Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.40745 del 20/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 7967 del 2019 proposto da:

Irrigazione G. S.n.c. Di G.F., (*****), G.F.M., (*****), G.S.C., (*****), elettivamente domiciliati in Roma, Via F. Civinini 11, presso lo studio dell’avvocato Pantone Luigi Maria, rappresentati e difesi dall’avv. Savasta Maurizio;

– ricorrenti –

contro

Fallimento T.D. e SICC S.r.l.

– intimati –

avverso la sentenza n. 2564/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 12/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/09/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito l’Avvocato Maurizio Savasta, per i ricorrenti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, la quale ha chiesto l’accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato il 19 giugno 2009 la SICC s.r.l. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Verona, Sezione distaccata di Legnano, T.D. e la Irrigazioni G. s.n.c., nonché i soci di questa G.F., Fa. e S., chiedendo che fosse dichiarato inefficace nei suoi confronti, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’atto del 5 giugno 2007 col quale il T. aveva venduto alla suindicata società gli immobili di sua proprietà siti a *****.

A sostegno della domanda espose di essere creditore del T. per la somma di Euro 43.375,64 in base ad un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Vicenza ed aggiunse che il suo credito era anteriore rispetto all’atto di vendita indicato e che vi erano circostanze pacifiche che inducevano a ritenere che la vendita fosse animata dalla finalità di rendere più difficile la soddisfazione del suo credito.

Si costituì in giudizio la società convenuta, chiedendo il rigetto della domanda, mentre il T. rimase contumace.

Nel corso del giudizio emerse che il T. era stato dichiarato fallito con sentenza del 17 novembre 2008, cioè prima che fosse incominciato il giudizio di revocatoria; per cui il Tribunale, su richiesta della società convenuta, dichiarò l’interruzione del giudizio.

La causa fu riassunta dalla società SICC e la Curatela del fallimento rimase contumace.

All’esito dell’istruttoria il Tribunale accolse la domanda, dichiarò inefficace, nei confronti della società attrice, l’atto di vendita contestato e condannò i convenuti al pagamento della metà delle spese di lite.

2. La pronuncia è stata impugnata dalla Irrigazioni G. s.n.c. e dai soci della stessa e nel giudizio si sono costituiti sia la società creditrice SICC che il Fallimento T., chiedendo che l’appello fosse dichiarato inammissibile o infondato; il Fallimento, però, ha anche chiesto che fosse accertato il suo diritto di soddisfarsi in sede esecutiva sui beni immobili oggetto dell’atto dispositivo dichiarato inefficace.

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 12 settembre 2018, in riforma della decisione del Tribunale, ha dichiarato improponibile la domanda della società SICC e ha invece dichiarato inefficace nei confronti del Fallimento T., ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’atto di compravendita oggetto dell’azione revocatoria proposta dal creditore SICC, regolando le spese di lite.

2.1. La motivazione della sentenza della Corte territoriale può essere suddivisa in tre parti.

Nella prima, la Corte ha esaminato il motivo di appello nel quale era stata contestata l’interruzione del processo per il fallimento del convenuto in data precedente rispetto all’inizio della causa. Ha osservato la sentenza che i rapporti tra azione revocatoria e fallimento del debitore possono essere distinti a seconda che il fallimento preceda l’esercizio dell’azione o, viceversa, sopravvenga durante il giudizio. Nel primo caso, la cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso non permette l’esercizio dell’azione contro il fallimento; nel secondo, se il curatore subentra nel giudizio ai sensi della L. Fall., art. 66, viene meno la legittimazione ad agire del creditore originario, mentre se egli non subentra, l’iniziativa del creditore non è improcedibile, perché il bene oggetto dell’atto di disposizione non è destinato ad essere acquisito al fallimento.

