Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.5085 del 16/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16056-2021 proposto da:

I.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO FALCUCCI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELE MARIA D’ALESIO;

– ricorrente –

contro

ISTITUTO DELLE SUORE COMPASSIONISTE SERVE DI MARIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIO ARMINJON 8, presso lo studio dell’avvocato GAETANO VENDUTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA DEL VECCHIO;

– controricorrente –

contro

INIZIATIVE IMMOBILIARI SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO IACOVINO che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5965/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 30/11/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 14/01/2022 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE GRASSO.

Considerato che il Collegio condivide i rilievi enunciati dal Relatore in seno alla formulata proposta nei termini seguenti:

“ritenuto che la vicenda, per quel che ancora qui residua d’utilità, può riassumersi nei termini seguenti:

– l’Istituto delle Suore Compassioniate Serve di Maria chiese condannarsi I.S. a rilasciare un’area, facente parte di un più vasto complesso immobiliare, acquistato dall’attore nel 2005, di cui un appartamento era stato condotto in locazione dal convenuto;

– chiamata in causa la s.r.l. iniziative Immobiliari e nel contraddittorio di I.A., F.E. e F.A., eredi del convenuto, nelle more deceduto, il Tribunale, disattesa la proposta domanda riconvenzionale di declaratoria d’acquisto per usucapione, accolse la domanda principale;

– la Corte d’appello di Roma rigettò l’impugnazione dei convenuti;

– I.A. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di un solo motivo, articolato in plurime censure, l’Istituto ecclesiastico resiste con controricorso (resiste, del pari, con controricorso, Iniziative Immobiliari s.r.l.).

OSSERVA La ricorrente qualificando le sue doglianze “motivi di revisione” lamenta, in forma inestricabilmente confusa e lontana dallo schema tipico di cui all’art. 360 c.p.c., che:

– avendo gli eredi di I.S. ininterrottamente posseduto l’area di cui si discute dal 1962 ne erano divenuti proprietari, restando tardive le successive vicende sollevate dalla controparte;

– la Corte locale era incorsa “travisamento di fatto”, dovuto a una “svista nella lettura dei numerosi documenti depositati dalla controparte” e la decisione che ne era scaturita risultava fondata sopra supposizioni di fatto “la cui verità è incontestabilmente esclusa, senza aver incluso atti depositati la cui verità è stata positivamente stabilita con sentenza di possesso ultraventennale, iniziato prima della compravendita delle varie società succedute”;

– era stato accertato “prima dal Tribunale di Roma dal 2004 al 2009 con sent. 9962/209, confermato poi in Corte di Appello civile Roma con giudizio dal 2009 al 2016, il possesso esclusivo uti dominus, con la intervenuta possessoria/petitoria sul terreno alla particella n. *****, ben distinto in atti, con sbalzo della pertinenza condominiale di 1 metro, tutto recintato con lucchetti, pali e gradini per l’accesso, che confermava l’utilizzo esclusivo in capo a I.S. (cuius dei ricorrenti) alla stregua di un vero e proprio proprietario, tutti atti di manifestazione dell’animus possidendi”.

La ricorrente, inoltre, chiedeva, inammissibilmente (art. 373 c.p.c.), a questa Corte la sospensione del processo esecutivo.

La doglianza non supera, nel suo complesso, lo scrutinio d’ammissibilità.

Deve rilevarsi che questa Corte ha già avuto modo di precisare che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e circoscritto dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; ne consegue che il motivo (o i motivi, il che è lo stesso) del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., (ex multis, Sez. 5, n. 19959, 22/9/2014); il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; pertanto, pur non essendo decisivo il testuale e corretto riferimento a una delle cinque previsioni di legge, è tuttavia indispensabile che il motivo individui con chiarezza il vizio prospettato nel rispetto della tassativa griglia normativa (cfr., da ultimo Sez. 2, n. 17470/2018).

Da quanto sopra deriva che il ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Sez. 6, n. 11603, 14/5/2018, Rv. 648533).

Nel caso in esame il ricorso presenta una struttura atipica, promiscua, confusa e oscura, sin dalla qualificazione del rimedio esperito come “revisione”, quindi pretesamente devolutivo.

Prospetta, inoltre, “apertis verbis”, vizio revocatorio, in questa sede non coltivabile. Senza peritarsi d’indicare le norme asseritamente violate (S.U. n. 23745, 28/10/2020), parrebbe dedurre che la decisione impugnata si ponga in contrasto con altro accertamento giudiziario definitivo. Ma l’asserto è radicalmente destituito di giuridico fondamento. La circostanza che il giudice del possessorio abbia protetto la situazione di fatto, accertando che il convenuto versasse in una situazione possessoria tutelabile, non implica affatto che una tale pronuncia possa assumere efficacia di giudicato nel ben diverso giudizio nel quale si verta sull’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dell’acquisto del bene per usucapione. In questo secondo caso, infatti, non basta, appunto, accertare l’attualità del possesso, protrattosi nell’ultimo anno, ma l’ininterrotto possesso ventennale, nonché la qualità del possesso, vero e proprio simulacro del diritto di proprietà, non bastando aver posseduto, occorrendo averlo fatto come se si fosse proprietari.

Nel resto la doglianza muove un’impropria e, peraltro, aspecifica, censura allo scrutinio probatorio di merito.

Di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c., e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti””.

la ricorrente va condannata a rimborsare le spese in favore dei controricorrenti, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che liquida, pe ciascuno di loro, in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022

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