Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.3999 del 08/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – est. Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.K., (codice fiscale *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocata Mariacristina Trivisonno, del Foro di Campobasso, presso il cui domicilio digitale è elettivamente domiciliato all’indirizzo PEC avvmariacristinatrivisonno.cnfpec.it;

– ricorrente –

contro

IL MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. *****), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata in Roma, via del Portoghesi n. 12.

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di Campobasso n. 2355/2019, pubblicato il 23/10/2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16/9/2021 dal Presidente, Dott. Giacomo Travaglino.

La Corte.

PREMESSO IN FATTO

– che il signor A., nato in *****, ha chiesto alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4, ed in particolare:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis);

– che la Commissione Territoriale ha rigettato l’istanza;

– che, avverso tale provvedimento, egli ha proposto, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso dinanzi al Tribunale di, che lo ha rigettato con decreto reso in data;

– che, a sostegno della domanda di riconoscimento delle cd. “protezioni maggiori”, il ricorrente, non comparso personalmente in udienza dinanzi al giudice di primo grado, aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio Paese dove aveva sempre lavorato come autista – per sfuggire alle non più tollerabili pressioni esercitate nei suoi confronti dai suoi creditori che esigevano la restituzione di un prestito da lui contratto per l’acquisto di un’autovettura, con la quale, peraltro, aveva cagionato un serio incidente prima ancora di terminarne il pagamento, e di essere transitato in Libia, dove aveva subito un arresto con conseguente detenzione per alcune settimane;

– che, in via subordinata, aveva poi dedotto l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione umanitaria, in considerazione della propria – oggettiva e grave – condizione di vulnerabilità;

– che il Tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di tutte le forme di protezione internazionale invocate dal ricorrente, alla luce di una motivazione – articolata in complessive 29 righe – che si concludeva nel senso della manifesta infondatezza del ricorso.

– che il provvedimento è stato impugnato per cassazione dall’odierno ricorrente sulla base di 3 motivi di censura;

– che il Ministero dell’interno non si è costituito in termini mediante controricorso.

OSSERVA IN DIRITTO Col primo motivo, si censura il decreto impugnato per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, D.P.R. n. 21 del 2015, art. 6, comma 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e c), ex art. 360 c.p.c., n. 3.

Col secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 (art. 360 c.p.c., n. 3);

Con il terzo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 (art. 360 c.p.c., n. 3).

I motivi sono manifestamente fondati.

Quanto alla denuncia (fin troppo generosa) “di non corretta applicazione dei criteri ermeneutici nella istruzione delle domande di protezione internazionale”, osserva il collegio come, nel caso di specie, oltrepassato il (già censurabile) limite dell’apparenza, la motivazione del decreto impugnato risulta (ancor più censurabilmente) del tutto inesistente.

Questo il suo testuale contenuto:

1) La Commissione territoriale, ragionevolmente, metteva in luce l’assoluta genericità della descrizione degli eventi e la sua estraneità al perimetro della protezione internazionale;

2) La Commissione territoriale concludeva escludendo la presenza dei presupposti: a) D.Lgs. n. 251 del 2008, ex art. 11, in quanto in Ghana non emergevano tensioni civili o conflitti armati… né il richiedente esponeva caratteristiche specifiche e attendibili tali da esporlo sotto tale profilo a differenziato e qualificato rischio; b) D.Lgs. n. 251 del 2008, ex artt. 14-17, in quanto il ricorrente non poteva nutrire alcun fondato timore di essere sottoposto nel suo Paese di origine a condanne a morte, torture o minaccia grave e individuale alla sua vita, non essendovi una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato interno, né specifici elementi personali riscontrabili che dessero adito al timore di ritorsioni personali; c) D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, in quanto, nel caso di specie, il richiedente non risultava affetto da stati patologici di rilievo né presentava specifici caratteri di vulnerabilità tali da far concludere che un rientro nel Paese d’origine lo avrebbe esposto a situazioni umanitarie di particolare complessità tale da giustificare l’applicazione della misura residuale;

3) Il racconto del ricorrente è palesemente portatore delle lacune e incongruenze puntualmente rilevate dalla Commissione e adduce motivi di espatrio totalmente estranei all’area di tutela della P.I.;

4) Non risultano, nel Ghana, da Rapporto Amnesty International 2016-2017, situazioni di particolare tensione politica o di corruzione delle autorità di polizia o di guerra civile.

