Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.5136 del 16/02/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3324/2016 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Renato Cesarini, n. 97, presso lo studio dell’avvocato Daniela Etna, rappresentato e difeso dall’avvocato Rosalba Padroni per procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Fondo Pensioni per il Personale della Banca Commerciale Italiana in liquidazione, in persona dei liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Marcello Prestinari, n. 13, presso lo studio dell’avvocato Massimo Pallini, rappresentato e difeso dagli avvocati Pietro Ichino, Enrico Brugnatelli, e Francesco Brugnatelli, per procure speciali rispettivamente estese in calce al controricorso e alla memoria di costituzione a mezzo di nuovo difensore;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 14745/2015 del Tribunale di Milano, depositato il 28 dicembre 2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022 dal consigliere Dott. Marco Vannucci.

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto emesso il 28 dicembre 2015 il Tribunale di Milano rigettò l’opposizione (L.Fall., artt. 99 e 209) di M.S. allo stato passivo formato (in applicazione degli artt. 30 c.c., artt. 16-20 disp. att. c.c. e L.Fall., art. 209, relativi alla liquidazione generale del patrimonio delle associazioni riconosciute come persone giuridiche) dai liquidatori del Fondo Pensioni per il Personale della Banca Commerciale Italiana in liquidazione (di seguito indicato come “Fondo”) nella parte in cui aveva escluso dal passivo della procedura di liquidazione: credito pari a Euro 50.064,82, assistito dall’invocato privilegio di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 1), oltre interessi e rivalutazione monetaria; in subordine credito pari a Euro 9.583,57, a esso asseritamente spettante per effetto dell’accordo fra associazioni sindacali fra lavoratori UNP e ANPEC del 12 luglio 2010.

1.1 Dopo avere descritto le vicende interessanti la vita del Fondo, dalla sua erezione in ente morale con R.D. 11 agosto 1921, n. 1201 fino alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 2 maggio 2013 dell’avviso di deposito dello stato passivo formato dai liquidatori del Fondo (oggetto di opposizione) dopo la dichiarazione di estinzione di tale ente (avvenuta il *****), la motivazione del decreto è nel senso che:

la questione centrale coinvolta dalla controversia è quella dell’applicabilità (o meno) al procedimento di liquidazione del patrimonio dell’ente dell’art. 27 del relativo statuto (riprodotto nelle pagg. 6 e 7 della motivazione) per l’ipotesi del verificarsi di plusvalenze derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare e dei diritti degli iscritti al Fondo di beneficiare di tali plusvalenze;

diversamente da quanto sostenuto dall’opponente, il citato art. 27 dello statuto (prevedente l’attribuzione a lavoratori aventi determinati requisiti delle plusvalenze derivate dalla dismissione di immobili appartenenti al Fondo) era applicabile solo al normale esercizio dell’attività del Fondo, non anche alla fase finalizzata alla liquidazione del suo intero patrimonio (compresa la proprietà di immobili), in quanto con l’accordo intervenuto il 10 dicembre 2004 fra le “fonti istitutive del Fondo Pensioni” (id est, la Banca e le associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti della banca) si decise di avviare il procedimento di liquidazione dell’ente e di destinare il ricavato dalla liquidazione dell’intero patrimonio immobiliare “non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”;

con tale accordo, inoltre: furono soppressi l’istituto della pensione di reversibilità e la possibilità di ottenere anticipazioni; fu deciso di sospendere, a partire dal 1 gennaio 2015, ogni ulteriore esborso di danaro ai creditori di “zainetti” (id est, le somme di danaro in accumulo nei conti individuali progettate con l’accordo, fra le stesse parti, del 16 dicembre 1999, il cui contenuto venne trasfuso nello statuto del Fondo); furono sospese le erogazioni in favore dei pensionati con “attribuzione, in luogo delle pensioni, di acconti sulla liquidazione della loro posizione”;

l’effetto di tale accordo fu dunque quello “di abrogare, pur implicitamente, l’art. 27 dello statuto” in quanto incompatibile con la volontà delle parti stipulanti detto accordo collettivo di destinare il ricavato dalla liquidazione dell’intero patrimonio immobiliare nel senso teste’ indicato;

tale interpretazione deriva dalle indicazioni testuali riprodotte nella motivazione (pagg. 8 e 9), nonché dai comportamenti delle parti di tale accordo nella motivazione specificamente descritti (pagg. 10 e 11);

l’accordo del 2004, fonte avente rango pari a quello del 16 dicembre 1999, era peraltro idoneo “a dettare i criteri della futura liquidazione del Fondo, anche in contrasto con le previsioni statutarie che non contengono alcuna disposizione diretta a disciplinare la liquidazione dell’ente e la ripartizione del suo patrimonio”;

