LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 6607/2017 proposto da:
C.G., C.F., C.T. e C TRE S.N.C. DEI FRATELLI C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ANTONIO GIUSEPPE GUATTANI n. 14, presso lo studio dell’avvocato MICHELE PESIRI, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
M.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE n. 52, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GRASSETTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO SQUICQUERO;
– controricorrente –
e contro
S.R.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 7319/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/12/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 27.10.2008 M.S. evocava in giudizio la società C Tre S.n.c., unitamente ai soci C.T., F. e G., innanzi il Tribunale di Roma, per l’accertamento del loro grave inadempimento al contratto di compravendita del 31.10.2007, per consegna di aliud pro alio. Ad avviso dell’attrice, la compravendita aveva avuto ad oggetto un bene immobile con destinazione diversa da quella promessa dalla parte venditrice (magazzino anziché abitazione). Nella resistenza della parte convenuta, che chiamava in causa in garanzia S.R. – che aveva progettato la ristrutturazione dell’immobile e diretto i relativi lavori – il Tribunale accoglieva la domanda, dichiarando risolto il contratto intercorso tra le parti e condannando, rispettivamente, la società convenuta al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 30.071,43 e quest’ultima alla restituzione del cespite oggetto del contratto risolto.
Interponeva appello avverso detta decisione la società C Tre S.n.c. e la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, n. 7319/2016, resa nella resistenza della M., rigettava il gravame.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione la società C Tre S.n.c., affidandosi a cinque motivi.
Resiste con controricorso M.S..
La parte ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, perché la Corte di Appello avrebbe trascurato di considerare gli argomenti che sarebbero stati addotti, nel corso del giudizio di merito, dalla difesa della società venditrice a confutazione delle conclusioni del C.T.U.. In particolare, mentre l’ausiliario avrebbe affermato che l’edificio in cui è compreso l’immobile di cui è causa sarebbe privo di licenza edilizia, i ricorrenti evidenziano di aver dedotto che lo stabile era “gemello” con altro fabbricato adiacente – in relazione al quale invece il consulente tecnico aveva verificato l’esistenza della licenza edilizia – nel quale era compreso un immobile identico a quello di cui è causa, avente destinazione ad uso residenziale.
Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, perché la Corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto assente l’autorizzazione allo scarico in fogna per l’edificio ove si trova l’immobile di cui è causa, nonostante il fatto che la fognatura di detto fabbricato fosse connessa a quella di altro edificio, quest’ultima fosse dotata di regolare autorizzazione all’allaccio alla fogna comunale. Secondo la ricorrente, poiché l’immobile di cui è causa faceva parte dell’edificio di *****, e poiché questo era collegato alla fognatura del palazzo di *****, il giudice di merito avrebbe dovuto ravvisare l’esistenza di un regolare allaccio in fogna.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, perché la Corte capitolina avrebbe erroneamente interpretato la dichiarazione sottoscritta dalla M. in data *****, con la quale la stessa aveva confermato di aver ricevuto dalla C Tre S.n.c. la somma di Euro 5.000, e liberato la società venditrice da ogni responsabilità per il mancato allaccio dell’immobile compravenduto alla rete idrica. Secondo la società ricorrente, poiché l’allaccio idrico presuppone l’esistenza di un regolare collegamento alla fognatura, la manleva relativa al primo implicava anche la manleva per il secondo. La Corte di Appello, dunque, avrebbe errato nell’affermare che la dichiarazione del ***** si riferiva solo all’allaccio idrico, e non anche a quello alla fognatura.
Le tre censure, che si prestano ad uno scrutinio congiunto, sono inammissibili. Esse, infatti, si risolvono nella proposizione di una ricostruzione del fatto alternativa rispetto a quella condotta dal giudice di merito, e sollecitano un riesame dell’apprezzamento delle prove operato da quest’ultimo. Essi, dunque, non si confrontano con il più che consolidato insegnamento di questa Corte, secondo cui il motivo di ricorso in Cassazione non può consistere nella richiesta di una nuova pronuncia sul fatto, inammissibile in sede di legittimità (Cass. Sez. U., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).
