LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 25861/17 proposto da:
-) L.S.D., elettivamente domiciliato a Roma, v.le Giuseppe Mazzini n. 114/B, difeso dall’avvocato Salvatore Coletta, in virtù
di procura speciale apposta in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
-) Intesa San Paolo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato a Roma, v. di Villa Grazioli n. 15, difeso dall’avvocato Benedetto Gargani in virtù di procura speciale apposta in calce al controricorso;
– controricorrente –
nonché
-) S.O.;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma 11 agosto 2017 n. 5376; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15 settembre 2021 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VITIELLO Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli Avvocati Salvatore Coletta per il ricorrente e Roberto Catalano, in sostituzione dell’avv. Benedetto Gargani, per la società resistente.
FATTI DI CAUSA
1. La piena comprensione della vicenda processuale oggi sottoposta a questa Corte impone un resume’ degli antefatti processuali, depurato delle circostanze non più rilevanti in questa sede.
2. L.F. e C.S., in data non precisata nel ricorso, si costituirono parti civili nel processo penale a carico di S.O., imputato del delitto di usura (va subito precisato che nelle more degli sviluppi processuali di cui si dirà vennero a mancare dapprima L.F., lasciando quale erede C.S.; ed in seguito anche quest’ultima, lasciando quale erede L.S.D., odierno ricorrente).
Il processo si concluse in grado di appello con la sentenza 16.11.1996 n. 5967 della Corte d’appello di Roma, la quale condannò l’imputato al risarcimento del danno in favore delle parti civili, la cui liquidazione venne demandata al giudice civile.
3. Nel 1998 C.S. – anche quale erede di L.F. – introdusse dinanzi al Tribunale di Roma il giudizio per la liquidazione del danno. Pendente quel giudizio, con ricorso depositato il 10.2.1999 C.S. chiese il seetu.estro conservativo dei beni dell’imputata a garanzia del credito risarcitorio.
La misura cautelare venne concessa con ordinanza collegiale 16.6.1999.
4. C.S. eseguì il sequestro pignorando, secondo le previsioni dell’art. 678 c.p.c., un certificato di deposito intestato a S.O. e custodito dalla filiale di ***** dell’istituto di credito “Banco Ambrosiano Veneto” (che in seguito si fonderà per incorporazione nella società Intesa San Paolo s.p.a., odierna controricorrente), del valore nominale di Lire 415.000.000.
Il rappresentante del Banco Ambrosiano Veneto comparve a rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c., e riferì di essere custode di un certificato di deposito “riferibile a S.O.”, dell’importo di Lire 415.000.000, già sottoposto:
a) a sequestro penale nel 1999;
b) ad altro sequestro conservativo concesso ex art. 2900 c.c., dal Pretore di Roma in data 19.3.1999 in favore di tale M.M. ed a carico di C.S., quale debitrice del sequestrante e creditore di S.O.;
c) a pignoramento su istanza di tale Di.Ve.Ma..
Il Giudice dell’esecuzione presso il Tribunale di Roma, ricevuta tale dichiarazione, sospese la procedura (come detto, di esecuzione del sequestro nelle forme del pignoramento mobiliare presso terzi) in attesa delle conclusioni del giudizio di merito volto alla quantificazione del quantum debeatur.
5. Con sentenza 15 luglio 2002 n. 28938 il Tribunale di Roma quantificò il risarcimento spettante a C.S. (anche quale erede di L.F.) nella misura di Euro 15.000, oltre accessori e spese di lite.
L.S.D., nelle more succeduto mortis causa a C.S., impugnò la suddetta sentenza invocando una più cospicua liquidazione del danno; parallelamente, chiese al giudice dell’esecuzione la prosecuzione della procedura di espropriazione mobiliare, iniziata in esecuzione del sequestro conservativo.