l’art. 27 dello statuto, d’altra parte, non attribuiva ai lavoratori iscritti al Fondo “un diritto soggettivo perfetto sulla dotazione dell’ente”, ma solo la “previsione di una possibile, ma niente affatto certa, integrazione del trattamento pensionistico complementare…nel caso di realizzazione di plusvalenze”, sì che la posizione soggettiva degli iscritti ben poteva “essere incisa dalla contrattazione collettiva anche in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori”;

neppure nel caso di specie è predicabile lesione dell’art. 2117 c.c., “giacché nella vicenda in esame non vi è stata distrazione del patrimonio dalla funzione previdenziale, bensì una modificazione, legittima e…ragionevole dei criteri di distribuzione”;

anche laddove si aderisse alla tesi di M. (perdurante applicabilità dell’art. 27 dello statuto, nel testo modificato nel 2000), egli non sarebbe titolare del credito fatto valere in via principale, essendo cessato il rapporto fra lui e il Fondo il ***** e avendo egli ottenuto “in data 28 novembre 2003 la liquidazione del proprio zainetto, tra l’altro rilasciando contestualmente apposita quietanza nella quale dichiarava di “non aver null’altro da reclamare per nessun titolo o causa nei confronti del precitato Fondo Pensioni”;

in conseguenza della cessazione del rapporto fra opponente e il Fondo sono irrilevanti “le vicende verificatesi nel periodo successivo”; del resto, “la percezione in un’unica soluzione del capitale maturato su conto individuale ha sottratto l’opponente ai rischi cui, invece, sono rimasti inevitabilmente esposti i pensionati titolari di rendite e cioè sia al rischio “fisiologico” legato all’aspettativa di sopravvivenza di ognuno, sia ai timori legati alla situazione di disequilibrio in cui il Fondo fin dalla fine degli anni novanta si è venuto a trovare senza che vi fosse una certezza sugli esiti della dismissione degli immobili”;

e ciò spiega la diversità delle previsioni della clausola statutaria relative alla categoria dei cosiddetti “usciti”;

la domanda subordinata di ammissione al passivo è da rigettare perché su di essa l’opponente “non ha spiegato alcun argomento difensivo”; la vicenda relativa all’accordo sindacale fra i sindacati dei lavoratori UNP e ANPEC del 12 luglio 2010 è invece narrata dalla parte convenuta in opposizione e si ricostruisce alla luce del contenuto dei documenti da tale parte depositati (descritto nella pag. 13 della motivazione); dal momento che il Fondo non fu parte di tale accordo e non risulta vi abbia successivamente aderito, avendo solo dichiarato la propria disponibilità a darvi esecuzione, in ottica deflattiva del contenzioso in corso, a condizione che il contenuto di tale accordo avesse ottenuto il consenso della grande maggioranza degli altri interessati, in effetti non espresso.

2. M.S. chiede la cassazione del decreto, nella parte in cui questo rigettò la sua domanda principale di ammissione al passivo (credito pari a Euro. 50.064,82, assistito dall’invocato privilegio di cui all’art. 2751-bis c.c., n. 1), oltre interessi e rivalutazione monetaria), con ricorso contenente sei motivi di impugnazione.

3. Il Fondo resiste con controricorso, assistito da memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, per i motivi nell’atto specificati, che il decreto impugnato è caratterizzato da violazione ovvero falsa applicazione al caso di specie dell’art. 3 dell’accordo del 16 dicembre 1999, recepito dall’art. 27 dello statuto del Fondo, e dell’accordo del 10 dicembre 2004 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)), avendo affermato che l’art. 27 dello statuto del Fondo, nel testo risultante dall’esecuzione dell’accordo collettivo del 16 dicembre 1999, venne implicitamente abrogato dall’accordo collettivo del 10 dicembre 2004.