La Corte di Appello, nello specifico, ha evidenziato che:
1) l’immobile compravenduto, avente accesso da *****, è collegato al vicino al fabbricato avente accesso da *****;
2) il progetto e la licenza edilizia reperiti presso il Comune di Roma sono relativi a diverso immobile, sito in ***** “pressoché identico a quello di *****”;
3) l’immobile di ***** è allacciato alla fogna del palazzo con accesso dal civico ***** della stessa via, la quale a sua volta è connessa alla fogna di altro palazzo, avente accesso da *****, in assenza di idonea autorizzazione;
4) all’epoca della compravendita, l’immobile di cui è causa era privo di allaccio idrico, allaccio in fogna e abitabilità ad uso residenziale.
Su tali elementi di fatto, la Corte capitolina ha ritenuto assente la licenza edilizia e l’autorizzazione all’allaccio in fogna relativi allo stabile di *****, ed ha concluso che la destinazione di quest’ultimo ad uso residenziale del bene fosse frutto di una modifica eseguita impropriamente dal geom. S., a suo tempo incaricato dalla C Tre S.n.c. di curare il progetto di ristrutturazione dell’immobile di cui è causa e di dirigere i relativi lavori.
All’esito di questo accertamento in punto di fatto, il giudice di merito ha ravvisato il grave inadempimento della società venditrice, per aver consegnato al compratore un bene oggettivamente diverso da quello promesso, qualificabile quindi come aliud pro alio. Sotto tale profilo, la decisione della Corte territoriale appare pienamente in linea con i precedenti di questa Corte, secondo cui si configura una vendita di aliud pro alio qualora, a fronte della previsione del trasferimento della proprietà di un immobile ad uso abitativo, venga materialmente consegnato un bene privo di licenza di abitabilità, essendo quest’ultima un elemento che caratterizza l’immobile in relazione alla sua intrinseca capacità ad assolvere alla sua destinazione economico-sociale e, quindi, a soddisfare i bisogni che hanno indotto, in concreto, il compratore all’acquisto: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1141 del 20/04/1973, Rv. 363642; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3592 del 27/10/1975, Rv. 377790; nonché Cass. Sez. 3, Sentenza n. 964 del 07/04/1970, Rv. 346427. Stesso dicasi qualora il bene non abbia gli allacci ai servizi essenziali, poiché in tale eventualità esso npon è idoneo ad assolvere alla funzione abitativa, non essendo dotato “… dei servizi essenziali alle esigenze indeclinabili di una vita sana e civile” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5448 del 22/11/1978, Rv. 395218). In applicazione di tale principio, al quale il Collegio intende dare continuità, si è ravvisato il vizio di aliud pro alio nella consegna di una cantina trasformata in abitazione in violazione del regolamento condominiale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10523 del 03/07/2003, Rv. 564772) o nella consegna, in luogo di un immobile ad uso abitativo, di un bene destinato ad uso ufficio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9253 del 20/04/2006, Rv. 588981). In tutti questi casi, infatti, non si configura un semplice vizio redibitorio, o un difetto di qualità, del bene compravenduto – i quali danno origine ad una ordinaria azione di risoluzione contrattuale svincolata dai termini e dalle condizioni di cui all’art. 1495 c.c. – ma sussiste una diversità tra cosa venduta e cosa consegnata che “… incide sulla natura e, quindi, sulla individualità, consistenza e destinazione di quest’ultima, sì da ritenere che appartenga ad un genere del tutto diverso da quello posto a base della decisione dell’acquirente di effettuare l’acquisto o che presenti i difetti che le impediscano di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti (cosiddetta inidoneità ad assolvere la funzione economico – sociale)” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2712 del 23/03/1999, Rv. 524457).
La Corte di Appello ha poi esaminato la scrittura del *****, intercorsa tra le parti, interpretandone il contenuto e ritenendo che, con essa, la M. avesse inteso liberare C Tre S.n.c. solo dalla responsabilità per assenza dell’allaccio idrico, e non anche per la mancanza di allaccio in fogna e dell’abitabilità.
