LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Primo Presidente f.f. –
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 29033/2020 proposto da:
C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 12, presso lo studio dell’avvocato VALENTINA CANALE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA GARGANI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;
– controricorrente –
e contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CATANIA, PROCURATORE REGIONALE DELLA CORTE DEI CONTI – SEZIONE GIURISDIZIONALE D’APPELLO PER LA SICILIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 21/A/2020 della CORTE DEI CONTI – SEZIONE GIURISDIZIONALE D’APPELLO PER LA REGIONE SICILIANA PALERMO, depositata il 05/03/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 14/12/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.
FATTO E DIRITTO
ritenuto che la vicenda al vaglio, per quel che qui rileva, può sintetizzarsi nei termini seguenti:
– C.S. venne tratto a giudizio davanti alla Corte dei Conti territorialmente competente per rispondere di danno erariale;
– la Procura regionale contabile della Sicilia addebitava all’incolpato, pubblico docente universitario a tempo pieno, di aver svolto attività libero-professionale e imprenditoriale, in contrasto con il divieto sancito dalla legge;
– la Corte dei Conti sezione giurisdizionale regionale per la Sicilia assolse il convenuto dall’incolpazione, in quanto, a mente del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, il danno erariale avrebbe dovuto corrispondere ai compensi ricevuti dal pubblico impiegato dall’esercizio delle attività vietate e non già equipararsi agli emolumenti percepiti dal docente per l’attività d’insegnamento universitario;
– la decisione di primo grado veniva impugnata dalla Procura regionale contabile;
– la Corte dei Conti d’appello per la regione Sicilia con la sentenza n. 21/A/2020, in parziale accoglimento dell’impugnazione, determinato il danno erariale in Euro 98.466,75, corrispondente all’indennità per il tempo pieno afferente ai tre anni interessati, condannò il C. al pagamento del predetto importo;
– questi, in sintesi gli argomenti decisori del Giudice contabile d’appello:
– occorreva richiamare il principio d’esclusività delle prestazioni lavorative del pubblico dipendente (art. 98 Cost. e D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60, e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7) e, nello specifico, per i docenti universitari, il D.P.R. n. 382 del 1980, art. 11, il quale espressamente divieta in forma assoluto l’espletamento di qualsiasi attività professionale e imprenditoriale per i docenti in regime di tempo pieno e, ancor più nello specifico il decreto n. 5245, 30/12/1998 del Rettore dell’Ateneo catanese;
– il regime di tempo pieno vietava in assoluto lo svolgimento di attività extraistituzionali remunerate, che, pertanto, non potevano neppure autorizzarsi;
– era rimasto provato che il prof. C. aveva svolto varie attività di consulenza, nonché gestioni imprenditoriali (amministratore delegato e poi presidente di una società);
– il Giudice di primo grado, pur avendo riconosciuto che l’incolpato aveva trasgredito il divieto di legge, aveva escluso la condanna alla restituzione dell’intero monte stipendiale per un triennio (questa era la domanda di condanna della Procura erariale) affermando che il danno in concreto addebitabile al C. “avrebbe dovuto essere ricondotto ai compensi ottenuti dal docente per lo svolgimento delle attività extraprofessionali non autorizzate e non certamente agli emolumenti dallo stesso percepiti in costanza di rapporto di lavoro”, ciò in quanto l’attività didattica risultava essere stata regolarmente svolta;
– la sentenza d’appello giudicava non ragionevole che il docente fosse costretto a restituire quanto percepito quale stipendio per l’attività effettivamente svolta, mentre andava, tuttavia, accolta la domanda della Procura contabile limitatamente all’indennità per la docenza a tempo pieno, “atteso che, in relazione a tali specifiche quote, può affermarsi che sia effettivamente venuto meno il rapporto sinallagmatico”, con la conseguenza che la specifica indennità doveva reputarsi priva “di qualsiasi valida giustificazione giuridica e, pertanto, va considerat(a) come danno erariale certo ed attuale”;
ritenuto che C.S. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di due censure, ulteriormente illustrate da memoria e che resiste con controricorso il Procuratore generale presso la Corte dei Conti Sezione giurisdizionale per la Sicilia;
osserva:
1. Il ricorrente, con i due motivi, tra loro correlati, denuncia l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore e all’amministrazione, evidenziando, in breve, quanto segue: il Giudice di primo grado, nel rispetto del principio della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, aveva rigettato la domanda di condanna; quello d’appello, incorrendo nell’ipotizzato eccesso di potere giurisdizionale, aveva “inventato” una sanzione pecuniaria non prevista dalla legge, peraltro, in presenza di un’attività lavorativa regolarmente prestata per tutte le ore previste; semmai, il “quantum” della condanna avrebbe dovuto corrispondere a quanto effettivamente percepito dagli incarichi esterni contestati, sulla base dell’art. 53 del D.Lgs. e del regolamento d’ateneo citati.