Premesso che le uniche (benché del tutto irrilevanti, attesane la genericità e apoditticità) argomentazioni fattuali sono riconducibili al (solo) provvedimento della Commissione territoriale, la valutazione della credibilità del ricorrente (totalmente assente nel decreto impugnato, se non, inammissibilmente, in forma di relatio imperfecta) andava condotta secondo i criteri che seguono, e che verranno rigorosamente applicati dal giudice del rinvio:

a) Integra gli estremi dell’errore di diritto, come tale censurabile in sede di legittimità, oltre che una motivazione inesistente (quale quella di specie), tanto una motivazione meramente “di stile” (come quella predicativa, sic et simpliciter, di una pretesa “genericità delle dichiarazioni”, ovvero di “scarsa verosimiglianza delle allegazioni, contraddittorie e intrinsecamente illogiche”) quanto una valutazione del narrato che si sostanzi nella sua acritica scomposizione e nel suo sistematico frazionamento, volto alla ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione stessa, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte inter pares.

b) Funzione del procedimento giurisdizionale di protezione internazionale deve ritenersi quella – del tutto autonoma rispetto alla precedente procedura amministrativa, della quale esso non costituisce in alcun modo prosecuzione impugnatoria – di accertare, secondo criteri legislativamente predeterminati, la sussistenza o meno del diritto al riconoscimento di una delle tre forme di asilo, onde il compito del giudice chiamato alla tutela di diritti fondamentali della persona appare funzionale – anche al di là ed a prescindere da quanto accaduto dinanzi alla Commissione territoriale – alla complessiva raccolta, accurata e qualitativa, delle predette informazioni, nel corso della quale dissonanze e incongruenze, di per se non decisive ai fini del giudizio finale, andranno opportunamente valutate in una dimensione di senso e di significato complessivamente inteso, secondo un criterio di unitarietà argomentativi e non di sistematico frazionamento, logico e sintattico, della narrazione, come confermato dal disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e), a mente del quale, nella valutazione di credibilità, si deve verificare anche se il richiedente “e’, in generale, attendibile”.

c) Il giudizio sulla credibilità del richiedente asilo trova le sue premesse metodologiche nella scelta del metodo di valutazione degli elementi di fatto disponibili (i fatti “indizianti” della prova per presunzioni) e sulla scelta tra un generico modello olistico ovvero un rigoroso metodo analitico.

d) La soluzione più corretta non può che risultare la seconda, atteso che il modello olistico si presterebbe facilmente a sovrapporre alla realtà dei fatti la (sola) loro narrazione, con il rischio che una perfetta coerenza narrativa, pur in ipotesi assolutamente falsa, possa fuorviare il giudice e condurlo ad una decisione ingiusta, mentre il metodo analitico-atomistico si fonda sulla premessa che la base della decisione sia rappresentata dai fatti e soltanto da essi.

e) La valutazione dei fatti secondo il modello analitico segue, peraltro, un percorso logico distinto in due fasi – che ne consente una parziale combinazione con quello olistico – fondate, dapprima, su di un rigoroso esame di ciascun singolo fatto “indiziante” che emerge dal racconto del richiedente asilo (onde eliminare quelli privi di rilevanza rappresentativa e conservare quelli che, valutati singolarmente, offrano un contenuto positivo, quantomeno parziale, sotto il profilo dell’efficacia del ragionamento probatorio), e successivamente, su di una valutazione congiunta, complessiva e globale, di tutti quei fatti, alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente, onde accertare se la loro combinazione, frutto di sintesi logica e non di sola somma aritmetica, possa condurre all’approdo della prova presuntiva del factum probandum – che potrebbe non considerarsi raggiunta attraverso una valutazione atomistica di ciascun indizio (quae singula non possunt, collecta iuvant).

f) Accertata preliminarmente la valenza indicativa di ciascun “fatto indiziante” che emerge dal racconto del ricorrente secondo il modello analitico, si procederà poi all’esame metodologico dell’intera trama fattuale in modo complessivo e unitario, di tal che la possibile ambiguità dimostrativa di ciascun factum probans possa anche risolversi nel necessario significato dimostrativo che consente di ritenere raggiunta la prova logica del factum probandum. Il procedimento mentale da percorrere, per il giudice, è dunque quello della analisi di ciascun elemento di fatto e della sua collocazione e ricomposizione all’interno di un mosaico del quale il singolo indizio (id.e., la singola vicenda narrata) costituisce la singola tessera.

