Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.4808 del 15/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12006/2015 R.G. proposto da:

B.T., B.A., B.F. e D.L., nella loro qualità di eredi del sig. B.S., tutti con l’avv. Antonio Arturi e con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Mauro Francesco in Roma, alla via Di Vigna Murata n. 1;

– ricorrenti

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Calabria, Catanzaro, n. 2070/02/14 pronunciata il 16 ottobre 2014 e depositata il 06 novembre 2014, non notificata;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09 luglio 2021 dal Cons. Marcello M. Fracanzani.

RILEVATO

1. Il sig. B.S. era attinto da un avviso di accertamento con cui l’Ufficio rideterminava il reddito sulla scorta degli studi di settore, così accertando maggiori imposte Iperf, Iva e Irap, addizionale regionale Irpef, oltre interessi e sanzioni per l’anno d’imposta 2004.

2. Il contribuente adiva pertanto il giudice di prossimità, ivi lamentando sia il difetto di motivazione sia la circostanza che l’Ufficio avesse aderito acriticamente alle risultanze degli studi di settore senza vagliare adeguatamente le argomentazioni dallo stesso addotte, in primis le critiche condizioni di salute in cui egli versava e che avevano inciso significativamente sulla sua capacità professionale e, conseguentemente, sul reddito effettivamente conseguito.

3. Le doglianze del ricorrente, accolte dalla Commissione tributaria provinciale, venivano invece respinte dalla Commissione tributaria regionale, che si esprimeva in favore dell’Ufficio.

4. Invocano la cassazione della sentenza gli eredi del contribuente, medio tempore deceduto, svolgendo due motivi di ricorso. Rimane intimata l’Amministrazione finanziaria.

CONSIDERATO

1. Per ragioni di priorità logica occorre prendere le mosse dal secondo motivo.

1.1 Ivi i ricorrenti prospettano la nullità della sentenza per violazione o falsa applicazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c. in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. In particolare, la parte ricorrente denunzia la nullità della sentenza per difetto degli elementi di cui di al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 a partire dalla motivazione che non darebbe conto dei motivi di fatto e di diritto ad essa sottesi.

Il motivo è infondato.

2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte “si è in presenza di una “motivazione apparente” allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché costituita da argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella perplessa e incomprensibile: in entrambi i casi, invero – e purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione (cfr. Sez. 1, 18 giugno 2018 n. 16057; Sez. 6-5, 7 aprile 2017 n. 9097; Sez. U 3 novembre 2016 n. 22232; Sez. U 5 agosto 2016 n. 16599; Sez. U 7 aprile 2014, n. 8053 ed ancora Cass. n. 4891 del 2000; n. 1756 e n. 24985 del 2006; n. 11880 del 2007; n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009).

2.1 Nella fattispecie, va certamente esclusa la configurabilità del suddetto vizio in quanto il giudice d’appello ha compiutamente illustrato le ragioni in fatto ed in diritto per cui ha inteso riformare la decisione di primo grado. Invero, dalla lettura della sentenza si evince chiaramente come il Collegio abbia offerto una sintesi del giudizio di primo grado, del quale riporta le posizioni delle parti e la sentenza impugnata. Nella parte dedicata alle ragioni della decisione la CTR ha proseguito dando atto dei motivi di fatto e diritto per cui ha ritenuto di discostarsi dalla decisione di primo grado. Richiamando l’entità dello scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili, sì da rendere antieconomica l’attività, ha richiamato poi la natura semplice delle presunzioni connesse agli studi di settore, non “superate” dalle prove offerte dal contribuente, in primis l’infermità che lo aveva afflitto e che era comunque stata compensata dall’ausilio di un operazioni specializzato. La CTR ha dunque espresso il suo ragionamento logico-giuridico che ha sostanzialmente basato sull’onere probatorio, non assolto dal contribuente. La sentenza contiene dunque tutti gli elementi costitutivi minimi, ivi compresa la sua motivazione.

Il motivo va dunque rigettato.

3. Con la prima doglianza i contribuenti lamentano la violazione o falsa applicazione della norma di diritto L. 427 del 1993 e ss.mm.ii., artt. 62 bis e 62 sexies.

3.1 I ricorrenti criticano la sentenza nella parte in cui la CTR ha ritenuto di accogliere l’appello dell’Ufficio ritenendo che il contribuente non avesse vinto la presunzione semplice offerta dagli studi di settore. Richiamando i principi resi da questa Corte con la sentenza resa a Sezioni Unite n. 26639 del 18.12.2009, affermano che gli studi di settore non troverebbero applicazione ad libitum ed ancor meno in caso di prove contrarie fornite dal contribuente, che nel caso di specie aveva dimostrato anche il proprio cagionevole stato di salute. Soggiungono altresì che l’Ufficio non avrebbe documentato l’occultamento del maggior reddito, essendosi di fatto limitato a rideterminarlo nella misura minima.