2. Il ricorso non supera il vaglio d’ammissibilità.
2.1. Le decisioni del Consiglio di Stato (e, ovviamente, anche della Corte dei Conti), nel rispetto del paradigma di cui dell’art. 111 Cost., u.c., possono essere cassate o per motivi inerenti alla esistenza stessa della giurisdizione, ovvero quando il giudice amministrativo ne oltrepassi, in concreto, i limiti esterni, realizzandosi la prima ipotesi qualora il giudice eserciti la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa (oppure, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale), verificandosi, invece, la seconda ove l’organo di giustizia amministrativa giudichi su materie attribuite alla giurisdizione ordinaria o ad altra e diversa giurisdizione speciale (oppure neghi la propria giurisdizione sull’erroneo presupposto che essa appartenga ad altri), ovvero quando, per materie attribuita alla propria giurisdizione, compia un sindacato di merito pur essendo la propria cognizione rigorosamente limitata alla indagine di legittimità degli atti amministrativi (ex multis, S.U., n. 8117, 29/03/2017, Rv. 643556).
L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore ricorre solo allorquando il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete; l’ipotesi non ricorre quando il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la “voluntas legis” applicabile nel caso concreto, anche mediante il ricorso all’analogia, potendo tale operazione ermeneutica dare luogo, tutt’al più, ad un “error in iudicando” (S.U. n. 21617, 19/9/2017, conf., tra altre, Cass. Sez. U. 12/12/2012, n. 22784; 10/9/2013, n. 20698; 23/12/2014, n. 27341; 31/5/2016, n. 11380; n. 6059, 28/2/2019).
Si rinviene un filone interpretativo di questa Corte, il quale, in una interpretazione evolutiva, aveva reputato configurabile (cfr., ex pluribus, S.U. n. 31226/2017), peraltro in casi che si ponevano al limite estremo, il diniego di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato in presenza di errori in procedendo o in iudicando, di qualificata gravità, che, con particolare a riguardo del diritto unionale, si reputava tracimassero in rifiuto di giustizia, con speciale riguardo alle garanzie di tutela giurisdizionale, alla cui applicazione il giudice interno è tenuto.
Una tale operazione ermeneutica, riguardante il riparto di giurisdizione, è stata categoricamente esclusa dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 6/2018, nella quale si legge: “L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU, non essendo peraltro chiaro, nell’ordinanza di rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o della Corte di Strasburgo. In ogni caso, ancora una volta, viene ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare.
Rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sentenza n. 123 del 2017).
L'”eccesso di potere giudiziario”, denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici.
Il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”.
Attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio e’, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive”.
Successivamente questa Corte di legittimità non ha mostrato scostamenti, anche con specifico riguardo a dedotte violazioni dei principi Eurounitari, da tale autorevole pronunciamento, il quale, peraltro, assume contorni di vincolatività perché volto ad identificare gli ambiti dei poteri attribuiti alle diverse giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti e i limiti del ricorso ex art. 111 Cost., comma 8 (S.U. n. 8311/2019) – cfr., ex multis, S.U. nn. 19244/2021, 15573/2021, 29653/2020, 27770/2020, 25208/2020, 24379/2020, 5589/2020, 34470/2019, 29085/2019, 29082/2019, 22711/2019, 83111/2019, 7926/2019.
Si e’, inoltre, chiarito che l’eccesso di potere giurisdizionale, in relazione al profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal giudice amministrativo, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, divenga strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione, procedendo ad un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia la quale abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (S.U. n. 14264, 24/5/2019, Rv. 654032).
3.2. Nel caso al vaglio l’operazione ermeneutica della Corte contabile d’appello, se, indubbiamente, può prestare il fianco a critiche che ne mettano in luce eventuali profili d’erroneità, che non spetta al Giudice della giurisdizione sindacare, non assume i contorni di un “dictum” autoreferenziale, cioè privo di giustificazione normativa. Trattasi, per vero, di un risultato ermeneutico che, muovendosi dalla previsione normativa che quantifica il danno erariale derivante dallo svolgimento dell’attività lavorativa vietata o, comunque, non autorizzata, nello specifico, determina esso danno in misura corrispondente all’indennità corrisposta per il tempo pieno. Indennità che, proprio a cagione dell’infedele condotta del docente, sarebbe rimasta priva di giustificazione sinallagmatica, quindi non dovuta.
In definitiva, il risultato cui perviene la sentenza impugnata non è sindacabile davanti al Giudice della giurisdizione, stante che l’eventuale errore nel quale fosse incorsa la Corte dei Conti, resterebbe segregato all’interno della giurisdizione.
3. Il Procuratore generale presso la Corte dei Conti ha natura di parte solo in senso formale, sicché è esclusa l’ammissibilità di una pronuncia sulle spese processuali in favore di costui (S.U., n. 5589/2020).
4. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 14 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022