Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.3805 del 07/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31337-2019 proposto da:

T.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 14, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE BIANCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LAURA BIANCO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

T.D. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VESSELLA 30, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA METE, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

V.A., T.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3203/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/01/2022 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie del ricorrente.

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con citazione del 30 dicembre 2005 T.O. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il fratello T.E., al fine di procedere allo scioglimento della comunione ereditaria scaturente dalla morte del padre T.E., deceduto il 16 ottobre 2005, con l’accertamento della simulazione di alcuni contratti di compravendita intervenuti tra il padre ed il figlio E.; si chiedeva altresì regolare la successione testamentaria della madre P.A., previa riduzione delle disposizioni testamentarie, in quanto lesive della quota di legittima dell’attore.

Con successivo atto di citazione notificato il 7 settembre 2006 l’attore, essendo venuto a conoscenza attraverso la comparsa di risposta del fratello nel primo giudizio dell’esistenza di un testamento, con il quale il padre aveva nominato il convenuto proprio erede universale, chiedeva accertare la propria qualità di erede legittimo e la titolarità di diritto alla quota di 1/3 del compendio ereditario paterno, previa ricostruzione integrale dell’asse, a seguito dell’accertamento della simulazione degli atti di compravendita intervenuti tra il padre e il fratello.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 12182 del 3 giugno 2009, non definitivamente pronunciando, accoglieva la domanda di riduzione relativa alla successione materna, ma rigettava la domanda concernente la successione del padre, poiché secondo il tribunale non risultava essere stata avanzata una domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie.

La Corte d’Appello di Roma con sentenza non definitiva n. 3203 del 16 maggio 2017, in accoglimento del gravame proposto dall’attore, ha dichiarato la simulazione delle compravendite stipulate in data 9 novembre 1995, ed ha dichiarato aperta la successione di T.E., con il riconoscimento a T.O., deceduto nelle more del giudizio, della quota di 1/3.

In primo luogo, i giudici di appello rilevavano che non potesse impedire la disamina dell’impugnazione proposta contro la sentenza non definitiva, la circostanza che successivamente il tribunale aveva pronunciato la sentenza definitiva n. 14562 del 2012, con cui aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere quanto alla successione materna, regolando altresì le spese dell’intero giudizio.

La mancata impugnazione della sentenza definitiva non precludeva tuttavia l’esame dell’appello avverso la prima sentenza, e ciò sebbene nei confronti della stessa fosse stata formulata apposta riserva di impugnazione, essendo escluso, alla luce della giurisprudenza di legittimità, un onere di impugnazione contestuale anche della sentenza definitiva. Peraltro doveva reputarsi che le statuizioni relative alle spese di lite contenute nella sentenza definitiva erano destinate naturalmente ad essere travolte nell’ipotesi di riforma della sentenza non definitiva.

Passando alla valutazione del motivo di appello con il quale si contestava la conclusione del giudice di primo grado circa l’assenza di una domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie paterne, secondo i giudici di appello erano fondate le doglianze degli appellanti in quanto, nel corso del primo giudizio proposto, l’attore aveva saputo dell’esistenza di un testamento del padre solo con la comparsa di risposta del germano, e che pertanto aveva autonomamente proposto un secondo giudizio nel quale aveva espressamente manifestato la volontà di impugnare per lesione di quota di legittima le schede testamentarie redatte dal padre, con le quali era stato designato erede universale il fratello E..

La volontà di spendere la qualità di erede legittimario pretermesso risultava poi manifestata nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, presentata dagli eredi di T.O., nella quale si chiedeva di accertare la simulazione degli atti di compravendita in quanto dissimulanti una donazione, riconoscendosi pertanto che per effetto di tale donazione risultava lesa la loro quota di riserva La spendita della qualità di legittimario trovava poi conforto nell’individuazione in misura pari ad 1/3 dei diritti spettanti agli attori, quota che corrisponde alla quota di legittima e non anche alla più elevata quota ab intestato.

In sede di precisazione delle conclusioni, la richiesta di riduzione delle disposizioni testamentarie del de cuius non costituiva quindi una domanda nuova ma il semplice richiamo a quanto già dedotto nelle precedenti difese.

La sequenza procedimentale consentiva quindi di escludere che fosse maturata una preclusione, atteso che già con il secondo atto di citazione, in epoca di gran lunga anteriore alla maturazione delle preclusioni nel primo giudizio, era stata esplicitamente avanzata la domanda di riduzione.

