LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso R.g. n. 27485/2020 proposto da:
F.L., elettivamente domiciliata in Roma, presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Michele BRANDI BISOGNI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI GIUGLIANO IN CAMPANIA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Girolamo da Carpi 6, presso lo studio dell’avvocato L. NAPOLITANO, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe RUSSO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 768/2020 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 30/01/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28/09/2021 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI;
lette le conclusioni scritte del P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. BALZANO Francesco, che ha chiesto che la Corte di Cassazione voglia dichiarare inammissibile il ricorso, con le conseguenze di legge.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 16711 del 13 luglio 2010, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, respingeva il ricorso proposto da F.L. con il quale aveva chiesto l’annullamento della ordinanza n. 139 del 19.09.2008 del Dirigente preposto al Servizio Controllo Edilizia Privata del Comune di Giugliano di Campania recante nei suoi confronti (nonché nei confronti di altri 74 proprietari di altrettanti terreni ubicati nella medesima zona) la contestazione della sussistenza di una lottizzazione abusiva, ai sensi dell’art. 30 T.U. approvato con D.P.R. n. 380 del 2001, e successive modifiche, sulla base di accertamenti effettuati dalla Polizia Municipale rimessi dall’Autorità giudiziaria, ordinandosi l’immediata sospensione di ogni opera edilizia e di lottizzazione sui suoli in catasto al foglio n. ***** e alle particelle indicate, provvedendo a loro cura e spese alla demolizione delle opere descritte in premessa e al ripristino dello stato dei luoghi, con divieto di disporre dei suoli e delle stesse opere con atti tra vivi, riscontrando sussistere ipotesi di lottizzazione abusiva per frazionamento delle consistenze originarie. Avverso tale pronuncia la F. proponeva impugnazione e il Consiglio di Stato, nella resistenza del Comune di Giugliano di Campania, con sentenza n. 768 del 30 gennaio 2020, respingeva il gravame e, per l’effetto, confermava la pronuncia di primo grado, evidenziando che l’ampio frazionamento del fondo operato dal dante causa dell’appellante e la vendita successivamente conclusa riguardavano un ampio fenomeno relativo ad una consistente porzione del territorio comunale di Giugliano in Campania, per effetto del quale intere zone con destinazione agricola, secondo le previsione dello strumento urbanistico generale, erano state oggetto di un’intensa attività negoziale di vendita e di frazionamento dei terreni a scopo di edificazione, in aperta violazione della disciplina urbanistica ivi vigente; del pari erano state abusivamente realizzate anche le opere di urbanizzazione. Tanto chiarito, il Consiglio di Stato osservava che per il provvedimento di sospensione dei lavori e di inibizione di cessione dei terreni, avendo natura cautelare e non sanzionatoria, non sussisteva l’obbligo per la pubblica amministrazione di comunicazione nei confronti del destinatario dell’avviso di avvio del relativo procedimento. Aggiungeva che, quanto alla normativa applicabile al caso di specie, già la L. n. 1150 del 1942, art. 28, comma 1, poi integralmente sostituito dalla L. n. 765 del 1967, art. 8, prevedeva che la lottizzazione di un terreno a scopo edilizio qualora attuata in assenza di autorizzazione costituiva illecito urbanistico. Precisava, inoltre, che per la normativa del 1942 il divieto operava limitatamente ai Comuni provvisti di piano regolatore generale, che all’epoca era obbligatorio solo per pochi Comuni di particolare interesse urbanistico, i soli a dovere approvare il piano particolareggiato, ma per effetto della L. n. 765 del 1967, art. 8, la lottizzazione autorizzata divenne il principale strumento attuativo del controllo dell’attività urbanistico-edilizia a tutto il territorio e non alle sole aree edificate, alternativo alla presenza del piano particolareggiato, operativo anche con riferimento ai Comuni dotati di programma di fabbricazione. In quegli anni la giurisprudenza iniziò a configurare forme di lottizzazione non autorizzata, come la lottizzazione di fatto e quella giuridica o cartolare, sicché già prima della L. n. 47 del 1985, art. 18, la giurisprudenza penale aveva individuato la fattispecie di reato di lottizzazione abusiva negoziale. Continuava il Consiglio di Stato che dallo stesso art. 1, ultimo capoverso, del contratto di compravendita emergeva che l’acquisto era inerente ad un corpo di terra di natura agricola e non compreso in un piano di lottizzazione regolarmente approvato; inoltre la stessa modesta estensione del fondo acquistato, al di sotto dei mq. 1.000 quadrati, pur dichiarato nell’atto il fine di “valorizzare le potenzialità agricole del terreno”, faceva chiaramente risultare che l’acquisto era preordinato al fine “speculativo”. Ne’ poteva rilevare il denunciato ritardo dell’Amministrazione comunale nel contestare nei riguardi della ricorrente la fattispecie di lottizzazione abusiva, ricorrendo ipotesi di reato progressivo nell’evento e di durata, concorrendo la lottizzazione abusiva c.d. materiale con quella cartolare, oltre a non essere configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente.