2. In secondo luogo il ricorrente censura il decreto impugnato per violazione ovvero falsa applicazione al caso di specie “degli artt. 1362 c.c. e ss. “, contestando il valore interpretativo dei contenuti dell’accordo sindacale del 10 dicembre 2004 desunto dal giudice di merito anche dai comportamenti descritti nelle pagg. 10 e 11 del decreto medesimo.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia che il decreto impugnato ha violato l’art. 2117 c.c., ovvero di esso ha fatto erronea applicazione al caso di specie, impedendo tale disposizione di legge “la definitiva distrazione dei versamenti contributivi aziendali dal disegno pensionistico che il ricorrente intendeva realizzare con il trasferimento della sua posizione ad altro fondo previdenziale avente lo stesso scopo previdenziale del Fondo per il Personale della Banca Commerciale Italiana”; anche perché “il recesso da tutte le pattuizioni previdenziali, comunicato dalla Banca in data 15/12/1999, risulta illegittimo, così come disposto dalla Cassazione con sentenza n. 6427 del 1/7/1998” e perché i liquidatori del Fondo hanno voluto unilateralmente disapplicare l’art. 27 dello statuto del Fondo.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. da parte del Tribunale di Milano per avere il decreto impugnato rigettato le proprie domande sulla base di un argomento (quello della abrogazione implicita dell’art. 27 dello statuto del Fondo) mai dedotto neppure dal Fondo (i cui argomenti sono trascritti nelle pagg. 7 e 8 del decreto) senza sollecitare il contraddittorio fra le parti sul punto e per avere trascurato che l’accordo del 10 dicembre 2004 non era mai stato approvato dal COVIP e sottoposto all’adesione individuale di esso ricorrente (che invece aveva approvato l’accordo del 16 dicembre 1999).

5. Con il quinto motivo il ricorrente censura il decreto impugnato per violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 2077,1362,1372,1356 c.c. per avere trascurato che nell’accordo del 2004 (oltretutto stipulato fra parti diverse da quelle che stipularono l’accordo del 1999), i cui contenuti non erano stati da esso ricorrente approvati, non vi era alcun riferimento a modificazioni dell’art. 27 dello statuto (per come modificato in esecuzione dell’accordo del 1999) e che tale clausola statutaria attribuiva ai lavoratori iscritti prima del 28 aprile 1993 e in servizio al 1 dicembre 2000 (come esso ricorrente) un diritto, seppure condizionato (alla vendita di parti costituenti il patrimonio immobiliare del Fondo) e non una mera aspettativa alla ripartizione delle plusvalenze realizzate dalla dismissione della proprietà di tutti gli immobili appartenenti al Fondo nell’ambito del procedimento generale di liquidazione del suo intero patrimonio.

6. Infine, il ricorrente censura (sesto motivo) il decreto impugnato, nella parte in cui afferma la non sussistenza del diritto da esso fatto valere anche per il caso di accertata efficacia delle disposizioni recate dall’art. 27 dello statuto, per violazione e falsa applicazione del citato art. 27; e ciò, ai sensi dell’art. “360 c.p.c. comma 1 n. 3 e 4”, in quanto: il testo di tale clausola statutaria (nel ricorso riprodotto) evidenziava la nascita in suo favore di un diritto “con un importo minimo garantito (quello decurtato dai “tagli”) ed un importo ulteriore sottoposto alla condizione sospensiva del realizzarsi di plusvalenze a partire dall’anno 2000 del patrimonio del Fondo rispetto alla sua consistenza all’ultima data di valutazione; non emergeva alcuna volontà delle parti nel senso dell’abrogazione dell’art. 27 dello statuto; al verificarsi di tale condizione il diritto di credito si riespande nella sua originaria consistenza secondo le specifiche previsioni della clausola.

7. Prima di passare all’esame dei, sopra riassunti, motivi di ricorso è doveroso evidenziare che le questioni in questa sede sollevate dal ricorrente hanno formato oggetto di dieci provvedimenti (una sentenza e nove ordinanze), emessi dalla Sezione Lavoro della Corte nel corso dell’anno 2021, dispositivi del rigetto di altrettanti ricorsi proposti per la cassazione di dieci decreti emessi dal Tribunale di Milano, recanti, come quello in esame, rigetto di altrettante opposizioni allo stato passivo del Fondo.

Si tratta, in particolare: della sentenza n. 22267; delle ordinanze n. 32536, n. 32553, n. 35178, n. 35976, n. 35985, n. 36227, n. 36228, n. 36708 n. 36923.

L’esame dei contenuti di tali precedenti rivela che: i decreti impugnati nei dieci procedimenti definiti dalla Sezione Lavoro avevano, quanto alle questioni di diritto coinvolte dalla liquidazione del Fondo, contenuti fra loro sovrapponibili; le nove ordinanze sopra citate sviluppano ordini di concetti espressamente mutuati dalla sentenza n. 22267 del 2021; i contenuti dei dieci decreti già scrutinati dalla Sezione Lavoro sono, a loro volta, sovrapponibili a quelli caratterizzanti il decreto in questa sede impugnato dal ricorrente; le censure mosse a tali decreti (rigettate ovvero dichiarate inammissibili) si identificano, in buona sostanza, con quelle dal ricorrente sviluppate per la cassazione del decreto da lui impugnato.