g) Se, considerato isolatamente, ogni frammento dichiarativo può non essere ritenuto sufficiente a pervenire ad un giudizio complessivo di credibilità (rectius, a fondare un parcellare giudizio di non credibilità), è l’insieme intrinseco delle connessioni logico-espositive delle dichiarazioni a formare oggetto di valutazione, che deve risultare complessiva, e non frantumata e/o relativizzata rispetto ad ogni singolo episodio, esaminato ex se in modo del tutto avulso dalla complessa trama narrativa oggetto di esame e di giudizio.

h) Infine, nella valutazione della complessiva credibilità del racconto del richiedente asilo, ove, rispetto ad alcuni dettagli, residuino all’organo giudicante dubbi in parte qua, può trovare legittima applicazione il principio del beneficio del dubbio – contra, non condivisibilmente, Cass. n. 16028 del 2019, che risulta in aperto e forse inconsapevole contrasto con quanto più volte affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di onere della prova: “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (CEDU, R.C. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU, N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU, A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59).

Alla luce di tali criteri, andranno nuovamente valutati i presupposti per l’applicazione della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

Quanto al dovere di cooperazione istruttoria, con riferimento al disposto dell’art. 14, lett. c) del medesimo Decreto, è giurisprudenza consolidata presso questa Corte regolatrice che le COI relative al paese di provenienza del richiedente asilo devono essere attendibili e aggiornate al tempo della decisione, oltre a contenere un esplicito riferimento, sia pur riassuntivo, al relativo contenuto: nella specie, vien indicato un Rapporto risalente al 2016/2017 – e cioè precedente di due anni rispetto alla data della decisione senza alcuna ulteriore indicazione contenutistica.

Pertanto, è fatto obbligo al giudice di rinvio di acquisire COI attendibili e aggiornate, al momento della decisione, in relazione alla situazione de(Ghana con riferimento all’esistenza di conflitti armati o internazionale, del tutto a prescindere dalla situazione personale del richiedente asilo, giusta l’insegnamento della Corte di giustizia (sentenze Diakite’ ed Elgafaji).

Quanto alla domanda di protezione umanitaria – rispetto alla quale il Tribunale non spende una sola parola – correttamente la difesa del ricorrente lamenta l’illegittima omissione di qualsivoglia giudizio comparativo tra la situazione del richiedente asilo in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine, così discostandosi dai principi più volte affermati da questa Corte regolatrice in tema di protezione umanitaria, a mente dei quali, se, per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), deve essere dimostrato che il richiedente asilo abbia subito, o rischi concretamente di subire, atti persecutori come definiti dall’art. 7 (atti sufficientemente gravi per natura o frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti), così che la decisione di accoglimento consegue ad una valutazione prognostica dell’esistenza di un rischio, onde il requisito essenziale per il riconoscimento di tale forma di protezione consiste nel fondato timore di persecuzione, personale e diretta, nel paese di origine del richiedente asilo, alla luce di una violazione individualizzata – e cioè riferibile direttamente e personalmente al richiedente asilo in relazione alla situazione del Paese di provenienza, da compiersi in base al racconto ed alla valutazione di credibilità operata dal giudice di merito, diversa, invece, è la prospettiva dell’organo giurisdizionale in tema di protezione umanitaria, per il riconoscimento della quale è necessaria e sufficiente (anche al di là ed a prescindere dal giudizio di credibilità del racconto) la valutazione comparativa tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e la situazione del Paese di origine, qualora risulti ivi accertata la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità – accertamento che prende le mosse, e non può prescindere, dal dettato costituzionale di cui all’art. 10, comma 3, ove si discorre, significativamente, di impedimento allo straniero dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.

Pur vero che, da questa Corte, è stato ripetutamente affermato il principio (fra le altre, Cass. 4/8/2016 n. 16362) secondo cui il diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 Cost., risulterebbe interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di protezione previste dall’ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria) – con la conseguenza che, al di fuori della “esaustiva normativa” di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, “non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto dell’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione” (Cass. 26/6/2012 n. 10686) – è vero altresì che tale indirizzo deve pur sempre confrontarsi con la norma costituzionale (e con le norme sovranazionali), di rango superiore in sede di interpretazione della legge ordinaria, escludendone l’applicabilità tutte le volte che tale interpretazione si ponga in conflitto con la norma gerarchicamente sovraordinata.