Quanto infine alla dedotta conseguibilità del titolo abilitativo da parte della ricorrente, osservava che le opere edilizie quando realizzate nell’ambito di una lottizzazione abusiva non possono essere sanate se non previa valutazione globale dell’attività lottizzatoria, secondo lo speciale meccanismo previsto dalla L. n. 47 del 1985, art. 29 e art. 35, comma 13, con l’adozione di una variante dello strumento urbanistico, nella specie non adottata.
Avverso la decisione del Consiglio di Stato la F. propone ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., comma 8 e asrt. 362 c.p.c., sulla base di tre motivi, cui resiste l’Amministrazione comunale con controricorso.
Attivato il procedimento camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotto, a decorrere dal 30 ottobre 2016, dal D.L. n. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, comma 1, lett. f), convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197 (applicabile al ricorso in oggetto ai sensi del medesimo D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 2,), la causa è stata riservata in decisione.
In prossimità dell’adunanza camerale, acquisite le conclusioni scritte del Procuratore Generale, Dott. Francesco Salzano, parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con il primo motivo la ricorrente – dopo avere esposto in ricorso, in via preliminare, l’antefatto della controversia dinanzi ai giudici amministrativi, con ampia illustrazione delle normative ritenute applicabili, partitamente facendo cenni e richiami di giurisprudenza relativi al ruolo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell’ambito dei motivi inerenti la giurisdizione per l’ammissibilità del ricorso – argomenta il dedotto “error in iudicandum” con riferimento alla censura con cui erano state denunciate la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, nonché l’eccesso di potere per erroneità dei presupposti, il difetto di motivazione e la violazione del giusto procedimento. Ad avviso della ricorrente il pronunciamento del Consiglio di Stato, non riconoscendo la estraneità della F. all’operazione di illecita utilizzazione del territorio, avrebbe violato i principi costituzionali e comunitari di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai contravventori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato, escludendo che rientri nell’ambito della sanzione penale accessoria l’irrogazione della sanzione amministrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio disponibile del Comune.
Il motivo è privo di pregio, perché l’art. 111 Cost., comma 8, in uno all’art. 362 c.p.c. e art. 110 c.p.a., non consente di ricondurre ai motivi inerenti la giurisdizione, sindacabili dalle Sezioni Unite, né le eventuali violazioni del diritto dell’Unione Europea, né l’ipotesi in cui il giudice amministrativo sia incorso in un error in iudicando.
E’ ben vero che questa Corte di legittimità – da ultimo, con Cass. Sez. Un., 27 dicembre 2017 n. 31226 – aveva statuito la configurabilità, sia pure quale caso estremo o limite, di un diniego di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato in caso di errori in procedendo o in iudicando, soprattutto se riguardanti il diritto dell’Unione Europea, implicanti il radicale stravolgimento delle norme di riferimento (nazionali o dell’Unione) e tali da ridondare in denegata giustizia, in particolare, in ipotesi di errore in procedendo costituito dall’applicazione di regola processuale interna incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale nell’ampiezza riconosciuta da pertinenti disposizioni normative dell’Unione Europea, direttamente applicabili, secondo l’interpretazione elaborata dalla Corte di giustizia.