Il ricorrente non sviluppa argomenti di consistenza tale da determinare un ripensamento (come tale determinante una doverosa rimessione del ricorso alle sezioni unite della Corte) dell’orientamento interpretativo fatto proprio da tali dieci precedenti.

8. I motivi di ricorso primo, secondo, quarto e quinto possono essere esaminati congiuntamente in quanto fra loro strettamente connessi.

Quanto al rapporto fra il ricorrente e il Fondo, si osserva preliminarmente che e’, in fatto, accertato dal decreto impugnato che: il rapporto di lavoro subordinato fra la Banca Commerciale Italiana s.p.a. e il ricorrente cessò il ***** in conseguenza del pensionamento di quest’ultimo; il 28 novembre 2003 (prima, dunque, della stipulazione dell’accordo collettivo del 10 dicembre 2004 nel decreto esaminato) il ricorrente ottenne la liquidazione del proprio “zainetto” (pag. 12 del decreto impugnato e pag. 31 del ricorso).

Nel caso di specie, poi, il decreto impugnato accerta che:

a) con accordo collettivo stipulato il 16 dicembre 1999 fra le “fonti istitutive del Fondo Pensioni” (id est, la Banca e le associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti della banca) venne disposta, per quanto qui interessa, anche la modificazione dell’art. 27 dello statuto del Fondo, approvata dalla Commissione di vigilanza sui Fondi Pensione (C.O.V.I.P.) il 20 dicembre 2000, relativa alla ripartizione fra i soggetti espressamente indicati in tale clausola “delle plusvalenze realizzate, a partire dall’anno 2000, nel comparto immobiliare del patrimonio del Fondo rispetto alla sua consistenza all’ultima data di valorizzazione” (il contenuto dell’art. 27 è riprodotto nelle pagg. 6 e 7 del decreto);

b) con accordo collettivo stipulato il 10 dicembre 2004 fra le stesse “fonti istitutive” (la deduzione del ricorrente relativa alla non identità delle associazioni sindacali parti di ciascuno dei menzionati accordi è inapprezzabile in quanto investe questione di mero fatto incidentalmente prospettata, oltretutto in maniera alquanto generica, senza denunciare vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)) venne deciso di procedere alla liquidazione del Fondo, con conseguente, per quanto qui interessa, vendita anche dell’intero suo patrimonio immobiliare il cui ricavato si decise di ripartire con le modalità nel decreto indicate, divergenti da quelle indicate dal citato art. 27 per le plusvalenze conseguite dalle vendite di immobili avvenute a partire dall’anno 2000;

c) lo statuto del Fondo non conteneva “alcuna disposizione diretta a disciplinare la liquidazione dell’ente e la ripartizione del suo patrimonio” (pag. 11 del decreto);

d) il consiglio di amministrazione del Fondo: nel periodo intercorso “tra la seconda metà del 2005 e l’inizio del 2006”, liquidò “l’intero patrimonio immobiliare” dell’ente, ricavando “Euro 1.106 mln”, con realizzazione di una plusvalenza di “Euro 536,2 mln”; il 13 giugno 2006 dispose l’avvio del procedimento di estinzione del Fondo con “ripartizione delle successive disponibilità patrimoniali proporzionalmente suddivise tra iscritti attivi e pensionati, in ragione dell’ammontare complessivo di zainetti e riserve”; il 21 novembre 2006 accertò l’estinzione del Fondo “per l’impossibilità sopravvenuta dell’originario scopo e per la compiuta realizzazione dello scopo derivante dalla trasformazione”;

e) il Prefetto, su richiesta del consiglio di amministrazione, dichiarò l’estinzione del Fondo il ***** e il Presidente del Tribunale nominò i liquidatori.

Tali accertamenti non sono messi in discussione dal ricorrente; che non ha neppure contestato avanti il giudice di merito la validità del menzionato accordo collettivo del 10 dicembre 2004.

Tanto premesso, la denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c., è sostanzialmente priva di oggetto, in quanto – come del resto la giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte citata nel precedente punto 7. non ha mancato di rilevare – risulta di alquanta evidenza, dall’esame del contenuto della motivazione del decreto impugnato relativo ai rapporti fra contenuto dell’art. 27 dello statuto del Fondo (per come modificato in esecuzione dell’accordo fra le “fonti istitutive” del Fondo del 16 dicembre 1999) e contenuto dell’accordo fra le stesse “fonti istitutive” del Fondo del 10 dicembre 2004, che nel caso di specie non si trattò “dell’abrogazione dell’art. 27 dello Statuto e della precedente disciplina, ma solo di una deroga alle vecchie previsioni in relazione alla liquidazione dell’intero fondo, sicché non colgono nel segno i motivi di ricorso…che fanno riferimento alla non abrogazione delle norme pregresse: in altri termini, le vecchie norme non si applicano non in quanto abrogate, ma in quanto non si riferiscono alla liquidazione del fondo, disciplinato solo dalle norme successive” (così, in motivazione, Cass. n. 22267 del 2021 cit., nonché le altre cit., supra, sub 7.).