Ciò premesso, la Corte d’appello ha posto in luce la particolarità del caso in esame, nel quale “da un lato, il fallimento del debitore è antecedente alla proposizione dell’azione revocatoria da parte del creditore, dall’altro la procedura, rimasta inerte in primo grado, ha scelto di intervenire nel giudizio di appello”. Il subentro del curatore modifica i termini della causa, perché la domanda proposta in origine da uno solo dei creditori viene estesa a beneficio dell’intera platea dei medesimi, per cui l’esigenza di tutela del singolo creditore “viene assorbita in quella della massa che la ricomprende”. Ha rilevato la sentenza che in un caso del genere l’iniziativa della curatela “sana il difetto di interesse che vi era nell’attrice” e che la curatela non è tenuta a proporre appello incidentale allo scopo di ottenere che gli effetti della revocatoria giovino alla massa dei creditori, “posto che la curatela è intervenuta nel giudizio”. Rimaneva confermata, invece, l’improponibilità dell’originaria domanda avanzata dalla società SICC.

2.2. La seconda parte della motivazione si concentra sul problema della sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dell’azione revocatoria.

Ha osservato la Corte veneziana che l’esistenza di ipoteche sul bene compravenduto con l’atto assoggettato a revocatoria non esclude la natura dannosa di quell’atto e la conseguente esperibilità dell’azione revocatoria. Non è stato poi ritenuto significativo il fatto che il T. avesse, con l’atto impugnato, tacitato le ragioni creditorie della Banca Cerea nei suoi confronti, perché il pregiudizio è stato valutato in relazione all’atto col quale il T. si è liberato dei suoi beni. Quanto, poi, al fatto che la c.t.u. espletata aveva stimato come congruo il prezzo di vendita, la Corte d’appello ha aggiunto che tale circostanza non poteva valere a dimostrare “l’assenza, in capo a Irrigazioni G. s.n.c., della scientia damni”.

2.3. La terza parte della motivazione ha ad oggetto la valutazione delle prove.

La sentenza ha rilevato, sul punto, che, essendo l’atto assoggettato a revocatoria successivo all’esistenza del credito della società SICC, ai sensi dell’art. 2901 c.c., non era necessaria la prova di un accordo in frode esistente tra debitore e terzo, ma solo che quest’ultimo fosse consapevole del fatto che la vendita diminuiva la garanzia patrimoniale del debitore. E tale prova esisteva, posto che la Irrigazioni G. s.n.c. sapeva che l’immobile acquistato era l’unico di cui il debitore disponeva, così come sapeva che il T. era gravato da numerosi debiti e che un protesto era stato elevato a suo carico dopo la stipula del contratto preliminare e prima di quella del contratto definitivo. Per cui tali circostanze erano idonee, secondo la Corte d’appello, a dimostrare che la Irrigazioni G. s.n.c. conosceva il danno che dalla vendita sarebbe derivato ai creditori del T..

2.4. In punto di spese, infine, la Corte d’appello ha condannato la società Irrigazioni G. alla rifusione delle spese del giudizio di appello nei confronti del Fallimento T..

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia propongono ricorso la Irrigazioni G. s.n.c. e i soci G.F. e S., con unico atto affidato a sei motivi.

La società SICC e il Fallimento T. non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso, fissato originariamente per la trattazione in Camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c., è stato da questa Terza Sezione rinviato alla pubblica udienza con ordinanza interlocutoria 25 maggio 2021, n. 14274.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 81 c.p.c., in relazione alla L. Fall., artt. 52 e 67.

