LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –
Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di Sez. –
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –
Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente di Sez. –
Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8708/2021 proposto da:
F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COMANO 95, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO FARAON, rappresentato e difeso dall’avvocato ANGELO ANDREATTA;
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DISTRETTUALE DI DISCIPLINA DEL VENETO, ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimati –
avverso la sentenza n. 19/2021 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 01/02/2021.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/10/2021 dal Consigliere DANILO SESTINI;
lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale Dott. FRANCESCO SALZANO, il quale chiede che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione vogliano dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
A seguito di un esposto presentato dall’avv. S.A., il CDD del Veneto incolpò l’avv. F.A. “per aver violato l’art. 9 CDF quanto ai doveri di dignità, probità decoro indipendenza, l’art. 19 CDF quanto ai doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi, l’art. 42 CDF quanto a notizie riguardanti il collega perché: 1) scriveva e spediva ai proprio clienti una lettera il cui contenuto, riferibile all’Avv. S.A., imputava la medesima del reato di tentata estorsione ed infedele patrocinio; 2) non si curava di accertare che il contenuto non veritiero di tale missiva fosse effettivamente recepito come tale dalla sezione dei carabinieri a cui i propri clienti provvedevano, con la sua consapevolezza, in due occasioni alla produzione cartacea di detta lettera; 3) perché in una comunicazione indirizzata, in data 08.01.2013, al P.M. Dott. P. del Tribunale di Livorno, scriveva con riferimento alla cliente del(l’) Avv. S. Sig.ra C. “La C. ha avuto anche il coraggio di opporre la richiesta, ma il suo avvocato non ha avuto parimenti il coraggio di firmare l’atto” con ciò riferendosi all’Avv. S.A.”.
Con decisione n. 59/17 depositata il 15.12.2017, il Consiglio di Disciplina del Veneto affermò la responsabilità disciplinare dell’avv. F. e gli comminò la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per mesi due.
Il C.N.F. ha rigettato l’appello dell’incolpato, con decisione n. 19/2021 emessa il 7.10.2020, depositata il 1 febbraio 2021 e comunicata il 18.2.2021.
Ha proposto ricorso per cassazione l’avv. F. affidandosi a cinque motivi.
Il P.M. ha depositato conclusioni scritte chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
Il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I primi tre motivi condividono la medesima struttura e chiedono
– con riferimento, rispettivamente, al capo 1, al capo 2 e al capo 3 della incolpazione – “l’annullamento con rinvio, ovvero senza rinvio, della sentenza per violazione di legge, in relazione all’inosservanza dell’obbligo di motivazione di cui all’artt. 111 Cost. e alla L. n. 247 del 2012, art. 59, lett. m.), (c.d. motivazione apparente), nonché per eccesso di potere in relazione all’errata valutazione degli elementi probatori”.
1.1. In relazione al capo 1, il primo motivo evidenzia che “l’interessato ha avuto modo di chiarire, in modo ampiamente documentato e circostanziato, il significato e l’obiettivo della succitata iniziativa” (ossia la redazione e la spedizione ai propri clienti della lettera con cui si imputavano all’Avv. S. i reati di estorsione e di infedele patrocinio), che, lungi dal voler costituire un attacco alla reputazione della Collega e alla divulgazione, a danno di costei, di informazioni diffamatorie, si sostanziava in una lettera “esca” volta a dimostrare che la cliente della medesima S. intercettava e sottraeva la posta diretta ai clienti del F.; il ricorrente aggiunge che, malauguratamente, si erano verificate due circostanze, ossia il malfunzionamento della posta elettronica istituzionale della Stazione dei Carabinieri (che non aveva consentito di portarli a conoscenza del fatto che la lettera era frutto di invenzione) e la consegna della lettera ai Carabinieri da parte del cliente del F. (cui aveva fatto seguito la trasmissione alla Procura della Repubblica).
Tanto premesso, il ricorrente contesta al C.N.F. di non aver tenuto conto di detta ricostruzione e di aver considerato non verosimile l’assunto difensivo circa la mancata intenzione di screditare l’avv. S.; assume, al riguardo, che “l’esame del percorso argomentativo del Collegio giudicante consente di rilevare come non vi sia alcuna effettiva spiegazione in ordine all’asserita “non verosimiglianza” della ricostruzione dei fatti prospettata dall’avv. F.A.”; aggiunge, con riferimento al decreto di archiviazione emesso in sede penale, che “la mera rivendicazione dell’autonomia del giudizio disciplinare, rispetto a quanto parallelamente accertato in un procedimento penale, non sopperisce al citato deficit motivazionale” e che la scelta operata dal Collegio disciplinare di non vagliare i plurimi elementi emersi in sede penale non è stata “minimamente spiegata in sede di motivazione”; conclude che sussiste un “evidente vuoto motivazionale, caratterizzato da un palese “salto logico””, giacché “affermare che la ricostruzione prospettata dall’avv. F. è inverosimile in quanto costui avrebbe potuto redigere una missiva “esca” senza espressioni offensive ai danni della collega S. costituisce motivazione meramente apparente”; rileva, infine, che la sentenza impugnata lascia in sospeso e non definita la questione della condotta dolosa ovvero meramente colposa addebitata al F., con ciò determinandosi “un’obiettiva incertezza in merito all’effettiva valutazione che il Giudice disciplinare ha operato con riguardo ai fatti oggetto del presente procedimento”.
