterati dalla mancata indicazione del cespite costituito dall’autovettura acquistata nell’anno 2005 e annotata nel registro dei beni ammortizzabili nella annualità di imposta oggetto dell’accertamento” e che ciò “giustificava pienamente la ricostruzione operata dall’Ufficio, con procedimento già ritenuto legittimo dai giudici provinciali” (pag. 3 della sentenza impugnata), facendo quindi riferimento, altresì, alla motivazione della sentenza di primo grado che aveva già a sua volta esaminato la specifica questione.

5.7. Il ricorrente deduce che, in realtà, il cespite sarebbe stato indicato nello studio di settore, sia pure per un valore diverso da quello preteso dall’Ufficio, in quanto il contribuente avrebbe tenuto conto del 50% del costo di acquisto nel limite massimo di 18.075 Euro, in conformità alle istruzioni del modello ministeriale, per cui, essendosi limitata la sentenza impugnata a sostenere che “il ricorrente non aveva indicato il cespite”, il che non era vero, la stessa sentenza avrebbe sostanzialmente omesso di esaminare la doglianza. Però l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra – come correttamente rilevato dall’Agenzia delle Entrate nel controricorso – la violazione dell’art. 112 c.p.c., e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicché, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6835 del 16/03/2017 Rv. 643679 -01; conforme Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 23930 del 12/10/2017 Rv. 646046 – 01). E sul punto è opportuno ricordare che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 10862 del 07/05/2018 Rv. 648018 – 01).

5.8. E’ solo il caso di aggiungere che nella sostanza il ricorrente deduce un travisamento della prova per avere la sentenza impugnata ritenuto erroneamente che il valore del cespite costituito dalla autovettura non fosse stato inserito nello studio di settore, ma, in tema di ricorso di cassazione, il travisamento della prova, che presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. dalla L. n. 134 del 2012, che ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché “a fortiori” se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la preclusione di cui all’art. 348-ter c.p.c., u.c. (v., per tutte, Cass. Sez. L -, Sentenza n. 24395 del 03/11/2020 Rv. 659540 – 01).

6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che si liquidano in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2021

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