LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 23708/2018 proposto da:
CASA DI CURA PRIVATA ***** S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA GIULIANA N. 44, presso dell’Avvocato STEFANO SANTAROSSA, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato VINCENZO ARRIGO.
– ricorrente –
contro
M.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI LOMBARDI N. 4, presso lo studio degli Avvocati GREGORIO ARENA, PAOLO PASCAZI, ANGELO CASILE, che la rappresentano e difendono.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2576/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 13/06/2018 R.G.N. 3900/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/11/2020 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato STEFANO SANTAROSSA udito l’Avvocato PAOLO PASCAZI.
FATTI DI CAUSA
1. In data 19.6.2015 la Dott.ssa M.D., dal 20.11.2002 alle dipendenze della Casa di Cura Privata ***** spa con qualifica di aiuto medico secondo il CCNL AIOP e mansioni di medico ginecologico, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo. Il recesso era impugnato sul presupposto di essere discriminatorio e/o ritorsivo atteso che la vera ragione, secondo la lavoratrice, doveva individuarsi nel fatto che ella, nel dicembre del 2014, aveva rifiutato di trasformare il rapporto di lavoro in atto in un rapporto libero-professionale.
2. Nelle more del procedimento avviato dalla Casa di Cura per il suddetto licenziamento la dipendente, in data 8.7.2015, in via cautelare, veniva nuovamente licenziata per la contestazione di avere compiuto, l'*****, un atto di vandalismo, all’interno del parcheggio della clinica, ai danni dell’autovettura del Prof. Ma., che era diventato il responsabile, con rapporto libero-professionale esterno, del reparto di ginecologia.
3. Le impugnazioni avverso i due recessi venivano respinte dall’adito Tribunale di Roma e, proposte autonome opposizioni, dopo avere riunito le stesse, il medesimo Tribunale, con sentenza depositata il 19.10.2017, in parziale accoglimento della prima dichiarava illegittimo il licenziamento del 16.6.2015 e, applicato la L. n. 300 del 1970, art. 18 comma 5, per il mancato rispetto dell’onere di repechage, dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del recesso condannando la società a pagare l’indennità risarcitoria liquidata in misura pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; dichiarava, poi, non doversi giudicare sul secondo licenziamento, di natura disciplinare.
4. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 2576 del 2018, rigettava il reclamo presentato dalla Casa di Cura Privata ***** spa.
5. A fondamento della decisione, i giudici di seconde cure rilevavano che: a) correttamente era stata ritenuta ammissibile la deduzione svolta dalla lavoratrice relativa al repechage, sebbene prospettata per la prima volta solo in sede di opposizione; b) non era rilevante che la M. non avesse indicato i posti di lavoro ai quali avrebbe potuto essere adibita; c) l’offerta di ricollocazione effettuata alla lavoratrice nel reparto di nefrologia e dialisi era contraria a buona fede e correttezza, in considerazione del bagaglio di professionalità posseduto, essendo specialista in ginecologia; d) il centro di procreazione medicalmente assistita, al momento del licenziamento, era già preesistente e vi era la possibilità di destinare ivi la M.; e) quest’ultima aveva rifiutato, dopo il recesso, il posto al suddetto centro perchè le era stata offerta la riassunzione con diverso regime del rapporto di lavoro, sottoposto al D.Lgs. n. 23 del 2015; f) la misura della indennità in diciotto mensilità dell’ultima retribuzione appariva coerente con l’anzianità di servizio di 14 anni vantata dalla lavoratrice.
6. Proponeva ricorso per cassazione della sentenza di secondo grado la Casa di Cura Privata ***** spa affidato a tre motivi, cui resisteva con controricorso M.D. che depositava memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento alla L. n. 604 del 1966, art. 3, anche in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 7, con particolare riguardo all’obbligo di repèchage, nonchè l’omesso esame di un fatto/elemento/circostanza decisiva ai fini della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce che la doglianza verte esclusivamente in merito all’assolvimento o meno dell’onere datoriale circa l’obbligo di repechage e concerne la valutazione se il giudice di appello avesse o meno correttamente applicato le norme in rubrica, soprattutto alla luce del materiale probatorio – nuovo ed ammissibile in quanto di data successiva al primo grado – offerto da essa società.