La società ricorrente non si confronta utilmente con questo complessivo accertamento in fatto, limitandosi a proporre una lettura alternativa delle risultanze istruttorie e degli elementi di fatto.
Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, perché la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto del fatto che la M. non si sarebbe mai attivata, né per ottenere l’allaccio idrico del suo immobile, né per conseguire il certificato di agibilità dello stesso. Inoltre, la Corte capitolina non avrebbe considerato che la M. aveva regolarmente locato a terzi l’immobile di cui è causa, e non aveva dimostrato di aver svolto alcuna iniziativa per costringere la sua inquilina a corrisponderle il canone di locazione pattuito. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte distrettuale avrebbe errato nell’affermare che la C Tre S.n.c. non aveva provato il suo assunto – secondo cui l’inquilina della M. aveva comunque continuato a pagarle regolarmente il canone locativo, nulla eccependo sulla mancanza dell’allaccio idrico dell’immobile-, poiché la prova dell’esistenza del danno sarebbe stata a carico della M.. Quest’ultima, dunque, avrebbe dovuto dimostrare di non aver mai percepito il canone locativo relativo al cespite di cui è causa. Inoltre, il giudice di seconda istanza non avrebbe tenuto conto dell’ulteriore fatto che la M. non aveva pagato il mutuo gravante sull’immobile compravenduto tra le parti; pertanto, in forza della sentenza di prime cure, la società venditrice si sarebbe vista restituire un bene gravato da ipoteca per un debito non saldato dalla M., la quale invece avrebbe dovuto essere condannata a restituire il bene, per effetto della risoluzione del contratto di vendita, libero da trascrizioni e iscrizioni pregiudizievoli.
La censura è infondata. Con essa, in sostanza, i ricorrenti pongono tre diverse questioni:
1) lamentano che la M. non si sarebbe attivata per ottenere allaccio idrico ed abitabilità e per recuperare i canoni locativi dovuti dal suo inquilino;
2) affermano che non era C Tre S.n.c. a dover provare che la M. avesse percepito il canone locativo dal suo inquilino, nonostante i difetti del bene di cui è causa, ma la M. a dover provare il contrario;
3) sostengono che, una volta risolto il contratto, la M. avrebbe dovuto essere condannata a restituire il bene libero da iscrizioni e trascrizioni, mentre questa specificazione sarebbe mancata nella decisione di prime cure; di conseguenza, la M. avrebbe restituito alla C Tre S.n.c. un cespite ipotecato, con danno ingiusto per la predetta società.
Per quanto concerne il primo profilo, occorre evidenziare che la Corte di Appello esamina la questione – onde non si configura il dedotto vizio di omesso esame – e ritiene irrilevante il fatto che l’inquilino avesse continuato a versare il canone locativo, in relazione alla responsabilità del venditore per mancato godimento del bene. La parte ricorrente non contesta la misura dell’indennità riconosciuta dal giudice di merito alla M., né afferma che essa non sarebbe stata dovuta, in presenza di reddito da locazione comunque riferibile al bene oggetto della compravendita, ma si limita a censurare l’atteggiamento inerte della M., che tuttavia è irrilevante ai fini del riparto delle responsabilità. Al danneggiato, infatti, è richiesto di tenere un comportamento idoneo ad evitare l’aggravamento del danno, e non anche di attivarsi per eliminarlo in radice. La valutazione del comportamento volto a limitare le conseguenze dannose dell’altrui inadempimento, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, infatti, va certamente effettuata alla stregua dell’art. 1375 c.c., secondo il principio del cd. “apprezzabile sacrificio” (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 24522 del 05/10/2018, Rv. 651135), ma questo, se da un lato non esclude che al danneggiato possa anche essere richiesto di assumere una condotta attiva, ove ciò sia necessario ai fini della prevenzione dell’aggravamento del pregiudizio, sicuramente non si estende fino all’obbligo di assumere iniziative giudiziarie, o comunque di adoperarsi positivamente per impedire financo il verificarsi del danno.