6. Il Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma, con ordinanza 2.11.2005, diede corso alla procedura assegnando a L.S.D. “la somma di Euro 1.300 (…) a totale soddisfo delle spese di esecuzione e del credito vantato nei confronti di S.O. in base alla sentenza del Tribunale di Roma del 15.7.2002 n. 28938”, somma “da prelevarsi dal certificato di deposito” sottoposto a sequestro (la società controricorrente riferisce che avverso tale ordinanza di assegnazione venne proposta opposizione; sebbene nessuna delle parti dia conto dell’esito di tale opposizione, rileva il Collegio che essa fu rigettata con sentenza confermata da questa Corte con la decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 1689 del 07/02/2012, sulla base di ragioni che tuttavia non vengono in rilievo nel presente giudizio).
7. Due anni dopo la pronuncia della suddetta ordinanza di assegnazione la Corte d’appello di Roma, con sentenza 24.5.2007 n. 2356, accolse il gravame proposto da L.S.D., ed elevò la condanna di S.O. in favore di L.S.D. ad Euro 128.359,62.
8. A questo punto il creditore L.S.D. introdusse un nuovo procedimento formalmente qualificato “ex art. 678 c.p.c.”, notificando il ricorso alla banca depositaria del titolo di credito sopra ricordato; e chiese che gli venisse assegnata la maggior somma liquidata in appello, da prelevarsi “sul deposito giudiziario costituito dal titolo sequestrato”.
9. La banca comparve a rendere la prescritta dichiarazione di quantità, e dichiarò – per quanto in questa sede rileva – che “l’ordinanza di assegnazione era già stata pronunciata”: e ciò aveva comportato l’estinzione della procedura.
Il giudice dell’esecuzione qualificò come “negativa” tale dichiarazione di quantità e rigettò l’istanza di assegnazione.
10. Il creditore L.S.D. introdusse allora il giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo.
Chiese che fosse accertata la permanenza degli effetti del sequestro, e concluse domandando, tra l’altro, di “condannare il terzo obbligato al pagamento della somma come dovuta”.
11. Il Tribunale di Roma con sentenza 12.12.2011 n. 24148 qualificò tale domanda come una domanda di condanna e la rigettò, sul presupposto che nel giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 547 c.p.c. il creditore non possa chiedere la condanna del terzo pignorato a pagargli somme di denaro.
12. La Corte d’appello di Roma, adita dal soccombente, riformò sul punto la decisione di primo grado e ritenne ammissibile la domanda, rilevando che l’attore aveva chiesto con essa “l’accertamento che la banca era tenuta a dare esecuzione al persistente sequestro da ritenere convertitosi in pignoramento per le maggiori somme riconosciutegli”.
Nel merito, però, rigettò comunque il gravame, correggendo la motivazione del Tribunale.
Ritenne la Corte d’appello che:
-) per effetto della sentenza di primo grado sul merito della pretesa risarcitoria (con cui, come detto, il debitore era stato condannato al risarcimento del danno nella misura di 15.000 Euro), e della sua esecuzione, il sequestro a suo tempo disposto sino all’ammontare di 415 milioni di lire avesse “perso efficacia per l’eccedenza”;
-) di conseguenza, era infondata la domanda di “accertamento dell’obbligo della banca di dare esecuzione al sequestro”.
13. Tale sentenza è stata impugnata per cassazione da L.S.D., con ricorso fondato su un motivo.
La Intesa San Paolo s.p.a. ha resistito con controricorso.
14. Il ricorso, già fissato nell’adunanza camerale del 23 novembre 2020, con ordinanza interlocutoria 10 maggio 2021 n. 12228 è stato rinviato a nuovo ruolo, con termine al ricorrente per rinnovare la notifica ad S.O..
Adempiuto tale incombente, la causa è stata nuovamente fissata e discussa nell’odierna udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso L.S.D. lamenta la violazione degli artt. 678 e 686 c.p.c..
Il ricorrente sostiene che le suddette norme dovrebbero essere interpretate come segue: chi ha ottenuto un sequestro per “100”, seguito da una condanna non definitiva del debitore a pagare “20”, può beneficiare degli effetti della conversione del sequestro in pignoramento soltanto per “20”; il sequestro tuttavia non perde efficacia, e se in appello il creditore ottiene una condanna più cospicua, anche la sentenza d’appello beneficerà degli effetti della conversione del sequestro per l’importo residuo) in pignoramento.