1.2. Col secondo motivo, il ricorrente assume che “analoghe considerazioni, per quanto attiene all’evidente carenza motivazionale, si impongono con riguardo al secondo capo di incolpazione, in cui si imputa all’Avv. F.A. di non essersi curato “di accertarsi che il contenuto inveritiero di tale missiva fosse effettivamente recepito come tale dalla sezione dei carabinieri”; rileva come egli avesse “inteso tenere informati gli investigatori con modalità adeguate e non poteva di certo immaginare un malfunzionamento prolungato nel tempo di una casella di posta elettronica istituzionale”, come risultava da ben sei ricevute documentate a fronte di sei messaggi inviati; aggiunge come l’ipotesi che il deposito della missiva ai carabinieri sia avvenuta con la consapevolezza del legale sia del tutto indimostrata, oltreché immotivata; tanto più che l’annotazione a firma del brigadiere e la denuncia-querela presentata contestualmente dai clienti del F. lasciavano intendere che questi ultimi avevano “improvvisamente assunto un’iniziativa non certo ispirata dal loro legale”.
1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente assume, con riferimento al capo 3 dell’incolpazione, che “la motivazione rinvenibile nell’impugnata sentenza risulta ancor più incomprensibilmente sintetica, e tale, quindi, da non potersi considerare compiutamente intelligibile”, limitandosi a ritenere che il CDD Veneto avesse “valutato correttamente il comportamento complessivo dell’incolpato che ha proseguito nel rendere apprezzamenti gratuitamente denigratori relativamente all’attività dell’Avv. S.”, senza tuttavia “chiarire in alcun modo le ragioni per le quali si dovrebbe reputare offensivo il contenuto della frase richiamata nel capo d’incolpazione” atteso che “e’ l’espressione in sé a non poter essere qualificata, perlomeno univocamente, come accusa di codardia nei riguardi dell’avv. S.A.”.
1.4. I motivi – che possono essere esaminati congiuntamente per la comunanza e la connessione fra le censure – sono inammissibili.
In effetti, essi lamentano – in primis – una carenza motivazionale sull’assunto di una lettura dei fatti diversa quella ritenuta non verosimile dal C.N.F. e finiscono per postulare l’inesistenza di un percorso argomentativo adeguatamente intelligibile proprio perché contrastante con le premesse fattuali-ricostruttive sostenute dal F..
Depurata dalla “rivisitazione” dei fatti prospettata dal ricorrente, la sentenza presenta invero una linea argomentativa che, pur sinteticamente, evidenzia la non verosimiglianza dell’assunto della mancata intenzione del F. di screditare la collega (“Ben avrebbe potuto l’avv. F. dimostrare la sottrazione della corrispondenza da parte di C.E. (circostanza questa mai dimostrata) con una missiva “esca” priva di termini offensivi rivolti alla collega”) aggiungendo che “le espressioni offensive rivestono rilievo deontologico a prescindere dalla loro veridicità e/o fondatezza”; quanto alla seconda incolpazione, la sentenza impugnata evidenzia altresì come l’incolpato avesse anche il dovere di ridurre le conseguenze del suo comportamento e, quanto alla terza, considera gratuitamente denigratorio il rilievo che l’avv. S. non avesse avuto il coraggio di sottoscrivere l’atto di opposizione; esclusa inoltre qualunque rilevanza sul piano disciplinare all’archiviazione disposta in sede penale, la sentenza rileva come per integrare l’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare sia sufficiente la “suitas, quale volontà consapevole dell’atto che si compie, non risultando necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione”.
Si tratta, all’evidenza, di un percorso lineare che, senza limitarsi a compiere una motivazione per relationem, dà conto delle ragioni che hanno condotto il C.N.F. a condividere le conclusioni del primo giudice, dovendosi pertanto escludere – per le stesse ragioni – che la motivazione risulti meramente apparente.
Egualmente inammissibili si palesano – poi – i tre motivi nella parte in cui denunciano “eccesso di potere in relazione all’errata valutazione degli elementi probatori”, proponendo una censura che è volta, all’evidenza, ad un’inammissibile rivisitazione del merito mediante una diversa lettura di elementi probatori.
A ciò deve aggiungersi – quale concorrente ragione di inammissibilità – che il richiamo ai documenti che varrebbero a suffragare le tesi del ricorrente è compiuto senza ottemperare all’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto il ricorso ne omette la trascrizione (quantomeno nella parte di interesse).
2. Col quarto motivo, il ricorrente chiede, “con riferimento all’entità della sanzione applicata, l’annullamento con rinvio, ovvero senza rinvio, della sentenza per violazione di legge, in relazione all’inosservanza dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 111 Cost. e alla L. n. 247 del 2012, art. 59, lett. m), (c.d. motivazione apparente) nonché per eccesso di potere in relazione all’errata valutazione degli elementi probatori”.