Per quanto attiene invece al secondo profilo – relativo alla parte sulla quale gravava l’onere della prova – si deve osservare che la M. aveva semplicemente dedotto che, a causa dei vizi del bene, essa non aveva potuto ricavarne un reddito da locazione, in quanto il suo inquilino aveva rifiutato di pagare il relativo canone. La società C Tre S.n.c., che aveva contestato tale deduzione, era evidentemente onerata di fornire la prova, positiva, dell’intervenuto pagamento del canone di cui anzidetto.
In ogni caso, anche questa censura non assume rilievo decisivo, posto che il giudice di merito non ha riconosciuto alla M. soltanto un indennizzo legato al mancato godimento del bene, ma un risarcimento del danno globalmente determinato, per la cui quantificazione ha tenuto conto di diversi elementi, tra cui la mancanza dello scarico fognario e dell’abitabilità che, secondo la Corte di Appello, sono circostanze sufficienti ai fini della configurazione dell’inadempimento della parte venditrice.
Infine, per quel che concerne il terzo ed ultimo profilo dedotto da parte ricorrente con il quarto motivo di ricorso, va ravvisata la novità della censura, poiché dalla sentenza impugnata non emerge che, nel giudizio di secondo grado, gli odierni ricorrenti avessero lamentato il danno derivante dal fatto che la M. aveva riconsegnato un immobile non libero, ma gravato di ipoteca a favore di terzi. Ne’ i ricorrenti si curano, nella parte del quarto motivo dedicata alla doglianza in esame, di precisare il momento processuale, ed il relativo strumento, mediante il quale tale questione sarebbe stata proposta nel corso del predetto giudizio di merito, o di indicare da quale elemento di prova, parimenti acquisito al giudizio di merito, si ricaverebbe la dimostrazione del fatto che la M. avrebbe restituito a C Tre S.n.c. un bene non libero.
La quarta doglianza, dunque, è nel suo complesso infondata.
Con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo, rappresentato dal trattamento irragionevolmente differenziato che sarebbe stato applicato dal giudice di merito alla società proprietaria del bene, da un lato, ed al geom. S.R., dall’altro lato, che del medesimo bene aveva firmato il progetto di ristrutturazione ed assicurato la direzione dei correlati lavori. Ad avviso dei ricorrenti, la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile la censura proposta da C Tre S.n.c. in relazione alla parte della sentenza di prime cure che aveva apprezzato diversamente la responsabilità della società e del S., escludendo la possibilità di addebitare alcunché al secondo, in funzione della complessa situazione dello stabile, ed affermando invece la piena responsabilità della prima. Sarebbe infatti ravvisabile, in detta statuizione, un profilo di irriducibile contrasto logico.
La censura è inammissibile per genericità. I ricorrenti, infatti, non indicano in quale momento processuale, e con quale strumento, sarebbe stata introdotta nel giudizio di merito la questione del differente apprezzamento delle responsabilità, del S. e di C Tre S.n.c., della quale non vi è traccia in sentenza. Quest’ultima, infatti, afferma soltanto che la domanda di manleva, spiegata dalla società contro il progettista e direttore dei lavori, doveva essere respinta perché l’appellante non aveva superato la statuizione della sentenza di prime cure, secondo la quale non era stata raggiunta la prova della negligenza del professionista.
In ogni caso, con il passaggio motivazionale appena richiamato la Corte di Appello ha sostanzialmente confermato la valutazione di merito già condotta dal Tribunale, esprimendo un giudizio in fatto non censurabile in sede di legittimità.
Infine, va anche considerate che mentre la responsabilità del S. è fondata sul rapporto professionale, e dunque va apprezzata secondo il criterio della colpa, quella relativa al diverso rapporto tra venditore ed acquirente, in caso di consegna di aliud pro alio, va valutata in relazione alla natura del bene ed alla sua oggettiva corrispondenza, o meno, a quanto pattuito tra le parti. E’ quindi del tutto logico che i due apprezzamenti siano svolti in maniera diversa e possano approdare, in concreto, a conclusioni difformi.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.300, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 1 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2022