Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.4167 del 09/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28537-2019 proposto da:

CDA CENTRO DISTRIBUZIONE ALIMENTARE SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARNO 38, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA MONCADA, rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE LO GIUDICE;

– ricorrente –

contro

COMUNE di SAN COLOMBANO AL LAMBRO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso lo studio dell’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABRIZIO TOMASELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1956/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 06/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 24/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CATALDI MICHELE.

RILEVATO

che:

1. La C.D.A., Centro Distribuzione Alimentare, s.r.l. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza n. 1956/01/2019, depositata il 6 maggio 2019, con la quale la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato il suo appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva rigettato i suoi ricorsi riuniti contro due avvisi di accertamento emessi, in materia di Imu, per gli anni d’imposta 2004 e 2005, dal Comune di San Colombano al Lambro.

Il Comune si è costituito con controricorso.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.

Ambedue le parti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente occorre prendere in considerazione l’esplicita istanza di oscuramento dati avanzata dal liquidatore della società di capitali ricorrente e dal difensore della stessa, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

Entrambe le istanze vanno rigettate, per le seguenti ragioni.

E’ innanzitutto necessario affrontare il profilo della legittimazione alla proposizione dell’istanza.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, legittima alla proposizione dell’istanza la sola persona dell'”interessato”.

Al fine di circoscrivere il significato di tale espressione, è innanzitutto opportuno richiamare i precedenti giurisprudenziali che hanno trattato tale questione.

Questa Corte infatti già in passato ha rilevato che “nel contesto del detto decreto legislativo” essa, “secondo la espressa formulazione della norma dell’art. 4, comma 1, lett. i)” va intesa come “la persona fisica cui si riferiscono i dati personali” (Cass., Sez. 1, 13/06/2017, n. 14685).

Infatti “la disposizione di cui all’art. 4, comma 1, lett. i), se nella originaria formulazione includeva non solo la persona fisica, ma anche la persona giuridica, l’ente o l’associazione cui si riferivano i dati personali, coincidendo il concetto di “dato personale” di cui alla lett. b) del medesimo articolo con “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”, a decorrere dal 6/12/2011, in forza della novella del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, ex art. 40, include solo la persona fisica, cui si riferiscono i dati personali, coincidendo il modificato concetto di “dato personale” di cui all’art. 4, lett. b), con “qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Questa diversa ampiezza del termine “dato personale” orienta anche la lettura dei concetti di “dati identificativi” di cui all’art. 4, lett. c), quali “dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato” e di “dati sensibili” di cui all’art. 4, lett. d), quali “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” (v. ora Reg. (UE) n. 679 del 2016, art. 9)” (Cass. civ. sez. trib., 07/08/2020, n. 16807).

Pertanto l’istanza, ove la si voglia intendere come presentata dal liquidatore in nome e per conto della società in liquidazione, va respinta per difetto di legittimazione, provenendo da una persona giuridica e non da una persona fisica.

Analoga carenza di legittimazione sussiste per l’istanza proveniente dal difensore della società ricorrente e dal liquidatore di quest’ultima, ove si voglia intendere che egli l’abbia presentata in nome e per conto proprio e non nella qualità di organo della s.r.l.

Va infatti rilevato che il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, comma 5, espressamente contempla un’ipotesi nella quale debba disporsi l’oscuramento dei dati personali di soggetti terzi rispetto al giudizio. In particolare, si tratta dei “dati… anche relativi a terzi” dai quali possa “desumersi anche indirettamente l’identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone”. Poiché il legislatore espressamente individua un’ipotesi nella quale anche i dati di soggetti terzi rispetto al giudizio possano essere oscurati, si deve dedurre, a contrariis, che laddove il legislatore non abbia previsto tale eventualità i terzi non siano legittimati a proporre la relativa istanza.