1.1. Va preliminarmente rilevato che non è necessario, nella presente sede, esaminare se la Corte d’appello, con la sua sentenza, abbia o non abbia debordato dal perimetro del giudizio ad essa consentito dall’art. 547 c.p.c.. Tale problema sorge dal rilievo che oggetto del giudizio previsto dalla norma suddetta è soltanto lo stabilire se il terzo sia o non sia debitore della persona condannata al risarcimento del danno.
Lo stabilire, per contro, se l’esecuzione fosse o non fosse sorretta da un valido pignoramento ed art. 686 c.p.c., ed entro quali limiti, è questione che si sarebbe dovuta porre se del caso davanti al giudice dell’esecuzione (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 3987 del 12/02/2019, Rv. 652487 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1949 del 27/01/2009, Rv. 606614 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11403 del 17/10/1992, Rv. 479010 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 320 del 22/01/1990, Rv. 464896 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2800 del 23/04/1983, Rv. 427713 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1216 del 20/04/1968, Rv. 332718 – 01).
Tuttavia qualsiasi eventuale vizio di ultrapetizione, in cui in tesi fosse incorsa la Corte d’appello, non può essere esaminato in questa sede in quanto nessuna delle parti ne ha fatto oggetto di un motivo di impugnazione. Sicché, in virtù del principio di conversione delle nullità in motivo di gravame, esso resta sanato ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2.
1.2. Nel merito, il ricorso è infondato.
Il sequestro conservativo è una misura cautelare intesa a preservare la garanzia patrimoniale al creditore.
Suo presupposto è il fumus boni iuris, ovvero la non manifesta infondatezza della pretesa creditoria. Questa è la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto che, accertata l’inesistenza del credito con sentenza pronunciata all’esito d’un giudizio ordinario di cognizione, ancorché non definitiva, il sequestro perda efficacia (art. 669 novies c.p.c., comma 4). Infatti, una volta che l’esistenza del credito venga esclusa all’esito d’un giudizio a cognizione piena, il legislatore presume insussistente ipso facto il requisito del fumus boni iuris.
1.3. La conclusione che precede, ovvia nel caso in cui il credito a garanzia del quale venne concesso il sequestro sia escluso in toto all’esito del giudizio di merito, deve trovare applicazione anche nel caso in cui quel credito venga riconosciuto in misura inferiore a quella ipotizzata dal provvedimento di concessione del sequestro.
Una sentenza di merito la quale accolga la domanda in misura inferiore al petitum, infatti, altro non è se non un provvedimento che dichiara inesistente il credito per la parte eccedente quella concretamente accertata.
Anche in tal caso, dunque, troverà applicazione il principio generale dell’art. 669 novies c.p.c., con la conseguenza che il sequestro “perde efficacia se con sentenza anche non passata in giudicato è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso”.
1.4. Diversamente opinando, si perverrebbe a conseguenze non compatibili né con la certezza del diritto, né col principio di ragionevole durata del processo. In particolare:
-) il provvedimento di sequestro ed il vincolo da esso imposto conserverebbero efficacia sine die, teoricamente insensibili alle eventualmente alterne vicende del processo;
-) il creditore sequestrante il cui credito sia dichiarato inesistente in primo grado, e riconosciuto in appello, perderebbe la garanzia, mentre la conserverebbe il creditore il cui credito sia riconosciuto in primo grado anche in minima parte ed ampliato in appello, con conseguente evidente disparità di trattamento;
-) all’esito del giudizio di primo grado, nel caso di condanna inferiore nel quantum all’importo per il quale il sequestro venne concesso, il creditore verrebbe a disporre di due titoli esecutivi: uno attuale (la sentenza esecutiva di primo grado) ed uno potenziale (il provvedimento di sequestro), quest’ultimo da far valere se e quando la pronuncia di condanna fosse ampliata in grado di appello o, addirittura, all’esito di un giudizio di rinvio o di revocazione.
