Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.1768 del 20/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21198/2017 proposto da:

Z.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI N. 41, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA MANFREDI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI BERTACCHE;

– ricorrente –

contro

Z.M.C., Z.V., Z.F.N., rappresentati e difesi dall’avv. GIANFRANCO MAGNABOSCO;

– controricorrenti –

contro

COMUNE DI VALDAGNO IN PERSONA DEL SINDACO IN CARICA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1274/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/11/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda al vaglio, per quel che qui residua d’utilità, può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale, in accoglimento della domanda avanzata da Z.G. nei confronti di Z.M.V. e F.N., nonché del Comune di Valdagno (chiamato in giudizio per avere rilasciato il titolo edificatorio), condannò i convenuti Z. ad arretrare le opere che insistevano sul loro fondo, che non rispettavano la distanza prescritta dal confine dalla normativa locale, nonché a risarcire il danno, quantificato in Euro 15.000,00;

– la Corte d’appello di Venezia, in parziale accoglimento dell’impugnazione dei convenuti Z., dichiarata cessata la materia del contendere a riguardo di un muro di contenimento, che era stato oggetto di ricorso possessorio in corso di causa, rigettò la domanda di Z.G.;

– in estrema sintesi appare utile riprendere il ragionamento della Corte di merito:

a) l’art. 5 delle norme di attuazione del piano regolatore generale imponeva una distanza minima tra pareti finestrate, o parti di esse, “pari all’altezza del fabbricato più alto con un minimo assoluto di ml. 10. Inoltre, circa il calcolo degli indici urbanistici, la stessa norma locale prescrive(va): H=altezza del fabbricato. Altezza media ponderale delle fronti. RI=rapporto fra l’altezza del fabbricato e la distanza fra gli edifici. Si determina misurando la distanza media fra le fronti aperte dei due edifici, al vivo di eventuali corpo aggettanti chiusi e l’altezza dell’edificio più alto come indice H”;

b) sulla base degli accertamenti peritali era risultato che le unità abitative dei convenuti erano quattro e che quella più vicina a quella attorea presentava un’altezza media ponderale di m. 10,82 (inferiore a tale misura per le altre tre unità) e con l’aggiunta della quota di campagna (60 cm) si giungeva a un’altezza di m. 11,42 e perciò correttamente il ctu aveva concluso nel senso che per ogni unità risultava rispettata la distanza minima prevista, poiché, in sede di ultimo supplemento peritale il consulente aveva precisato che la porzione più alta dell’edificio dei convenuti si trovava a una distanza di m. 11,80 dall’edificio dell’attore, quindi a una distanza maggiore rispetto a quella imposta nel caso in esame dalla disciplina locale, corrispondente, appunto, a m. 11,42;

c) non poteva condividersi il ragionamento del primo Giudice, il quale aveva assegnato alla porzione più alta della costruzione dei convenuti la misura di m. 12,55, in quanto “il criterio della media ponderale è posto dalla normativa locale ai fini del computo dell’altezza dei fabbricati e non della distanza fra costruzioni e dunque rileva limitatamente alla determinazione del criterio per la maggiore distanza rispetto a quella minima inderogabile” e la misura di m. 12,55, era espressione, come aveva chiarito il ctu, di un dato puramente numerico, per determinare il quale non era stato utilizzato “un meccanismo di calcolo convenzionale (nel quale sono prese in considerazione altezze medie ponderali ecc.)”; in definitiva, conclude la sentenza, “ai fini della determinazione della eventuale maggiore distanza fra fabbricati, non è sufficiente il calcolo della mera altezza del fabbricato più alto. E’ necessario, invece, nel calcolare l’altezza adottare i criteri previsti dalla norma di attuazione citata, la cui applicazione, come rilevato dallo stesso ctu, comporta la minore altezza sopra riportata ed il rispetto della distanza prevista”.

Z.G. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di tre motivi; gli intimati resistono con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.

Osserva:

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 5 delle n. t.a. del p.r.g. del Comune di Valdagno, assumendo che “la Corte territoriale incorre in violazione/falsa applicazione di legge, laddove afferma che la rilevazione dell’altezza di una singola fronte o porzione di fabbricato non rispetta i criteri dettati dalla norma stessa perché così ragionando riconduce la fattispecie concreta (misurazione della singola fronte del fabbricato) sotto una fattispecie astratta (modalità di misurazione dell’altezza media ponderale tra fronti degli edifici) che però non è idonea a regolarla. Va invece affermato che la misurazione delle singole fronte dell’edificio non può essere considerata in sé erronea nella determinazione della distanza tra le costruzioni, perché tale dato va necessariamente (art. 5 Nta) ponderato con le altezze misurate per le altre fronti. L’operazione va ripetuta per ognuno degli edifici in contesto per verificare quale sia l’edificio con la maggiore altezza media ponderale e se ogni edificio sia stato costruito ad una distanza pari o superiore all’altezza (media ponderale) dell’edificio più alto”.

1.1. La censura è infondata.

La disciplina locale richiamata si riferisce alla distanza tra fabbricati. Non viene specificamente dedotto dal ricorrente, con il corredo della precipua indicazione dei documenti corroboranti l’assunto (art. 366 c.p.c., n. 6), che la controparte avesse fabbricato più edifici, in base, quindi, a plurime e distinti provvedimenti amministrativi comunali; anzi, dal ricorso, il quale riproduce a pag. 16 il disegno planimetrico, si ricava conferma, di quel che sostengono i controricorrenti e cioè che si trattava di un unico fabbricato a schiera, composto da più unità abitative, per il quale era stato rilasciato un solo titolo edificatorio dalla competente autorità amministrativa.

Ciò premesso, correttamente la sentenza impugnata ha considerato l’intiero edificio al fine di stabilire l’altezza media ponderale e non le singole unità abitative, rilevante al fine di verificare se lo stesso fosse posto a distanza rispettosa di quella minima inderogabile, senza che assumano rilievo le altezze superiori delle singole unità o parti.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo.

Il ricorrente, dopo essersi sommariamente e piuttosto apoditticamente intrattenuto su asserite incongruenze delle risposte peritali, afferma che il fatto controverso e decisivo non esaminato consiste nella “asserita uguaglianza tra le altezze delle costruzioni dei convenuti/appellanti, come risulta dalla rappresentazione grafica del ctp ing. N.” e, che, al fine di rendere chiarezza sul punto, la Corte di merito avrebbe dovuto rimettere il processo in istruttoria.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La censura è estranea al paradigma invocato (art. 360 c.p.c., n. 5) e, all’evidenza, risulta diretta, peraltro confusamente e senza spiegare in che sarebbero consistite le ricadute sul “decisum”, a un improprio riesame di merito delle risultanze peritali, in palese violazione del consolidato principio di diritto enunciato reiteratamente da questa Corte, secondo il quale l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (per tutte, S.U. n. 8053, 07/04/2014, Rv. 629831).

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, per non avere la decisione impugnata considerato che “la convenzione della lottizzazione nella quale sono state edificate le abitazioni dei convenuti prevedeva per le stesse l’altezza massima di m. 9,50”.

3.1. Anche quest’ultimo motivo non supera lo scrutinio d’ammissibilità, in quanto, a prescindere da ogni altra considerazione, va osservato che la doglianza risulta nuova, non constando dalla sentenza che la questione fosse stata ritualmente dedotta; né il ricorrente ha allegato precipuamente il contrario.

4. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo.

5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che liquida in Euro 4.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022

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