Quindi, disattesa altresì l’eccezione secondo cui vi fosse stato un giudicato maturato nei confronti di T.D., essendo la stessa una litisconsorte necessaria, la Corte d’appello ravvisava la fondatezza anche della domanda di simulazione.

In primo luogo, rilevava la circostanza che il tutore provvisorio del de cuius non aveva rinvenuto alcuna traccia della somma di circa due miliardi di lire che il padre aveva dichiarato di incassare in occasione della vendita, né poteva spiegare rilevanza ai fini della decisione il riferimento in alcuni olografi ricondotti al de cuius, a debiti pregressi contratti nei confronti del figlio E., debiti che si intendeva estinguere proprio attraverso la vendita di alcuni beni immobili, considerando pertanto come incassato il prezzo delle vendite. Risultava che non era stato versato alcun corrispettivo e che tali atti andavano qualificati come donazioni. Rimessa la causa in istruttoria, la Corte d’appello, con la sentenza definitiva n. 2678 del 19 aprile 2019, prendeva atto delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio e distribuiva i beni caduti nella successione paterna in conformità del progetto redatto dall’ausiliare ufficio, con i conguagli parimenti ivi determinati, compensando integralmente le spese di lite.

Per la cassazione di tali sentenze T.E. ha proposto ricorso per cassazione, articolato su tre motivi, illustrati da memorie.

Resiste con controricorso T.D., quale erede di T.O..

V.A. e T.G., sempre eredi di T.O., non hanno svolto difese in questa fase.

Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 325,326,329, c.p.c., art. 340 c.p.c., comma 2 e art. 342 c.p.c., in quanto, sebbene fosse stata notificata agli eredi dell’originario attore la sentenza definitiva del Tribunale, questi avevano deciso di impugnare solo la precedente sentenza non definitiva, il che imponeva di dichiarare l’inammissibilità dell’appello in tal modo proposto.

Inoltre, è stato erroneamente affermato che, a seguito della riforma della sentenza non definitiva, risulterebbero travolte, anche in assenza di una formale impugnazione, le statuizioni adottate sulle spese di lite nella successiva sentenza definitiva.

Il motivo è infondato.

Come puntualmente ricordato dal giudice di appello, costituisce principio affermato da questa Corte, nella sua più autorevole composizione, quello secondo cui l’ammissibilità dell’appello differito avverso la sentenza non definitiva, nei cui confronti sia stata formulata riserva d’impugnazione, non è subordinata all’ammissibilità dell’appello proposto nei confronti della sentenza definitiva, in quanto il “differimento” delle impugnazioni proponibili nei confronti della sentenza non definitiva e l’onere di proporle “unitamente” a quelle contro le successive sentenze definitive (o non definitive immediatamente impugnate), sono gli unici elementi, formali e sostanziali, di collegamento tra le impugnazioni in questione. (Cass. S.U. n. 331/1996).

Infatti, la parte, la quale abbia formulato la riserva di impugnazione differita di una sentenza non definitiva, non ha l’onere, quando sia sopravvenuta la sentenza definitiva, di impugnare ambedue le sentenze, e ciò sia in ragione della finalità dell’istituto della riserva e dell’impugnazione differita, che è quella di impedire la vanificazione del principio dell’unicità del processo di impugnazione, sia perché all’art. 340 c.p.c., comma 1, e art. 361 c.p.c., comma 1, non prevedono alcun criterio di collegamento – formale o sostanziale – tra le diverse impugnazioni, sia, infine, perché risulta dall’art. 129 disp. att. c.p.c. che la caducazione degli effetti procrastinatori della riserva ed il determinarsi del “dies a quo” per l’impugnazione della sentenza non definitiva non sono ontologicamente connessi alla pronuncia della sentenza definitiva – e “a fortiori” alla sua impugnazione -, ma rimangono esclusivamente ancorati al prodursi di un evento cui l’ordinamento giuridico riconduce quegli effetti (Cass. n. 14193/2016; Cass. n. 9339/2008).

