LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12478/2017 proposto da:
B.N., P.P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ITALO CARLO FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato ANGELO COLUCCI, rappresentati e difesi dall’avvocato MARIO DE GIORGIO;
– ricorrenti –
contro
PI.MA., PI.BA., PI.GR., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO VICCARI;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 543/2016 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. di TARANTO, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/11/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.
FATTO E DIRITTO
ritenuto che la vicenda al vaglio, per quel che qui residua d’utilità, può sintetizzarsi nei termini seguenti:
– il Tribunale rigettò la domanda avanzata da B.N. e P.P., proprietari di due distinti fondi, con la quale si erano doluti del mancato rispetto delle distanze dal confine dell’edificio costruito da Pi.Gr., Ba. e Ma., proprietarie di un fondo confinante;
– gli attori avevano esposto che il fabbricato edificato dalle convenute, posizionato a circa 5 m. dal confine, violava la distanza minima prevista dalla normativa locale fissata in 6 m.;
– il Tribunale, avendo escluso dal computo, per tutta la loro profondità, i balconi aperti dell’edificio di parte convenuta (m. 1,20), reputò che la distanza legale fosse rimasta rispettata;
– la Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, alla quale si erano rivolti gli attori con due autonomi atti d’impugnazione, in accoglimento dell’appello di B.N., condannò le appellate ad arretrare il loro manufatto fino alla distanza minima di metri cinque e rigettò l’appello di P.P., stante che l’edificio delle appellate era alto m. 9,50;
– in estrema sintesi appare utile riprendere il ragionamento della Corte di merito: la sentenza, per qual che qui rileva, dopo aver ricordato che i due appellanti si erano doluti a riguardo della individuazione della normativa locale applicabile e del criterio di computo della distanza, afferma che la materia era regolata dalla sopravvenuta Delib. Comunale 30 aprile 2010, la quale imponeva la distanza dal confine pari 1/2 dell’altezza della nuova costruzione, con un minimo assoluto di cinque metri; quanto al secondo profilo, erroneamente il Tribunale aveva escluso nel computo della distanza i balconi aperti e poiché, tenuto conto di questi nella proiezione d’ingombro del fabbricato di parte appellata, l’edificio si collocava a 4,81 m. dal confine, le Pi. andavano condannate ad arretrare il loro immobile fino a cinque metri dal confine, costituente la distanza minima consentita, pur ove la metà dell’altezza dell’edificio fosse inferiore alla predetta misura; ha, infine, giudicato inammissibile, perché nuova, la subordinata domanda del P., il quale, in caso di accoglimento dell’avversata pretesa, aveva chiesto che le appellate fossero condannate, invece che alla demolizione, al risarcimento del danno in forma generica.
B.N. e P.P. ricorrono avverso la sentenza d’appello sulla base di quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria; le intimate resistono con controricorso.
Osserva:
1. Con i due primi correlati motivi viene denunciata omessa pronuncia e, in subordine, mancanza di motivazione, per non essersi la Corte di merito pronunciata sul primo motivo d’appello del B. a riguardo della normativa applicabile e sul terzo, con il quale costui (peraltro siccome il P.), nel suo atto d’impugnazione, aveva chiesto, in via subordinata, che in loco della demolizione fosse disposta condanna in forma generica a risarcire il danno.
1.1. L’insieme censuratorio non supera lo scrutinio d’ammissibilità.
Non è dubbio che la Corte d’appello ha vagliato entrambe le censure e il fatto che esse fossero state proposte, dai due appellanti nei due separati atti d’appello, non poteva giammai implicare che il Giudice fosse tenuto a riportare per due volte la medesima statuizione, in riferimento ora all’uno e ora all’altro appellante.
2. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 873 c.c. e dell’art. 45 delle N.T.A. del piano regolatore generale del Comune di Taranto, a riguardo della zona edilizia di riferimento vigente all’epoca della costruzione del fabbricato delle Pi..
2.1. La doglianza è manifestamente infondata, avendo la Corte locale fatto corretta applicazione del principio di diritto più volte enunciato da questa Corte, a mente del quale i regolamenti edilizi in materia di distanze tra costruzioni contengono norme di immediata applicazione, salvo il limite, nel caso di norme più restrittive, dei cosiddetti “diritti quesiti” (per cui la disciplina più restrittiva non si applica alle costruzioni che, alla data dell’entrata in vigore della normativa, possano considerarsi “già sorte”), e, nel caso di norme più favorevoli, dell’eventuale giudicato formatosi sulla legittimità o meno della costruzione. Ne consegue la inammissibilità dell’ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi “medio tempore”, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l’avvento della nuova disciplina (Sez. 2, n. 14446, 15/6/2010, Rv. 613403; conf., ex multis, Cass. n. 26713/2020). Ne’ i ricorrenti hanno introdotto argomenti nuovi e decisivi per porre in dubbio l’esposto principio.
Or non è dubbio che la costruzione delle convenute, siccome ridotta dalla sentenza d’appello, risulti rispettosa della vigente normativa edilizia locale, restando assicurata la distanza minima assoluta di m. 5, in presenza di un fabbricato alto m. 9,50 (sulla misura dell’altezza non si registra contrasto fra le parti – si veda la memoria del ricorrente a pag. 7 e il controricorso, a pag. 24 -).
3. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., assumendo che la sentenza aveva erroneamente giudicato “domanda nuova” la subordinata richiesta di condanna della controparte al risarcimento del danno in forma generica, al posto di quella alla demolizione; modifica che non avrebbe potuto essere formulata prima, in quanto solo sulla base di norma sopravvenuta le Pi. avrebbero acquisito il diritto a mantenere a cinque metri e non a sei metri (come imposto al momento dell’edificazione) il loro fabbricato.
3.1. La doglianza è infondata.
Dalla violazione delle norme di edilizia deriva l’obbligo di risarcire il danno in forma generica. Ove poi la violazione riguardi la disciplina delle distanze il soggetto leso ha la facoltà di chiedere la riduzione in pristino (art. 872 c.c., comma 2). La norma dice “salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino”; trattasi, quindi, di strumenti risarcitori che ben possono coesistere, in quanto la sola demolizione del manufatto “contra legem” può non elidere “ex se” il danno eventualmente procurato (si pensi alla perdita di amenità e di valore del proprio immobile e, di chance di vendita o profitto).
Da ciò deriva che l’attore, il quale agisca contro colui il quale ha costruito violando le norme sulle distanze, deve, nel rispetto delle preclusioni processuali, scegliere se tempestivamente proporre l’una e l’altra domanda, una sola delle due, o, infine subordinare la domanda alla condanna al risarcimento in forma generica al rigetto di quella in forma specifica.
Di conseguenza, ove egli abbia proposto la sola domanda di riduzione in pristino, e una tale domanda non possa essere accolta per le più varie ragioni, non può pretendere di essere rimesso in termini. Ne’ muta il quadro la circostanza, come nella specie, che il rigetto di essa domanda dipenda da scelte urbanistiche comunali sopravvenute, trattandosi di evenienza dipendente dal funzionamento della successione nel tempo delle norme edilizie, che non interferisce con il diritto che la parte avrebbe potuto e dovuto far valere con la domanda, fondato, come si è visto sull’art. 872 c.c..
4. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo.
5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma 1-bis dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore delle controricorrenti, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022
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