Tuttavia non vi è bisogno di verificare se tale approdo resista all’interpretazione dell’art. 111 Cost., da parte di Corte Cost. n. 6 del 2018, la quale, in data successiva alla richiamata Cass. Sez. Un. 31226/17, categoricamente esclude (punto 14.1. delle ragioni in diritto) che l’intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione, in sede di controllo di giurisdizione, possa essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU, perché scorrettamente viene ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), in quanto tale estraneo a quell’istituto e dovendo il relativo problema, pure indubbiamente esistente, trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione.
Infatti, la non applicazione della normativa Eurounitaria deriva, già solo in tesi, dalla qualificazione dell’oggetto della procedura quale provvedimento cautelare, con esclusione di obblighi di comunicazione di avvisi di avvio del procedimento (in via di preinformazione) o della dedotta violazione di termini di adozione dell’atto dinanzi all’esaustività della rappresentazione della situazione ai fini di una informata e consapevole partecipazione al divenire della medesima; e, con questo, tutti i diversi profili del preteso diniego di giustizia prospettato dalla ricorrente si risolvono nella prospettazione di corrispondenti errores in iudicando quali causa del mancato accoglimento della domanda originaria: in quanto tali, essi restano all’interno dei limiti della giurisdizione del giudice speciale anche alla stregua dell’interpretazione dell’art. 111 Cost., comma 8, formatasi in tempo anteriore alla richiamata sentenza n. 6 del 2018 della Consulta.
Infatti, il controllo di questa Corte è circoscritto all’osservanza dei meri limiti esterni della giurisdizione, ma non si estende ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale concernenti il modo d’esercizio della giurisdizione speciale.
Va qui ribadito, facendo rinvio alla ormai consolidata giurisprudenza di queste Sezioni unite e alla nota pronuncia della Corte Costituzionale (n. 6/2018), che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non possa dunque integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111 Cost., comma 8, tantomeno sotto il profilo della omissione o rifiuto di giurisdizione, ove in tale ipotesi si intenda – come nella specie intenderebbe la ricorrente – far rientrare la erronea negazione in concreto della tutela alla situazione soggettiva azionata per una erronea interpretazione delle norme sostanziali nazionali o di principi propri della normativa Europea, e non piuttosto la sola affermazione da parte del giudice speciale questa sì sindacabile da questa Corte – che quella situazione soggettiva e’, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione, in contrasto con la regula iuris che attribuisce il potere di ius dicere sulla domanda, sicché eventuali errori nei quali il Consiglio di Stato sia incorso nell’esercizio della funzione giurisdizionale ad esso attribuita si collocherebbero comunque nel distinto ambito dei limiti interni della giurisdizione, estraneo alla verifica attribuita a queste Sezioni unite.
Infatti, anche dopo l’inserimento della garanzia del giusto processo nella nuova formulazione dell’art. 111 Cost., l’accertamento in ordine ad errores in procedendo o ad errores in iudicando (sia pure de iure procedendi), rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione, poiché quelli integrano violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio e non inerenti all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dai limiti esterni di essa, ma solo al modo in cui è stata esercitata (Cass., Sez. Un., 17 gennaio 2017 n. 953; Cass., Sez. Un., 18 maggio 2017 n. 12497; Cass., Sez. Un., 30 luglio 2018 n. 20169; Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2018 n. 32773; Cass. Sez. Un., 6 marzo 2020 n. 6064; Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2020 n. 24107; Cass., Sez. Un., 7 luglio 2021 n. 19244).
Tanto comporta l’infondatezza del motivo di ricorso sul preteso omesso esercizio di giurisdizione, a parte la considerazione che, ad ogni buon conto, le doglianze dell’odierna ricorrente sono state comunque esaminate nel merito, con analitica esclusione in concreto di tutte le lesioni paventate.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ancora una volta, error in iudicandum rispetto alla censura relativa alla violazione della L. 7 agosto 1990, n. 21, art. 7, nonché l’eccesso di potere per erroneità dei presupposti e per violazione del giusto procedimento. La F. insiste nella doglianza di assoluta impossibilità di partecipare al procedimento preordinato all’adozione dell’ordinanza sanzionatoria e la relativa impossibilità di dimostrare la estraneità ai fatti contestati dall’Amministrazione comunale, oltre a contestare la sussistenza dei presupposti di urgenza per superare la comunicazione di avvio del procedimento.