Ne’ è censurabile l’affermazione secondo cui, sebbene la statuizione in tema di spese fosse contenuta nella sentenza definitiva, non formalmente impugnata, la stessa è destinata ad essere travolta dalla riforma della sentenza non definitiva, trattandosi di un’applicazione della regola dell’art. 336 c.p.c., comma 2 in tema di effetto espansivo esterno, in quanto la sentenza definitiva del Tribunale si era limitata a liquidare le spese sulla base della valutazione di soccombenza scaturente, quanto alla successione paterna, dal contenuto della sentenza non definitiva, con la conseguenza che una volta rivalutata tale soccombenza, anche la conseguenziale e dipendente regolamentazione delle spese, sebbene contenuta in una diversa sentenza, è destinata ad essere caducata, dovendo il giudice di appello provvedere ad un’autonoma liquidazione delle spese dell’intero giudizio che tenga conto degli esiti della causa nel merito, a seguito della riforma.

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., comma 6, artt. 554 e 555 c.c..

Si deduce che la Corte d’Appello ha di fatto sanato i vizi di cui erano affetti gli atti di citazione dell’attore, trascurando che anche con il secondo atto di citazione era stata proposta una domanda fondata sulla qualità di erede legittimo, e non di legittimario, ammettendo quindi una domanda di riduzione solo tardivamente avanzata in sede di precisazione delle conclusioni.

Il motivo è infondato.

La sentenza non definitiva impugnata, con una puntuale ricostruzione dei fatti processuali, ha evidenziato che effettivamente con il primo atto di citazione, T.O. avesse chiesto il solo scioglimento della comunione ereditaria paterna, invitando a tenere conto anche delle donazioni asseritamente effettuate dal padre in favore del fratello.

Ha poi sottolineato che, solo con la comparsa di risposta del convenuto, era emersa la circostanza che il de cuius avesse redatto dei testamenti, con i quali lo stesso convenuto era istituito erede universale.

Quindi provvide in data 7/9/2006 (e prima che maturassero le preclusioni ricollegate alla decorrenza dei termini di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, nel primo giudizio), alla notifica di un secondo atto di citazione, nel quale, oltre a riproporsi la questione della simulazione degli atti di vendita effettuati tra padre e figlio, manifestò l’intento di impugnare per lesione della quota di legittima i testamenti redatti dal padre, con i quali era stato designato erede universale il fratello E..

Nella successiva memoria depositata nel secondo giudizio, gli eredi dell’originaria parte attrice hanno poi specificato che l’accertamento della simulazione era funzionale alla domanda di riduzione proposta, atteso che proprio da tale simulazione scaturiva la lesione, unitamente all’avvenuta pretermissione testamentaria.

A conforto del fatto che nel secondo giudizio fosse stata effettivamente proposta un’azione di riduzione, i giudici di appello, pur rimarcando la presenza di alcune incongruenze o errori materiali (in particolare l’utilizzo del termine erede legittimo in luogo di quello più corretto di erede legittimario), hanno sottolineato però che i diritti complessivamente vantati dagli eredi dell’attore erano stati quantificati nella quota di 1/3, e cioè proprio l’ammontare di quanto le norme in tema di successione necessaria riservano al figlio quale legittimario in presenza di un altro figlio (e ciò a differenza di quanto sarebbe spettato in base alle regole della successione ab intestato, e cioè un mezzo).

La censura, quindi, pur se formalmente riferita alla violazione delle regole processuali in tema di preclusioni, si sostanzia però in una critica all’interpretazione della domanda come operata dal giudice di merito, critica che però non può avere seguito in sede di legittimità, trattandosi di attività riservata al giudice di merito e nella specie effettuata in maniera incensurabile, essendo supportata da ampia ed argomentata motivazione, con puntuale riferimento alla scansione ed al contenuto degli atti processuali. E’ stato in particolare rimarcato come il secondo atto di citazione costituisse una subitanea risposta alla scoperta del testamento del de cuius, e che la sua notifica fosse intervenuta ancor prima che nel primo giudizio maturassero le preclusioni in merito alla fissazione del thema decidendum e probandum.

Peraltro, come anche evidenziato in motivazione, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che (Cass. n. 24521/2015) la domanda proposta dall’erede per la riduzione di donazione lesiva di legittima si estende – attesa l’unicità dell’azione ex artt. 554 e 555 c.c. – alla disposizione testamentaria prodotta in corso di causa e prima ignota all’attore, ove dal tenore della domanda risulti che questi voglia comunque conseguire la quota di riserva, con il riconoscimento della necessità di dover modulare le richieste del legittimario alla luce del sopravvenuto quadro processuale.

