Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.4818 del 15/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso n. 16381-2015 R.G., proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. *****, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– Ricorrente –

contro

SO.E.CO. srl, C.F. *****, elettivamente domiciliato in Roma, alla via Pompeo Magno, 23/A, presso lo studio dell’avv. Carlo Comande’, rappresentata e difesa dall’avv. Emilio Amoroso;

– Controricorrente –

Avverso la sentenza n. 191/29/2015 della Commissione tributaria regionale della Sicilia, depositata il 21.01.2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 13 ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI.

PREMESSO che:

A seguito di verifica e processo verbale di constatazione redatto dalla GdF di Agrigento alla SICEDIL s.r.l., l’Agenzia delle entrate notificò alla SO.E.CO. s.r.l. l’avviso di accertamento con cui, rideterminandone il reddito relativo all’anno 2004, fu recuperato maggiore imponibile ai fini Iva, Ires e Irap. L’atto impositivo trovava fondamento nella contestazione di emissione di fatture per operazioni inesistenti.

La società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Agrigento. Tra i motivi eccepì la decadenza dell’ufficio dal potere impositivo, la prescrizione dei reati riconducibili ai fatti di causa. Con sentenza n. 326/04/2013, il giudice di primo grado rigettò il ricorso della società. Nel successivo giudizio d’appello, introdotto dalla contribuente, la Commissione tributaria regionale della Sicilia, con sentenza n. 191/29/2015, depositata il 21 gennaio 2015, accolse le ragioni della società, annullando l’avviso di accertamento. Il giudice regionale ha affermato che il raddoppio dei termini per l’esercizio del potere impositivo, previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, (ratione temporis vigente), richieda la sussistenza di violazioni fiscali penalmente rilevanti in riferimento al D.L. n. 74 del 2000, per le quali insorga l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., senza però che sia necessaria la proposizione della denuncia medesima. Quindi ha escluso l’applicabilità del raddoppio dei termini in materia di Irap. Ha infine ritenuto che, con riguardo alle contestazioni complessivamente sollevate alla contribuente ai fini Irap, Iva e Ires, l’avviso di accertamento fosse stato notificato solo nel 2012 rispetto a fatti relativi all’anno 2004, quando l’Amministrazione finanziaria era decaduta dal potere impositivo. In riforma della pronuncia di primo grado, ha pertanto accolto integralmente il ricorso introduttivo della società.

L’Agenzia delle entrate con due motivi ha censurato la sentenza, di cui ha chiesto la cassazione. Ha resistito con controricorso la parte contribuente.

Nell’adunanza camerale del 13 ottobre 2021 la causa è stata discussa e decisa.

CONSIDERATO

che:

L’Agenzia delle entrate ha denunciato:

con il primo motivo la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa motivazione in ordine alla inapplicabilità del raddoppio dei termini d’accertamento, come previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, ratione temporis vigente, in riferimento all’Iva e all’Ires;

con il secondo motivo la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, come modificato ed integrato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 24, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver sostenuto l’inapplicabilità della disciplina relativa al raddoppio dei termini d’accertamento in materia di Irap.

Esaminando il primo motivo, esso trova accoglimento.

L’Agenzia delle entrate sostiene la nullità della pronuncia del giudice regionale perché, dopo aver correttamente riportato i principi applicabili in tema di raddoppio dei termini di accertamento, previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, la Commissione ha annullato l’avviso di accertamento relativamente all’Iva ed all’Ires, senza dare motivazione sul punto.

Questa Corte, con arresti anche recenti, ha rilevato che il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, integrando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, ha previsto che, per le ipotesi in cui la violazione fiscale comporti obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento raddoppiano relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione. Il D.L. n. 223 cit., art. 37, comma 25, ha introdotto analoga disposizione in materia di Iva, con modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.

Sono queste le disposizioni applicabili al caso di specie, benché esso sia relativo al 2004, cioè ad un periodo di imposta antecedente l’entrata in vigore delle richiamate disposizioni. Ciò in quanto, ai sensi del D.L. citato, art. 37, comma 26, il raddoppio dei termini si applica dal periodo d’imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del decreto legge, siano ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento, riferendosi l’atto impositivo all’anno di imposta 2004. Deve invece escludersi l’applicabilità delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 2, commi 1 e 2, che ha circoscritto il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali solo ai casi in cui la denuncia sia stata effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento; nonché quelle introdotte dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi 130, 131 e 132, con cui infine è stata soppressa la disciplina relativa al raddoppio dei termini ordinari.