Del pari privo di fondamento è il richiamo, ai fini dell’accertamento di cui all’art. 362 c.p.c. e art. 111 Cost., comma 8, di cui sono investite queste Sezioni Unite, alla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 7, in quanto dal combinato disposto del medesimo art. 7 e del successivo art. 21-octies, si evince che il mancato apporto partecipativo del privato al procedimento non comporta l’illegittimità del provvedimento conclusivo solo ove la P.A. procedente (e non anche il privato controinteressato) sia in grado di comprovare, in giudizio, che il provvedimento non poteva avere contenuto dispositivo diverso, e ciò specialmente nel caso in esame ove la controversia investe l’adozione di misure cautelari in presenza pacificamente di abusiva lottizzazione edilizia.
Alcuna rilevanza poteva darsi alla circostanza che la F. non pote’ partecipare alla procedura de qua avente natura cautelare, che pertanto ben poteva essere revocato qualora la destinataria del medesimo provvedimento avesse comprovato “la legalità del suo agire” (v. pag. 21, primo cpv. della sentenza gravata).
Peraltro, a fronte dell’accertamento della violazione delle norme relative allo strumento di lottizzazione c.d. assentita dall’Amministrazione comunale, per quanto attiene all’azione amministrativa, che si sostanzia nella contestazione della lottizzazione abusiva, non è richiesta alcuna specifica valutazione delle ragioni d’interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, non legittimabile neanche in via di fatto, non potendo l’intero impianto normativo del D.P.R. n. 380 del 2001, tollerare che rimangano inapplicate norme poste a presidio di interessi pubblici, quali la tutela ambientale, la prevenzione e la correzione alla fonte di fenomeni corruttivi del territorio, né che mantengano validità trasformazioni edilizie nulle. La ratio del citato decreto è attribuire alle autorità locali un potere di vigilanza sul loro territorio, soprattutto in situazione di illecito permanente, allo scopo di evitare il degrado ambientale e promuovendo il ripristino stato dei luoghi.
Come, dunque, non è ascrivibile al Consiglio di Stato alcuna attività di pretesa violazione del giusto procedimento, avendo quest’ultimo svolto un’operazione interpretativa di raffronto tra la ratio del divieto e la funzione istituzionale di pianificazione urbanistica e di vigilanza delle autorità locali.
In ogni caso, anche l’asserita violazione del principio dell’obbligo di comunicazione di avviso di avvio del procedimento (in via di preinformazione), per quanto già esposto con riferimento al primo motivo, esorbita dal controllo sui limiti esterni della giurisdizione che l’art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di Cassazione in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, in quanto esso non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare al più errori “in iudicando” o “in procedendo”, senza che rilevi la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, considerato che l’interpretazione delle norme costituisce il “proprium” distintivo dell’attività giurisdizionale (così Cass. Sez. Un. 27770 del 2020).
Con il terzo motivo di ricorso la F. deduce error in iudicandum rispetto alla censura relativa alla violazione del giusto procedimento, alla carenza di istruttoria e al difetto di motivazione. Il Consiglio di Stato ha confermato, a detta della ricorrente, la natura vincolata dei provvedimenti sanzionatori in materia edilizia e quanto alla domanda di sanatoria per il manufatto abusivo presentata dalla F. e ancora non definita; ha invocato l’orientamento giurisprudenziale relativo alla fattispecie di lottizzazione abusiva riguardo alla sottrazione al Comune del potere pianificatorio, prescindendo dalle singole opere abusive realizzate senza titolo, escludendo la rilevanza della sentenza penale di assoluzione del suo dante causa dall’illecito di lottizzazione abusiva argomentando con il riferimento ad atti di compravendita di soggetti diversi dalla ricorrente, con ciò dando luogo a giudicati diametralmente opposti sulla medesima vicenda.
Il motivo appare privo di pregio per le ragioni che seguono.
Condividendo orientamento ormai consolidato di queste Sezioni Unite (di recente, Cass., Sez. Un., 21 settembre 2020 n. 19675), la prospettata assenza di motivazione della sentenza che, omettendo di individuare gli elementi fondativi della responsabilità, avrebbe integrato un rifiuto della giurisdizione si risolve, in realtà, in un vizio processuale della sentenza che non può essere scrutinato all’interno del vizio di eccesso di potere giurisdizionale.