1.5. Quanto esposto impedisce di accedere alla tesi, sostenuta dal difensore del ricorrente nella discussione in pubblica udienza, secondo cui l’art. 686 c.p.c., in tema di conversione del sequestro in pignoramento, là dove stabilisce che “il sequestro conservativo si converte in pignoramento al momento in cui il creditore sequestrante ottiene sentenza di condanna esecutiva”, andrebbe interpretato come se dicesse “ottiene sentenza passata in giudicato”.
Una tale conclusione, sostenuta in dottrina prima dell’introduzione del rito cautelare uniforme con la L. 26 novembre 1990, n. 353, è ora impossibile a condividersi alla luce del chiaro disposto dell’art. 669 novies c.p.c., comma 4, il quale come detto commina l’inefficacia del sequestro nel caso di sentenza che dichiari l’inesistenza del credito, “anche non passata in giudicato”.
La conversione del sequestro in pignoramento, infatti, presuppone che un sequestro pur sempre esista: ma poiché il sequestro, per quanto detto, diventa inefficace se, e nella misura in cui, è accertata l’inesistenza del credito a garanzia del quale fu concesso con sentenza “anche non passata in giudicato”, diventa impossibile ammettere – per questione di logica formale, prima che di diritto – che l’art. 686 c.p.c., faccia salvi gli effetti del sequestro fino a che non intervenga il giudicato.
1.6. Due considerazioni conclusive reputa il Collegio opportune.
La prima è che la conclusione appena esposta non collide con quanto già ritenuto da questa Corte nel caso in cui il creditore, dopo avere ottenuto un sequestro conservativo ed essersi costituito parte civile nel giudizio a carico del debitore, ottenga dal giudice penale una condanna generica ed una provvisionale inferiore al credito per il quale venne concesso il sequestro, con rimessione al giudice civile per la quantificazione definitiva del danno.
Ritenne in quel caso questa Corte che, ricorrendo tale ipotesi, il sequestro si converte in pignoramento nei limiti della condanna provvisionale, ma conserva i suoi effetti per l’importo residuo (Sez. 3, Sentenza n. 21481 del 25/10/2016).
A quella conclusione, tuttavia, questa Corte pervenne sul presupposto che la sentenza di condanna generica pronunciata dal giudice penale, così come la condanna del reo al pagamento d’una provvisionale, sono provvedimenti che lasciano impregiudicata l’esistenza del credito risarcitorio e il suo ammontare, tanto è vero che il giudice civile, nel successivo giudizio di liquidazione, potrebbe in teoria anche escluderne l’esistenza (ex multis, da ultimo, vedasi, Sez. 3 -, Ordinanza n. 4318 del 14/02/2019, secondo cui la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell’esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, mentre resta impregiudicato l’accertamento, riservato al giudice civile, in ordine all’an ed al quantum del danno da risarcire).
Di conseguenza né la condanna generica, né la condanna al pagamento d’una provvisionale in sede penale possono essere equiparate alla sentenza che “dichiara l’inesistenza del diritto”, di cui all’art. 669 novies c.p.c., comma 4: sicché, nonostante la pronuncia dell’una o dell’altra, il sequestro in tali ipotesi conserva la sua originaria efficacia.
1.7. La seconda considerazione è che la soluzione qui adottata non comporta, come pure paventato dal ricorrente, alcun pregiudizio al “sistema” della tutela cautelare accordata dall’ordinamento al creditore.
Nell’eventualità, infatti, che all’esito del giudizio di primo grado la domanda sia accolta in misura inferiore al richiesto, ma con provvedimento manifestamente erroneo, non sarebbe impedito alla parte interessata instare per ottenere un nuovo provvedimento di sequestro, adducendo a fondamento dell’istanza la manifesta erroneità della decisione di merito, o altre circostanze atte a configurare ex novo il fumus boni iuris ed il periculum in mora.
2. Le spese del presente grado di giudizio vanno compensate integramente tra le parti, in considerazione della novità della questione.
3. Per il rigetto del ricorso devono applicarsi il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;
(-) ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2021