Con particolare riguardo alla posizione del difensore della parte, tale soluzione è confortata anche dalla lettura delle “Linee guida in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica” emanate dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in data 2 dicembre 2010. Ivi, infatti, vengono contemplati ulteriori soggetti che, pur non rivestendo la qualità di parti nel processo, vi siano coinvolti, e che in ragione di tale coinvolgimento possano avere interesse a vedere oscurati i propri dati personali: si tratta, in particolare, di coloro i quali, nel processo, abbiano assunto le vesti di testimone e consulente. E’ significativo che nel dettare le linee guida non si sia espressamente considerato, tra i soggetti legittimati a proporre l’istanza, anche il difensore della parte, sebbene tale figura abbia un ruolo processuale più pregnante rispetto a quello che contraddistingue il consulente.

Tanto premesso, deve poi aggiungersi che comunque, anche qualora si dovesse ritenere sussistente, in capo ai soggetti istanti, la legittimazione alla proposizione dell’istanza, quest’ultima dovrebbe essere rigettata, in quanto infondata.

Infatti, la richiesta di oscuramento è motivata in primo luogo sul rilievo che “la pubblicazione di sentenza negativa”… “porta ex se conseguenze negative sui vari aspetti della vita sociale e di relazione degli interessati, andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza” e, in secondo luogo, che “il mancato anonimato” avrebbe “un riflesso diretto sulla reputazione professionale con riguardo alla perdita della fiducia e della stima da parte delle persone con cui gli interessati entrano in contatto o interagiscono nel loro ambiente di lavoro”.

E’ dunque necessario verificare se le circostanze addotte dagli istanti possano costituire motivi legittimi, atti a fondare la richiesta.

Infatti, di per sé sola la materia oggetto del contendere, relativa alla debenza dell’Imu, non è atta a fondare l’istanza, non potendo definirsi “sensibile” e, come tale, assoggettata al particolare e cogente regime di tutela della riservatezza delle parti in causa (cfr Cass., Sez. 5, 29/03/2019, n. 8829, che, in materia di Ici, assimilabile, per quanto qui interessa, all’Imu, ha enunciato analogo principio).

Per quanto attiene alla nozione di “motivi legittimi”, la giurisprudenza di questa Corte in passato ha rilevato che la definizione utilizzata dal legislatore “per certo non felice, abbisogna di un’opportuna interpretazione”, nell’ambito della quale “va innanzitutto escluso che l’espressione possa essere intesa nell’accezione di “motivi normativi”: in tal senso depone sia la clausola di riserva che figura nell’incipit del citato articolo di legge (“Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado…”), sia il ricorso ad elementari criteri esegetici, in ragione dell’evidente superfluità di una disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto già previsto da altre norme” (Cass. pen. sez. VI – 15/02/2017, n. 11959).

Si è dunque rilevato che “per dare un significato compiuto all’espressione che ne occupa – che, ovviamente, non può neppure discendere da un’interpretazione a contrario, non potendosi ammettere l’esito positivo di una richiesta di oscuramento dati per motivi illegittimi – non resta che apprezzarla come sinonimo di “motivi opportuni”: donde la particolare ampiezza, opportunamente non predeterminata dal legislatore all’interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono essere addotte a sostegno della richiesta che qui interessa, fermo restando che l’accoglimento della richiesta medesima interverrà ogniqualvolta l’A.G. ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un necessitato corollario del principio costituzionale dell’amministrazione della giustizia in nome del popolo. Questa conclusione è confortata anche dalle indicazioni che si rinvengono nelle linee guida dettate dal Garante della privacy il 2 dicembre 2010, “in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica”, pubblicate sulla G.U. n. 2 del 4 gennaio 2011, in cui al punto 3., con specifico riferimento alla c.d. “procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali” di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, commi da 1 a 4, si indicano possibili “motivi legittimi”, in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre I’A.G. a provvedere d’ufficio), nella “particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)”, ovvero nella “delicatezza della vicenda oggetto del giudizio”” (Cass. civ. sez. trib., 07/08/2020, n. 16807).

Per quanto attiene ai “dati sensibili”, va rilevato che la loro individuazione si ricava direttamente dalla legge – che, con il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d), li definisce come “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

Nel caso di specie, non si rinvengono nella sentenza dati di tale natura.