Quanto alla prima modifica, in virtù dell’apposita norma di salvaguardia prevista dal D.Lgs. n. 128 cit., art. 2, la stessa non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015, quale quella per cui è causa (notifica del 19.04.2012). Quanto alla seconda, il regime transitorio previsto dalla L. n. 208 cit. per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal secondo periodo del comma 132, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’Amministrazione Finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma 132 – riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni) entro il 2 settembre 2015, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 3 comma 2, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto (cfr. Cass., 14 maggio 2018, n. 11620; 16 dicembre 2016, n. 26037; 9 agosto 2016, n. 16728).

Individuata la disciplina applicabile al caso di specie, il raddoppio dei termini derivava dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non fosse proseguita o che fosse intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (cfr. Cass., 13 settembre 2018, n. 22337; 30 maggio 2016, n. 11171).

Il principio trova riscontro nella sentenza 20 luglio 2011, n. 247, della Corte Costituzionale, secondo cui l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento” (cfr. anche Cass., 30 ottobre 2018, n. 27629).

Il raddoppio infatti attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini raddoppiati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, come tali operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, senza che all’Ufficio sia riservato alcun margine di discrezionalità per la loro applicazione. Non vi è obbligo pertanto neppure di esternare le ragioni in base alle quali l’Agenzia ritenga operante il raddoppio del termine, esulando l’applicazione da scelte discrezionali. Di conseguenza l’atto impositivo non deve contenere una specifica motivazione sul punto, in quanto l’onere motivazionale previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, afferisce all’an ed al quantum della pretesa tributaria e a delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio nell’eventuale successiva fase contenziosa (cfr. Cass. 7 maggio 2014, n. 9810; Cass. 10 giugno 2009, n. 13335).

Perimetrato l’ambito applicativo della disciplina, nella sentenza impugnata la Commissione regionale, dopo aver dato correttamente atto dei suddetti principi, all’esito dell’esame della fattispecie relativa all’Irap, ha ritenuto di escludere l’applicazione del raddoppio dei termini non solo con riguardo a quest’ultima imposta, ma anche con riferimento alla rideterminazione dell’Ires e dell’Iva, annullando integralmente l’atto impositivo.

Si tratta con evidenza di una decisione non supportata da alcuna motivazione, mancando di un requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, e inoltre per porsi, quel dispositivo, in irriducibile contraddizione con il ragionamento articolato in precedenza in merito agli approdi ermeneutici sulla normativa regolante il raddoppio dei termini. E ciò vale anche considerando il passaggio del primo capoverso della sesta pagina della sentenza, ove si afferma che “La documentazione agli atti esclude categoricamente l’ipotesi del raddoppio sopra dedotto e fa accogliere il motivo d’appello in tal senso proposto dalla contribuente”. Si tratta infatti di una frase del tutto oscura e in contrasto con le premesse del ragionamento stesso, non consentendo in alcun modo di comprendere il perché, pur con tutti i presupposti per l’applicazione della disciplina del raddoppio dei termini, questi sarebbero stati inapplicabili al caso di specie. La sentenza è dunque nulla sul punto, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4.

Il secondo motivo non trova invece accoglimento. Con esso l’Agenzia delle entrate sostiene che il raddoppio dei termini trovi applicazione anche in tema di Irap ed errata sarebbe stata dunque la sentenza pronunciata dalla Commissione regionale sicula nel dichiarare decaduta l’Amministrazione finanziaria dal potere accertativo ed impositivo in materia di Irap. A supporto delle ragioni della seconda censura assume che il D.P.R. n. 600 cit., art. 43, comma 3, sarebbe stato aggiunto successivamente alla introduzione dell’imposta, e che l’art. 43 cit., in materia di accertamento, non rientra tra quelle norme che il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, esclude espressamente dalla applicabilità all’Irap.

Il motivo è infondato perché la ricorrente non tiene conto della circostanza che il raddoppio dei termini, previsto dall’art. 43 cit. non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali (Cass., 3 maggio 2018, n. 10483; 24 febbraio 2020, n. 4742). Ciò è sufficiente ad escludere quella disciplina, mancando per il tributo il presupposto essenziale del raddoppio dei termini di accertamento, ossia la previsione di reati per l’ipotesi di violazione delle norme in tema di Irap, a differenza di quanto la L. n. 74 del 2000 prevede in materia di imposte dirette e di Iva.

La sentenza va dunque cassata in riferimento alla nullità rilevata con il primo motivo e il processo va rinviato alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, che, in diversa composizione, oltre che alla liquidazione delle spese processuali del presente giudizio, provvederà a riesaminare la controversia relativamente al maggior imponibile Ires ed Iva preteso dall’Amministrazione finanziaria con l’atto impositivo, sul presupposto del tempestivo esercizio dell’accertamento, esaminando le questioni sollevate con il ricorso introduttivo, relative al merito.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, rigetta il secondo, cassa la decisione nei termini di cui in motivazione e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, cui demanda in diversa composizione anche la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022

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