Sempre in tale ottica, è stato di recente affermato che (Cass. n. 2914/2020) in un giudizio di divisione ereditaria, ove gli attori coeredi chiedano la divisione della massa ereditaria da calcolare a seguito di collazione dei beni donati al coerede convenuto e, in subordine, la riduzione della donazione per lesione della quota di legittima, non può essere considerata nuova, e, pertanto, inammissibile, la domanda subordinata nel caso in cui solo in appello si deduca l’assenza di “relictum” – e, quindi, la loro totale pretermissione – che consentirebbe agli appellanti di proporla senza essere tenuti ad accettare previamente l’eredità con beneficio di inventario, riconoscendosi quindi la possibilità di poter reagire in presenza dell’emersione di un testamento idoneo a delineare la lesione.

Nella specie risulta quindi incensurabile la decisione gravata nella parte in cui, a fronte di un’iniziale domanda di divisione fondata sul presupposto di una successione ab intestato, ha ritenuto tempestiva la successiva proposizione, e con un autonomo atto di citazione, della domanda di riduzione della scheda testamentaria prodotta nel primo giudizio.

Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., degli artt. 752,754, 1988 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Si deduce che la Corte d’Appello ha negato valenza probatoria ai fini della dimostrazione della natura non simulata delle vendite intervenute tra il de cuius ed il ricorrente, a quanto riportato in alcuni olografi allegati, dai quali si ricavava che il defunto era debitore nei confronti del figlio e che quindi il trasferimento degli immobili aveva una causa solutoria.

La Corte d’Appello ha però utilizzato tali olografi ai fini della ricostruzione dell’asse relitto, ma ha negato valenza confessoria alla dichiarazione circa l’esistenza del debito e la giustificazione non liberale del trasferimento.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

E’ infondato nella parte in cui assume che debba attribuirsi necessariamente valore vincolante, anche nei confronti dell’attore e dei suoi aventi causa alla dichiarazione ricognitiva del debito contenuta negli olografi del de cuius.

La giurisprudenza di questa Corte, partendo dalla tradizionale considerazione per cui il legittimario che aggredisca gli atti di liberalità o le disposizioni testamentarie poste in essere dal de cuius, agisce nella qualità di terzo, non potendo quindi subire compromissione da atti pregiudizievoli provenienti dal de cuius, ha, infatti, affermato che (Cass. n. 11737/2013) in tema di successione ereditaria, la dichiarazione del testatore di avere già soddisfatto il legittimario con antecedenti donazioni non è idonea a sottrarre allo stesso la quota di riserva, garantita dalla legge anche contro la volontà del “de cuius”; né tale dichiarazione può essere assimilata ad una confessione stragiudiziale opponibile al legittimario, essendo egli, nell’azione di riduzione, terzo rispetto al testatore (conf. Cass. n. 28785/2018 non massimata).

Analogamente è stato affermato che (Cass. n. 15346/2010) al legittimario pretermesso dall’eredità, che impugna, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, la compravendita immobiliare compiuta dal “de cuius” in quanto dissimulante una donazione, poiché agisce in qualità di terzo, non può opporsi con valore vincolante la dichiarazione relativa al versamento del prezzo, pur contenuta nel rogito notarile, potendo, invece, trarsi elementi di valutazione circa il carattere fittizio del contratto dalla circostanza che il compratore, su cui grava l’onere di provare il pagamento del prezzo, non abbia fornito la relativa dimostrazione.

Esclusa quindi la vincolatività della dichiarazione ricognitiva di debito, ed in parte confessoria, contenuta negli olografi, si palesa l’inammissibilità in altra parte della censura, in quanto denuncia l’omesso esame di un fatto (e cioè le dichiarazioni in esame) che sono state invece considerate in motivazione, ma ritenute inidonee ad incidere sull’apprezzamento della prova della simulazione, e soprattutto mira a contestare il concreto giudizio sulla valenza degli elementi probatori, quale operato dal giudice di merito, che ha ritenuto di dover dare prevalenza agli elementi presuntivi (rapporti di parentela tra le parti della vendita, mancato rinvenimento delle somme asseritamente pagate) che deponevano per la conclusione di una donazione dissimulata, in assenza altresì della dimostrazione aliunde dell’effettiva esistenza di un debito del de cuius vero il figlio.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Nulla a disporre quanto alle parti rimaste intimate.

Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente, al rimborso in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 13.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2022

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