La società ricorrente osserva di aver contestato in appello la sentenza del Tribunale sul rilievo che la domanda originariamente proposta dalla società SICC avrebbe dovuto essere ritenuta improponibile, in quanto rivolta nei confronti di un soggetto già fallito e perciò privo del potere di stare in giudizio. Da ciò la Corte d’appello avrebbe dovuto dedurre la nullità della sentenza di primo grado. La sentenza impugnata, invece, ha ritenuto erroneamente che la Curatela del fallimento, rimasta contumace in primo grado, potesse validamente intervenire in grado di appello facendo sua la domanda di revocatoria. Osservano i ricorrenti che l’intervento sarebbe ammissibile solo in un processo correttamente instaurato, non quando il fallimento sia stato dichiarato prima che l’azione revocatoria venga proposta. Tale ricostruzione sarebbe in linea anche con la sentenza 23 novembre 2018, n. 30416, delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui è inammissibile l’azione revocatoria esperita nei confronti di un fallimento, trattandosi di azione che va a modificare ex post una situazione giuridica preesistente. Da tale schema può deviarsi, secondo i ricorrenti, solo se l’azione revocatoria sia stata incardinata prima della dichiarazione di fallimento; per cui la domanda era da ritenere fin dall’inizio improponibile.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 81 c.p.c., in relazione all’art. 300 c.p.c. e alla L. Fall., art. 43, oltre a violazione delle norme sull’intervento e sul giudicato (art. 2909 c.c. e artt. 324 e 345 c.p.c.).

Osservano i ricorrenti che la Curatela del fallimento, convenuta in primo grado dopo l’interruzione del giudizio, era rimasta contumace, tanto che il Tribunale aveva accolto la domanda di revocatoria così come proposta dall’originaria società creditrice SICC. La sentenza di primo grado non era stata impugnata dalla Curatela, per cui sarebbe evidente l’errore, secondo i ricorrenti, consistito nell’ammettere la stessa, in grado di appello, ad ottenere l’accoglimento della domanda di revocatoria in favore del fallimento, senza che fosse stato proposto l’appello incidentale. La Curatela, invece, doveva essere considerata non come interveniente, bensì come portatrice di una domanda nuova, inammissibile in appello, e per di più proposta in violazione delle regole sul giudicato.

3. Osserva la Corte che il primo ed il secondo motivo, benché tra loro differenti, devono essere trattati congiuntamente, in considerazione della stretta connessione che li unisce.

3.1. Per poter procedere all’esame delle censure è opportuno prendere le mosse dalle due coeve sentenze 17 dicembre 2008, n. 29420 e n. 29421, delle Sezioni Unite di questa Corte, le quali vanno lette unitariamente, perché affrontano il medesimo problema.

La sentenza n. 29420 ha stabilito che, qualora sia stata proposta un’azione revocatoria ordinaria per fare dichiarare inopponibile ad un singolo creditore un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore e, in pendenza del relativo giudizio, a seguito del sopravvenuto fallimento del debitore, il curatore subentri nell’azione in forza della legittimazione accordatagli dalla L. Fall., art. 66, accettando la causa nello stato in cui si trova, la legittimazione e l’interesse ad agire dell’attore originario vengono meno, onde la domanda da lui individualmente proposta diviene improcedibile ed egli non ha altro titolo per partecipare ulteriormente al giudizio. Questa sentenza ha spiegato, tra l’altro, 1) che l’azione revocatoria promossa nell’ambito della procedura concorsuale resta la medesima prevista dal codice civile; 2) che in tal caso l’azione, inizialmente proposta a vantaggio di un solo creditore, “viene ad essere estesa a beneficio della più ampia vasta platea costituita dalla massa di tutti i creditori concorrenti”; 3) che il curatore subentra nella posizione dell’attore; 4) che in tale eventualità la precedente azione promossa dal singolo creditore non può coesistere con quella “ormai in corso a tutela della massa”; 5) che, pur non avendo l’azione revocatoria natura di azione esecutiva, il fallimento sopravvenuto del debitore e il subentro del curatore rendono l’azione revocatoria promossa dal singolo creditore “priva di un utile sbocco”, posto che “il singolo creditore potrà fruire del ricavato dell’esecuzione soltanto secondo le regole del riparto concorsuale”; il che equivale a dire che la domanda di revocatoria proposta dal singolo creditore diventa a quel punto improcedibile.