La censura è infondata.

4. Occorre premettere che la parte ricorrente non ha esplicitato in che termini ha inteso articolare la loro censura, non avendo declinato alcuna delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.. Dalla lettura del motivo è però facilmente evincibile la sua proposizione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.1 Ciò premesso, “Secondo una costante giurisprudenza di questa Corte, ricorre il travisamento della prova – che non impinge in una valutazione dei fatti – nel caso in cui si accerti che un’informazione probatoria, utilizzata dal giudice ai fini della decisione, è contraddetta da uno specifico atto processuale, così che, a differenza del travisamento del fatto, può essere fatto valere mediante ricorso per cassazione, ove incida su un punto decisivo della controversia (Cass., Sez. III, 21 gennaio 2020, n. 1163), come nel caso in cui l’informazione probatoria sia stata acquisita e non valutata (Cass., Sez. I, 14 febbraio 2020, n. 3796; Cass., Sez. I, 25 maggio 2015, n. 10749). La fattispecie ricorre laddove venga accertato che una informazione probatoria, utilizzata dal giudice, è contraddetta da uno specifico atto processuale incidente su un punto decisivo della controversia (Cass., Sez. I, 14 febbraio 2020, n. 3796; Cass., Sez. III, 21 gennaio 2020, n. 1163; Cass., Sez. I, 25 maggio 2015, n. 10749). Si tratta di fattispecie affatto differente dall’errore di valutazione in cui potrebbe incorrere il giudice del merito – il quale investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare, non censurabile in sede di legittimità – che impinge nell’errore di percezione, da parte del giudice del merito, sulla ricognizione del contenuto oggettivo di un documento, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti. Tale errore è sindacabile in sede di legittimità a termini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 115 c.p.c., essendo fatto divieto di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass., Sez. Lav., 24 ottobre 2018, n. 27033) o, comunque, in contrasto con quanto risulti dagli atti del processo, in quanto frutto di una falsa percezione della realtà o in una svista materiale che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso, oppure l’inesistenza di un fatto positivamente accertato dagli atti o documenti di causa. Diversamente, ove l’errore riguardi un fatto “non controverso”, è esperibile il rimedio della revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass., Sez. Lav., 3 novembre 2020, n. 24395; Cass. Sez. III, 12 aprile 2017, n. 9356). Come è stato efficacemente osservato, “l’errore di percezione è quello che cade sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, ovvero sul demonstratum e non sul demonstrandum (…) altro è ricostruire il valore probatorio di un fatto od atto (attività di valutazione), altro è individuarne il contenuto oggettivo (attività di percezione)” (Cass., n. 9356/2017, cit.; conf. Cass., Sez. VI, 26 novembre 2020, n. 27039)” (Cfr. Cass., V, n. 7670/2021). Si è dunque chiarito che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012" (Cass., sez. 3, 12 ottobre 2017, n. 23940).

4.2 Tanto premesso, la prima censura sconta un profilo di inammissibilità, essendo protesa a chiedere a questa Corte una rivalutazione delle risultanze istruttorie, inammissibile in sede di legittimità.

In ogni caso, la censura è infondata.

5. Il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità ha affermato “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano stati disattesi. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.” (Cass. sez. un. 18/12/2009, n. 26635). In tale sede, invero, è il contribuente che ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards” (così Cass. VI-5, n. 13056/2012 che riprende Cass. n. 10778/2011, recentemente Cass. V, n. 13908/2018).

5.1 Nella fattispecie in esame la CTR ha fatto buon governo dei principi sopra richiamati, avendo accertato che l’Ufficio aveva valutato sia lo scostamento accertato tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, non contestato nel suo valore numerico dai contribuenti, sia la circostanza di fatto che il contribuente non aveva frapposto le prove contrarie ammesse dalla legge, quanto altre e diverse argomentazioni quali il cagionevole stato di salute del contribuente, peraltro recepite favorevolmente dall’Ufficio a seguito del contraddittorio condotto tanto da aver adottato l’atto impositivi ai valori minimi.

5.2 In altri termini, a seguito del contraddittorio, si è nell’ambito di presunzioni semplici riguardo a maggiori ricavi non dichiarati che la CTR, con accertamento in fatto non impugnato nei limiti consentiti dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5, ha ritenuto non superate dagli elementi di prova contrari addotti dal contribuente.

Il motivo è pertanto infondato e va disatteso.

6. In conclusione il ricorso va rigettato.

Non vi è luogo a pronunciare sulle spese, in assenza di attività difensiva dell’Amministrazione finanziaria.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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