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, pertanto, deve ritenersi necessaria e sufficiente la valutazione dell’esistenza e della comparazione degli indicati presupposti (per tutte, Cass. 8819/2020; Cass. 19337/2021), che non sono condizionati dalla eventuale valutazione negativa di credibilità del ricorrente – o, comunque, dal contenuto della sua narrazione, ove pur ritenuta credibile ma non rilevante ai fini della concessione della misura di protezione invocata. A tal fine, il giudizio comparativo deve volgersi altresì alla compiuta disamina anche della condizione economico-sociale del paese di origine, dovendosi verificare se ivi si sia determinata una situazione dettata, oltre che da ragioni d’instabilità politica od altre cause, anche di assoluta ed inemendabile povertà per alcuni strati della popolazione e di conseguente impossibilità di poter provvedere almeno al proprio sostentamento, dovendosi ritenere configurabile la violazione dei diritti umani, al di sotto del loro nucleo essenziale, anche in questa ipotesi (Cass. n. 12418/2021; n. 16119 del 2020; n. 18443 del 2020);

Il riconoscimento della protezione umanitaria postula – una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto – l’obbligo per il giudice del merito, di cooperare nell’accertamento della situazione reale del Paese di provenienza, mediante l’esercizio di poteri/doveri officiosi d’indagine, ed eventualmente di acquisizione documentale (Cass. n. 28435/2017; Cass. 18535/2017; Cass. 25534/2016). Il dovere di cooperazione trova fondamento nella Direttiva CE 13.12.2011 n. 95 – in cui art. 4, rubricato come “Esame dei fatti e delle circostanze”, prevede al comma 1 che lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda – e nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 – ove si dispone che la decisione su ogni singola domanda deve essere assunta in modo individuale, obiettivo ed imparziale e sulla base di un congruo esame effettuato ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251. In particolare, il comma 3 prevede, riferendosi alla fase amministrativa di esame della domanda, che ciascuna domanda sia esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. Specularmente, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 9, con riferimento alla fase giurisdizionale, prevede che, per la decisione, il giudice si avvalga anche delle informazioni sulla situazione sociopolitico-economica del Paese di provenienza previste dall’art. 8, comma 3 elaborate dalla Commissione Nazionale e rese disponibili all’autorità giudiziaria. A rafforzare tale previsione soccorre, infine, per il giudizio di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, secondo il quale il giudice acquisisce anche d’ufficio le informazioni relative al Paese di origine e alla specifica condizione del richiedente.

Il principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, a mente del quale la Protezione umanitaria, assieme con le due forme di Protezione maggiori, costituisce un plesso normativo unitario, omogeneo ed esaustivo del diritto di asilo costituzionale impone di ritenere che, anche al fine della valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, il giudice sia obbligato ad attivare i suoi poteri istruttori al fine di accertare la situazione e il livello di tutela dei diritti umani fondamentali, per poi formulare, all’esito di tali accertamenti, un necessario giudizio comparativo.

Al fine di ritenere adempiuto tale obbligo officioso, l’organo giurisdizionale è altresì tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019), ma senza incorrere nell’errore di utilizzare le fonti informative che escludano (a torto o a ragione) l’esistenza di un conflitto armato interno o internazionale (rilevanti al solo fine di valutare la domanda di protezione internazione sub specie del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)) – al diverso fine di valutare la situazione del Paese di origine sotto l’aspetto della mancata tutela dei diritti umani e del loro nucleo incomprimibile nel riportare il contenuto dello COI utilizzate per escludere l’esistenza di un conflitto armato.

Va pertanto riaffermato il principio di diritto, cui il giudice di rinvio si atterrà nel riesaminare la domanda di protezione umanitaria, alla luce del quale, secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del suo riconoscimento, occorre operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva, oltre che eventualmente anche soggettiva, del richiedente asilo con riferimento al Paese di origine sub specie della libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza, rilevando a tal fine in modo pregnante l’attività lavorativa svolta, alla luce del recente insegnamento delle sezioni unite di questa stessa Corte (Cass., s.u. n. 24413 del 2021).

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia il procedimento al Tribunale di Campobasso, che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 16 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2022

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