La sentenza n. 29421, specularmente, ha stabilito che “il sopravvenuto fallimento del debitore non determina l’improcedibilità dell’azione revocatoria ordinaria promossa da un singolo creditore al fine di far dichiarare a sé inopponibile un atto di disposizione compiuto dal debitore sul proprio patrimonio, quando il curatore del fallimento non manifesti la volontà di subentrare in detta azione, né altrimenti risulti aver intrapreso, con riguardo a quel medesimo atto di disposizione, altra analoga azione a norma della L. Fall., art. 66” (principio ribadito dalla successiva ordinanza 5 dicembre 2017, n. 29112).

Facendo seguito alle ora menzionate due pronunce delle Sezioni Unite, è stato più di recente affermato che il curatore che, in forza della legittimazione accordatagli dalla L. Fall., art. 66, intenda subentrare nell’azione revocatoria ordinaria intrapresa da un creditore per fare dichiarare inopponibile, nei suoi confronti, un atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore poi fallito durante quel giudizio, accetta la causa nello stato in cui si trova, sicché l’esercizio di tale facoltà non è soggetto ai limiti entro i quali le parti possono formulare nuove domande o eccezioni nel processo di primo grado, né, ove la lite già penda in appello, al termine previsto per la proposizione del gravame incidentale o alle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c., comma 1, poiché, al contrario, è sufficiente che egli si costituisca in giudizio, anche in appello, dichiarando di voler far propria la domanda proposta ex art. 2901 c.c., per investire il giudice del dovere di pronunciare sulla stessa nei confronti dell’intera massa dei creditori (sentenza 15 gennaio 2016, n. 614, e ordinanza 28 maggio 2018, n. 13306).

3.2. I principi ora ricordati, più volte ripresi e confermati dalla giurisprudenza successiva e integralmente condivisi dal Collegio, rappresentano la cornice entro cui va letta la vicenda odierna la quale, tuttavia, presenta una vistosa e significativa differenza, che la stessa Corte d’appello di Venezia ha dimostrato di avere bene presente.

La differenza sta nel fatto che l’azione revocatoria è stata promossa dal creditore individuale (la SICC s.r.l.) nei confronti di T.D. (venditore) e della Irrigazioni G. s.n.c. (acquirente) quando il T. era stato già dichiarato fallito. Tutta la giurisprudenza in precedenza indicata, infatti, si riferisce in modo inequivoco al subentro del curatore, ai sensi della L. Fall., art. 66, nell’azione revocatoria promossa dal singolo creditore nei confronti del debitore che viene dichiarato fallito successivamente alla proposizione della domanda.

Nel giudizio odierno, però, il Tribunale, anziché decidere – come avrebbe dovuto – limitandosi alla declaratoria di improcedibilità della domanda in conseguenza della già intervenuta dichiarazione di fallimento del T., ha dichiarato interrotto il giudizio e ne ha disposto la riassunzione nei confronti del fallimento; e la Curatela, rimasta contumace in primo grado, è intervenuta in appello con quello che ne è seguito.

Tutto ciò premesso per il corretto inquadramento processuale, rileva il Collegio che in presenza di una riassunzione avvenuta dopo l’interruzione – provvedimento che implicitamente stava a significare che il giudizio poteva proseguire nei confronti del fallimento T. – l’unico soggetto che, in astratto, era legittimato a dolersi della situazione era proprio il curatore fallimentare; il quale ben avrebbe potuto costituirsi al solo scopo di ottenere la declaratoria di improponibilità della domanda originaria, contestando la declaratoria di interruzione. Il curatore, però, per ragioni che qui non rilevano, ha deciso di non costituirsi in primo grado e di intervenire, come s’e’ detto, solo in grado di appello, facendo propria la domanda di revocatoria ordinaria, senza eccepire l’improponibilità della domanda del creditore società SICC.

Il ricorso odierno, specialmente nel secondo motivo, contesta il fatto che la Corte d’appello abbia ammesso nel giudizio di secondo grado una domanda che, in tesi, sarebbe nuova e come tale inammissibile ai sensi dell’art. 345 codice di rito.