Ed invero, anche a seguito dell’inserimento della garanzia del giusto processo nella formulazione dell’art. 111 Cost., il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato è limitato all’accertamento dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte del giudice amministrativo, ovvero all’esistenza di vizi che riguardano l’essenza di tale funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, per converso, escluso ogni sindacato sui limiti interni di tale giurisdizione, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo. Ne consegue che il ricorso per cassazione contro le decisioni del Collegio di ***** non è incondizionato, perché è fatta salva la autonomia della giurisdizione di tale giudice, che non comporti il superamento dei limiti esterni della rispettiva giurisdizione che contemplano il cosiddetto eccesso di potere giurisdizionale, per avere esercitato la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa della pubblica amministrazione e l’esplicazione della giurisdizione in materia attribuita a quella ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, così verificandosi “una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale” (Cass., Sez. Un., n. 3349 del 2004; Cass., Sez. Un., n. 14438 del 2018; Cass., Sez. Un., n. 7457 del 2020).
E’ chiaro dunque che in sede di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato il contrasto denunciato da parte ricorrente, peraltro in termini generici e poco circostanziati, con il diritto al giusto procedimento non è di per sé riconducibile al controllo del limite esterno della giurisdizione affidato alla Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost., comma 8, potendo rientrarvi solo nell’ipotesi “estrema”, che certamente non ricorre nel caso di specie, che l’errore si sia tradotto in una interpretazione delle norme tale da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale dinanzi al giudice amministrativo (così Cass. Sez. Un. 12586 del 2019, Cass. Sez. Un. 30301 del 2017 e Cass. Sez. Un. 2242 del 2015).
Nella medesima prospettiva è stato precisato (Cass., Sez. Un., 25 luglio 2011 n. 16165) che in tema di sindacabilità del difetto di giurisdizione delle sentenze dei Giudici speciali, è inammissibile il ricorso che si fondi su vizi processuali relativi a violazioni dei principi costituzionali del giusto processo, quali quelli che ledono il contraddittorio tra le parti o la loro parità di fronte al giudice o l’esercizio del diritto di difesa, trattandosi di violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio, al pari di tutti gli altri errores in procedendo e non inerenti all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dei limiti esterni di essa ma solo al modo in cui è stata esercitata (Cass., Sez. Un., 9 giugno 2011, n. 12539; Cass., Sez. Un., 21 giugno 2010 n. 14890; Cass., Sez. Un., n. 13244 del 2019).
Tale indirizzo si inscrive pienamente nell’altro, anch’esso radicato nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, a proposito della delimitazione del ricorso ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 8, questo potendosi configurare unicamente in caso di rifiuto dell’esercizio della giurisdizione allorché si riconosca – contro la regula iuris che attribuisce a quel giudice il potere di dicere ius sulla domanda – che la situazione soggettiva fatta valere in giudizio sia, in astratto, priva di tutela e corredata dal rilievo dell’estraneità di tale situazione non solo alla propria giurisdizione, ma anche a quella di ogni altro giudice (Cass., Sez. Un., n. 20169 del 2018, Cass., Sez. Un., 27 giugno 2018 n. 16973; Cass., Sez. Un., n. 13976 del 2017; Cass., Sez. Un., n. 3561 del 2017; Cass., Sez. Un., n. 5070 del 2016; Cass., Sez. Un., n. 3037 del 2013, unitamente a Corte Cost. n. 6 del 2018).
Dai principi sopra enunciati deriva quindi che la censura basata sull’assunto dell’assenza di motivazione della sentenza impugnata, o sulla sussistenza degli estremi della violazione del canone del giusto procedimento non può essere esaminata in questa sede in quanto non compresa nei limiti del sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato.
Discende da quanto esposto che il ricorso va dichiarato inammissibile.
A tale esito segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, in favore del controricorrente.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è stato rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Ric. 2018 n. 27069 sez. SU – ud. 19-11-2019 -14- Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso;
condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in favore del Comune controricorrente in complessivi Euro 15.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022
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