Premesso che, nel valutare l’adeguatezza della sanzione applicata, il C.N.F. si è limitato a un generico riferimento alla corretta determinazione operata dal “CDD in ragione del comportamento tenuto dall’incolpato nel suo complesso e, relativamente all’entità, applicando la sanzione base prevista dall’art. 42 CDF aumentata come previsto dall’art. 22, comma a) C.D.F.”, il ricorrente assume che il mero richiamo al comportamento tenuto dall’incolpato risulta disattendere l’obbligo di motivazione, tanto più in considerazione dell’evidenziata difficoltà di comprendere se al F. sia stata attribuita o meno una condotta dolosa (anziché la “suitas” della stessa); né – si lamenta – il C.N.F. ha preso in considerazione l’assenza di pregresse sanzioni disciplinari, sì da risultarne una sanzione “del tutto spropositata ed indebitamente penalizzante”.
2.1. Il motivo è inammissibile atteso che, pur deducendo formalmente profili di carenza motivazionale e di errata valutazione degli elementi probatori, risulta diretto a contestare l’adeguatezza della sanzione applicata, in contrasto col principio secondo cui, “in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità” (Cass., S.U. n. 1609/2020; cfr. anche Cass., SU n. 19030/2021, nonché Cass., S.U. n. 1229/2004 e Cass., S.U. n. 11564/2011); né può ritenersi che ricorra il radicale vizio motivazionale denunciato dato che il riferimento compiuto dal C.N.F. al “comportamento tenuto dall’incolpato nel suo complesso”, in quanto correlato ai capi di incolpazione descrittivi delle condotte e alle ragioni che quelle condotte hanno ritenuto sanzionabili, risulta sufficiente a giustificare l’adesione alla determinazione compiuta dal CDD.
3. Con il quinto motivo, il ricorrente chiede a questa Corte, “con riferimento al capo 3 di incolpazione, l’annullamento con rinvio, ovvero senza rinvio, della sentenza per violazione di legge, per inosservanza della L. n. 247 del 2012, art. 56, e dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 111 Cost. e della L. n. 247 del 2012, art. 59, lett. m), (omessa motivazione)”.
Premesso che quando il C.N.F. aveva trattato il procedimento (in data 7.10.20) erano trascorsi più di sette anni e mezzo dall’ultimo fatto contestato (risalente all’8.1.2013), il ricorrente assume che la disciplina prevista dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, è applicabile anche al caso in esame, atteso che la contestazione degli addebiti era avvenuta successivamente all’entrata in vigore di tale norma (cfr. Cass., S.U. n. 15896/2019), e, precisamente, in data successiva all’8.12.2015 (allorquando il consigliere istruttore aveva proposto alla Sezione Disciplinare del Consiglio di Disciplina del Veneto l’approvazione dei capi di incolpazione).
Tanto rilevato, il F. evidenzia che, in sede di trattazione avanti al C.N.F., la propria difesa aveva puntualmente dedotto l’intervenuta prescrizione degli illeciti contestati, senza che tuttavia il Collegio giudicante ne facesse cenno nella sentenza, la quale aveva omesso ogni pronuncia sul punto.
Aggiunge che “il principio del favor rei non appare ormai confinabile nell’ambito penale” e che “non appare, quindi, condivisibile, alla luce del predetto principio generale, l’affermazione della irretroattività di una norma in concreto più favorevole, soprattutto in un ambito, quale quello di un procedimento disciplinare, caratterizzato dalla rilevante incidenza delle sanzioni sulla vita professionale dei soggetti interessati”.
3.1. Il motivo è infondato alla luce del principio secondo cui, “in tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dalla L. n. 247 del 2012, art. 56, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore; ciò in quanto le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, per un verso, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo “jus superveniens”, ove più favorevole all’incolpato, restando limitata l’operatività del principio di retroattività della “lex mitior” alla fattispecie incriminatrice e alla pena, mentre, per altro verso, il momento di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione” (Cass. n. 20383/2021; cfr. anche Cass. n. 23746/2020).
Al riguardo, deve considerarsi che:
per quanto emerge dalla stessa prospettazione del ricorrente, i fatti oggetto di incolpazione furono commessi in epoca non successiva all’8.1.13 (data dell’invio della lettera di cui al terzo capo di incolpazione);
si tratta quindi di fatti tutti antecedenti all’entrata in vigore della L. 31 dicembre 2012, n. 247 (pubblicata in G.U. il 15.1.13), avvenuta il 2.2.13;
della ridetta L. n. 247 del 2012, art. 56, non trova pertanto applicazione ai fatti di causa, tenuto conto che “il momento di riferimento per l’individuazione della prescrizione dell’azione disciplinare da applicare (…) rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione” (Cass., SU n. 20383/21; conformi Cass., SU n. 1609/20 e Cass., SU n. 23746/20).
4. Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso.
5. Non deve provvedersi in ordine alle spese di lite, stante la mancata resistenza degli intimati.
6. Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2021