Rileva la Corte, però, che la censura sulla novità della domanda, alla quale il ricorso fa soltanto un fugace accenno (v. p. 23), non risulta essere stata posta nel giudizio di appello. Il ricorso nulla dice espressamente su questo punto e dall’epigrafe della sentenza impugnata non emerge affatto che tale questione fu posta alla Corte veneziana. E’ indubbio che, trattandosi di domanda nuova proposta in appello, la sua inammissibilità avrebbe potuto essere anche rilevata d’ufficio; tale facoltà, però, è da ritenere limitata alla fase processuale in corso, cioè appunto al giudizio di appello. Come questa Corte ha già affermato a proposito delle nullità, la regola dettata dall’art. 157 c.p.c., comma 3, secondo cui la parte che ha determinato la nullità non può rilevarla, non opera quando si tratti di una nullità rilevabile anche d’ufficio; ma tale inoperatività è correlata alla durata del potere ufficioso del giudice, sicché una volta che quest’ultimo abbia deciso la causa omettendo di rilevare la nullità, la regola si riespande, con la conseguenza che la parte che vi ha dato causa con il suo comportamento, ed anche quella che, omettendo di rilevarla, abbia contribuito al permanere della stessa, non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza, a meno che si tratti di una nullità per cui la legge prevede il rilievo officioso ad iniziativa del giudice anche nel grado di giudizio successivo (sentenza 30 agosto 2018, n. 21381).

Consegue da ciò che il primo ed il secondo motivo sono privi di fondamento; da un lato, perché era solo la Curatela del fallimento legittimata a dolersi della improponibilità della domanda; dall’altro, perché gli odierni ricorrenti non hanno tempestivamente proposto in appello la questione, la cui deduzione rimane quindi preclusa in questa sede.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione al difetto di interesse della curatela e all’esistenza di un precedente atto di transazione.

Osservano i ricorrenti che per lo stesso bene immobile la Curatela del fallimento aveva proposto un atto di intervento in un altro giudizio (contro altri creditori chirografari) che aveva ad oggetto la proposizione dell’azione revocatoria, giudizio poi transatto. Richiamando la documentazione prodotta nel giudizio di appello, il ricorso ricorda che su quel bene il Fallimento T. aveva chiuso un diverso e separato giudizio di revocatoria, per cui non sarebbe chiaro l’interesse dello stesso a proseguire nel giudizio odierno. Tale circostanza non sarebbe stata presa in esame dalla Corte d’appello.

4.1. Rileva la Corte che il motivo, formulato di per sé in modo non del tutto chiaro, è inammissibile in quanto redatto con una tecnica non rispettosa dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), posto che la censura non consente di individuare se e dove gli atti ai quali si fa riferimento siano stati messi a disposizione di questa Corte.

E’ appena il caso di aggiungere che la censura potrebbe anche rivestire un profilo di novità, dato che né dal contenuto del ricorso né dall’epigrafe dell’impugnata sentenza è dato conoscere se tale questione sia stata realmente già posta in sede di appello.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 e 2697 c.c., c.p.c., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo, in ordine alla mancanza dell’eventus damni.

Osservano i ricorrenti che la sentenza avrebbe errato nel non attribuire rilievo alla circostanza che il bene oggetto dell’azione revocatoria risultava gravato da ipoteca in favore della Banca Cerea. La Curatela del fallimento, quindi, avrebbe dovuto provare il danno nei suoi confronti, tenendo presente che la Banca era creditrice ipotecaria per un credito più che doppio, per cui il Fallimento non avrebbe avuto concrete possibilità di soddisfare le sue ragioni su quel bene ipotecato.

6. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 2901 e 2697 c.c., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo, in ordine alla sussistenza dei requisiti dell’azione revocatoria.

Secondo i ricorrenti, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto irrilevante la prova della scientia damni e della partecipazione, da parte del terzo acquirente, alla fraudolenta dismissione del patrimonio del debitore. La sentenza impugnata avrebbe ritenuto non necessaria la prova del consilium fraudis; in particolare, richiamate numerose pronunce di questa Corte sull’argomento, la censura in esame lamenta che sia il Tribunale che la Corte d’appello avrebbero omesso di “provare l’esistenza di indicatori della volontà del terzo acquirente”. Mancherebbe l’approfittamento dello stato di crisi economica, mentre il prezzo di acquisto da parte degli odierni ricorrenti sarebbe congruo in base alla c.t.u. espletata.