3. Con il secondo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 2729 c.c. e all’art. 116 c.p.c., nonchè la contraddittorietà ed erronea valutazione delle presunzioni e delle prove per testi, per avere la Corte di merito ritenuto che le presunzioni emerse in merito all’obbligo di repechage erano di segno favorevole al fatto che, al momento del licenziamento, il centro di procreazione medicalmente assistita presso la Casa di Cura fosse perfettamente attivo.
4. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 7 e dei relativi parametri/criteri di quantificazione/liquidazione nonchè l’omesso esame di un fatto/elemento/circostanza decisiva ai fini della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere errato la Corte territoriale ritenendo congrua la misura dell’indennità riconosciuta in prime cure, pari a 18 mensilità, dando risalto alla sola anzianità di servizio e in assenza di altri elementi contrari in senso contrario, quali l’ingiustificato rifiuto del dipendente a lavorare presso il reparto di nefrologia e dialisi e di avere lavorato già dal giorno successivo al licenziamento, presso altre strutture, manifestando, quindi, la volontà di non volere lavorare per la Casa di Cura ***** e rendendosi autrice di un danneggiamento vandalico dell’autovettura del Prof. Ma..
5. I primi due motivi, che per la loro interferenza possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili, in quanto intesi evidentemente, nella loro complessiva formulazione (dove tra l’altro risultano promiscuamente denunciati diversi vizi tra quelli contemplati dall’art. 360 c.p.c.) a contestare la ricostruzione fattuale della vicenda di cui è processo differentemente da quanto in proposito ritenuto dalla Corte di merito, con lineare e adeguata motivazione: ciò, come è pacifico, non è consentito in sede di legittimità.
6. Invero, le violazioni di legge denunciate sono insussistenti, in difetto degli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
7. Analogamente sono inammissibili le doglianze, prospettate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè tale disposizione, come riformulata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 (applicabile ratione temporis) ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. n. 8053 del 2014 per tutte). Inoltre, va sottolineato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 19881 del 2014).
8. In tema di prove, poi, deve ribadirsi che l’accertamento circa la sussistenza e l’idoneità di una prova offerta a rendere verosimile il fatto allegato costituisce un apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (Cass. n. 10484 del 2001; Cass. n. 5434 del 2003).
9. In tema di ricorso per cassazione, inoltre, una questione di violazione o di falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o comunque una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come ad esempio valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stesse secondo il suo prudente apprezzamento, mentre ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. n. 20867 del 2020).
10. In realtà, i due motivi scrutinati tendono non ad evidenziare errori di percezione delle prove in senso tecnico, ma mirano ad una rivisitazione del merito della vicenda e alla contestazione della valutazione probatoria operata dalla Corte territoriale, sostanziante il suo accertamento in fatto, di esclusiva spettanza del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 27197 del 2011; Cass. n. 6288 del 2011) e fondata non solo su prove documentali ma anche sulle risultanze delle prove orali: ciò per la esauriente e coerente motivazione della Corte di merito in ordine alla problematica della operatività del centro di procreazione medica assistita alla data del licenziamento della Dottoressa M. e, quindi, in ordine alla possibilità di un suo ricollocamento in altro reparto corrispondente alla sua professionalità.
11. Il terzo motivo è infondato.
12. Le determinazioni, tra il minimo ed il massimo della misura dell’indennità risarcitoria L. n. 300 del 1970, ex art. 18 commi 4 e 7, analogamente a quanto previsto in relazione a quella disciplinata dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 (sostituito dalla L. n. 108 del 1990, art. 2, che richiama gli stessi criteri di liquidazione), spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria (Cass. n. 107/2001; Cass. n. 11107/2006; Cass. n. 13380/2006); in quanto espressione del potere discrezionale del giudice di merito, se adeguatamente motivata e rispettosa dei limiti parametrici della norma, non può, pertanto, essere soggetta al sindacato di legittimità.
13. Nella fattispecie, la Corte di merito ha confermato la misura dell’indennità fissata dal Tribunale pari a 18 mensilità, ritenendo elemento prevalente quello della anzianità di servizio (14 anni).
14. Si tratta di una motivazione congrua, rispetto alla censura svolta in appello (come riportata nella gravata sentenza e non specificamente contestata in questa sede) che concerneva unicamente l’esosità e genericamente la non conformità ai criteri di legge (cfr. pag. 10 del ricorso) della indennità, mentre solo in sede di legittimità, però inammissibilmente, risultano essere stati prospettati ed illustrati nuovi fatti relativi ad altri elementi di valutazione.
15. Alla stregua, pertanto, di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
16. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente ai pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie della misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2021