Quanto al diverso profilo della “delicatezza” della vicenda per cui è processo, la giurisprudenza di questa Corte ha osservato che “l’estrema latitudine del sostantivo” necessita “di essere riempita di contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi, di riverberare – come osserva lo stesso Garante – “negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo)”, così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo – si pensi, tipicamente, a fatti riguardanti vessazioni in ambito familiare” (Cass. pen. sez. VI – 15/02/2017, n. 11959). Ciò implica che l’istanza non possa limitarsi ad un generico riferimento all’incidenza negativa, sulla sfera personale dell’interessato, del mancato oscuramento dei dati, ma debba riferire le specifiche e peculiari circostanze del caso concreto, che rendano evidenti le ragioni di opportunità dell’anonimizzazione.

A tal riguardo, la giurisprudenza di questa Corte in passato ha ritenuto insufficienti, al fine di fondare l’accoglimento dell’istanza di oscuramento, il generico riferimento al danno reputazionale (Cass. pen. sez. II – 23/05/2018, n. 29248) ovvero un richiamo non adeguatamente circostanziato all’incidenza negativa sulla sfera lavorativa degli interessati (Cass. pen. sez. VI – 15/02/2017, n. 11959).

Nel caso di specie, l’istanza non può quindi essere accolta.

Essa infatti è motivata in modo assolutamente generico, sulla base di un mero ed indistinto interesse alla riservatezza tout court e sul rilievo, altrettanto generico, che la riferibilità della sentenza agli interessati avrebbe un’incidenza negativa sulla loro sfera professionale, senza che sia meglio specificata tale paventata relazione eziologica.

2. Con il primo motivo la contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della “L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, e degli artt. 139 e 156 c.p.c.”.

Assume la ricorrente che il giudice a quo, non accogliendo il relativo motivo d’appello, ha erroneamente escluso la nullità della notifica alla stessa contribuente degli avvisi d’accertamento, avvenuta, a mezzo del messo comunale, nelle mani del portiere dello stabile dove risiedeva il legale rappresentante della società, senza che sia stata prodotta in giudizio la relativa raccomandata informativa, diretta al destinatario, dell’avvenuta consegna dell’atto da notificare e senza che il notificatore abbia dato atto, nelle relate di notifica, oltre che dell’assenza del destinatario, anche delle vane ricerche delle altre persone abilitate a ricevere la consegna, nell’ordine preferenziale tassativamente indicato dall’art. 139 c.p.c.

Tali violazioni sarebbero infatti causa, secondo la ricorrente, della nullità insanabile delle notifiche degli avvisi controversi.

3.Con il secondo motivo la contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della “L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, e degli artt. 148 e 156 c.p.c.”.

Assume la ricorrente che il giudice a quo, non accogliendo il relativo motivo d’appello, ha erroneamente escluso l’inesistenza, insanabile, delle predette notifiche degli avvisi d’accertamento, a causa della mancata indicazione, nelle relative relate, del nominativo della persona fisica che le ha eseguite nelle funzioni di notificatore, che si è firmato quale “Il sottoscritto messo comunale di Agrigento”, apponendo una sigla illeggibile, con conseguente difetto anche della sua sottoscrizione.

I due motivi, strettamente connessi, vanno trattati congiuntamente e, come eccepito dall’ente territoriale controricorrente, sono entrambi inammissibili.

Invero, costituisce un dato univocamente evincibile dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso che la contribuente ha proposto tempestivo ricorso, dinnanzi la CTP, avverso ambedue gli avvisi di accertamento, peraltro censurandone la legittimità anche sotto profili diversi da quelli relativi alle pretese invalidità delle loro notifiche. Tra tali ragioni di censura non risulta – né dalla sentenza, né dal ricorso- che la contribuente abbia eccepito la decadenza dell’Amministrazione dalla potestà di accertamento ed impositiva. E, comunque, dagli stessi atti non emerge che la contribuente abbia proposto, o riproposto, tale eccezione in sede di appello.

Tanto premesso, come eccepito dalla controricorrente, secondo questa Corte “La natura sostanziale e non processuale (né assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio del potere di accertamento.” (Cass., Sez. U., Sentenza n. 19854 del 05/10/2004).