7. Il quarto e il quinto motivo, da trattare congiuntamente in considerazione della loro connessione, sono entrambi privi di fondamento.

7.1. In ordine al quarto motivo, il Collegio osserva che la Corte territoriale ha correttamente fatto applicazione del principio secondo cui l’azione revocatoria opera a tutela dell’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore ma non produce effetti recuperatori o restitutori, al patrimonio del medesimo, del bene dismesso, tali da richiederne la libertà e capienza, poiché determina solo l’inefficacia dell’atto revocato e l’assoggettamento del bene al diritto del revocante di procedere ad esecuzione forzata sullo stesso. Ne consegue che la presenza di ipoteche sull’immobile trasferito con l’atto oggetto di revoca non esclude, di per sé, un pregiudizio per il creditore chirografario (e, dunque, il suo interesse ad esperire tale azione), posto che le iscrizioni ipotecarie possono subire vicende modificative o estintive ad opera sia del debitore che di terzi (così le sentenze 13 agosto 2015, n. 16793, e 10 giugno 2016, n. 11892, alle quali va data ulteriore continuità).

Non era quindi necessario, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, che il creditore che agiva in revocatoria dimostrasse l’effettiva e concreta probabilità di realizzo del proprio credito sul bene oggetto dell’atto di disposizione.

7.2. In ordine al quinto motivo, che investe direttamente il profilo della sussistenza delle condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria, la Corte osserva che la sentenza impugnata, nel ricostruire in fatto la vicenda dando conto delle ragioni del rigetto dell’appello, ha anche posto in luce (v. p. 8) che l’atto dispositivo in questione era stato compiuto in epoca successiva al sorgere del credito. Ai fini della dimostrazione della sussistenza del requisito soggettivo di cui all’art. 2901 cit. in capo al terzo acquirente era sufficiente che costui fosse “consapevole del fatto che, con la vendita, il debitore diminuiva la sua sostanza patrimoniale, così mettendo in pericolo il soddisfacimento delle ragioni dei creditori”; per cui non era necessario dimostrare l’esistenza di un accordo in frode tra il debitore e il terzo acquirente, né che il terzo fosse a conoscenza del credito in sofferenza e dell’insolvenza del debitore.

Tale ragionamento è corretto in punto di diritto; l’atto dispositivo successivo all’insorgenza del credito, infatti, è guardato dalla legge, per ovvie ragioni, con un maggiore sospetto rispetto all’atto anteriore. Correttamente, pertanto, la Corte veneziana ha riconosciuto sufficiente, ai sensi dell’art. 2901 c.c., nn. 1) e 2), la consapevolezza del pregiudizio arrecato in capo al terzo acquirente a titolo oneroso, senza che si dovesse dimostrare anche la c.d. partecipatio fraudis da parte di quest’ultimo.

Le ulteriori considerazioni della censura, relative alla prova del c.d. approfittamento ed alla presunta congruità del prezzo versato, sono profili di merito il cui esame non è consentito nella presente sede di legittimità.

8. Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in punto di spese.

Lamentano i ricorrenti che la condanna alle spese in favore della Curatela del fallimento sarebbe ingiusta, non sussistendo una loro soccombenza totale rispetto alla posizione di quest’ultimo.

8.1. Il motivo non è fondato.

La sentenza, che ha liquidato le spese processuali con grande scrupolo, ha correttamente fatto applicazione del criterio della soccombenza, che certamente sussiste in capo agli odierni ricorrenti rispetto alla Curatela del fallimento. Non è chiaro, pertanto, di cosa possano oggi dolersi i ricorrenti.

9. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.

Sussistono tuttavia le condizioni di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2021

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