Sulla scorta di tale arresto, si è poi ritenuto che “La notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo. (Nella specie, per essere stato l’atto impugnato dal destinatario in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo).” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 654 del 15/01/2014; conformi Cass., Sez. 5, Sentenza n. 5057 del 13/03/2015).

Nel contesto di tale orientamento, neppure la notifica dell’accertamento che dovesse qualificarsi come inesistente si sottrae alla sanatoria per conseguimento dello scopo di portare l’atto impositivo nella piena conoscenza del destinatario, palesata inequivocabilmente dall’impugnazione dell’accertamento stesso: “In tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicché la sua inesistenza o invalidità non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria, su cui grava il relativo onere probatorio.” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 8374 del 24/04/2015; conformi Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2203 del 30/01/2018; Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21071 del 24/08/2018).

A fronte pertanto di tale indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale tanto l’eventuale nullità, quanto la stessa ipotetica inesistenza della notifica dell’atto impositivo non sono di per sé sole causa di invalidità di quest’ultimo e sono sanate dalla sua impugnazione, la ricorrente, che non ha dedotto di aver eccepito la decadenza dell’amministrazione dalla potestà impositiva e che ha tempestivamente impugnato gli atti con i quali essa è stata esercitata nel caso di specie, non ha quindi evidenziato nessun apprezzabile interesse a rimettere in questa sede in discussione i pretesi vizi delle notifiche dei due accertamenti.

Fermo tutto quanto premesso, va peraltro rilevato, quanto al primo motivo, che comunque la circostanza che nella relazione di notificazione non vi fosse l’attestazione del tentativo di consegna alle altre persone preferenzialmente indicate dalla norma integrerebbe, in ipotesi, una causa di nullità, sanabile per raggiungimento dello scopo, e non di inesistenza, della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata mediante consegna al portiere dello stabile, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 19795 del 09/08/2017; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018).

Egualmente, sarebbe causa di nullità sanabile per raggiungimento dello scopo, e non di inesistenza, l’eventuale omessa esibizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata informativa che va inviata nell’ipotesi di consegna dell’atto a mezzo del servizio postale non effettuata direttamente al destinatario (Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 11051 del 09/05/2018).

Va poi aggiunto, quanto al secondo motivo, che la CTR, con giudizio di fatto insindacabile in questa sede, ha dato comunque atto che le relate recavano i timbri dell’ufficio messi del Comune di Agrigento e la sottoscrizione del notificatore, con la spendita della relativa qualità.

Peraltro, come questa Corte ha già ritenuto, “la nullità di un atto non dipende dalla illeggibilità della firma di chi si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, ma dall’impossibilità oggettiva di individuare l’identità del firmatario, senza che rilevi la soggettiva ignoranza di alcuni circa l’identità dell’autore dell’atto, con la conseguenza che, nel caso di sottoscrizione illeggibile della relata di notificazione di un avviso di accertamento, spetta al contribuente, superando la presunzione che il sottoscrittore aveva il potere di apporre la firma, dimostrare la non autenticità della sottoscrizione o l’insussistenza della qualità indicata (o comunque del potere esercitato), con la conseguenza che, in assenza di una tale dimostrazione (nella specie mancante), va escluso il vizio di nullità (e a maggior ragione di inesistenza) della notificazione (v. cass. n. 16407 del 2003).” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 9036 del 2015, in motivazione; conforme Cass., Sez. 5, Sentenza n. 7838 del 17/04/2015; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 16407 del 03/11/2003).

Nulla, nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto di aver allegato e provato per vincere la predetta presunzione.

Sono pertanto comunque anche infondati, nel merito, i due motivi di ricorso (dei quali è stata già rilevata l’inammissibilità), avendo correttamente la CTR escluso l’inesistenza delle predette notifiche e ritenuto che, ove pure esse fossero nulle, l’avvenuta impugnazione degli atti impositivi notificati ne avrebbe comunque sanato ogni assunta invalidità.

2. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.900,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022

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