L’affermazione, contenuta nel decreto impugnato, secondo cui l’effetto dell’accordo del 10 dicembre 2004 fu quello “di abrogare, pur implicitamente, l’art. 27 dello statuto” è giuridicamente non corretta, per quanto sopra evidenziato quanto alle modalità di modificazione dello statuto di associazioni riconosciute come persone giuridiche: la stessa però va di necessità letta unitamente all’affermazione, che si rinviene nella stessa frase, secondo cui tale clausola statutaria è “in concreto incompatibile con la volontà delle parti di destinare il ricavato della liquidazione dell’intero patrimonio del Fondo non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”.

Il decreto impugnato è quindi da correggere nella sola parte in cui reca l’affermazione dell’avvenuta “abrogazione implicita” della clausola; nel senso dell’espunzione di tale affermazione (art. 376 c.p.c., u.c.).

Sono per contro conformi a diritto le affermazioni, desumibili dal decreto impugnato, secondo cui:

tale clausola statutaria, in quanto diretta a disciplinare i diritti dei lavoratori nel caso di dismissioni di parte del patrimonio immobiliare appartenente al Fondo funzionali al perseguimento dello scopo suo proprio, è di per sé inidonea, in mancanza di altra clausola dello statuto che ne richiami il contenuto per il caso di liquidazione generale del patrimonio dell’ente, a disciplinare i diritti conseguenti alla decisione, di fonte pattizia, di disporre la liquidazione generale del patrimonio dell’ente (compresa la parte costituita da proprietà di beni immobili), avente tale esclusivo scopo dismissivo e, come tale, non funzionale al conseguimento dello scopo originario dello stesso ente nel cui ambito si inseriva l’art. 27 del relativo statuto;

il citato accordo collettivo del 10 dicembre 2004 ben poteva dunque prevedere modalità, diverse da quelle indicate dalla clausola statutaria, di ripartizione delle plusvalenze conseguite dai prezzi di vendita di tutte le proprietà di beni immobili appartenenti al Fondo nell’ambito del procedimento di liquidazione generale in discorso.

Inoltre, quanto alla conformità alla legge del contenuto dell’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, i citati provvedimenti della Sezione Lavoro della Corte non hanno mancato di evidenziare (ribadendo sul punto i principi affermati da: Cass. n. 12751 del 1992; Cass. n. 16635 del 2003; Cass. n. 21234 del 2007; Cass. n. 13960 del 2014) che “nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale” (così, in motivazione, per tutte, Cass. n. 22267 del 2021, cit.).

Invero, l’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, non avente alcuna incidenza di segno negativo sul patrimonio delle persone che avevano già acquisto il diritto al trattamento pensionistico prima della modificazione dell’art. 27 dello statuto (come detto avvenuta per effetto dell’accordo del 16 dicembre 1999), e avevano dunque già ricevuto il trattamento pieno, così facendo affidamento anche per il futuro sulla consistenza quantitativa di tale trattamento, “appare ragionevole e rispettoso del dettato normativo di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, che ammette che, in presenza di squilibri finanziari nella gestione di fondi di previdenza complementare costituiti per contratto collettivo, la stessa contrattazione può rideterminare la disciplina delle prestazioni” (così, in motivazione, per tutte, Cass. n. 22267 del 2021, cit.).

Da tali considerazioni discende il rigetto del primo, secondo, quarto e quinto motivo.

9. Il terzo motivo, relativo alla dedotta violazione dell’art. 2117 c.c. da parte del decreto impugnato, è invece inammissibile.

Il decreto impugnato ha affermato che nel caso di specie non è predicabile la lesione del precetto di cui all’art. 2117 c.c. “giacché nella vicenda in esame non vi è stata distrazione del patrimonio dalla funzione previdenziale, bensì una modificazione, legittima e…ragionevole dei criteri di distribuzione” delle plusvalenze conseguite dal ricavato della vendita di tutti gli immobili appartenenti al Fondo nell’ambito della liquidazione generale del suo patrocinio.

Il ricorrente afferma invece: che l’art. 2117 c.c. “avrebbe dovuto impedire la definitiva distrazione dei versamenti contributivi aziendali dal disegno pensionistico che il ricorrente intendeva realizzare con il trasferimento della sua posizione ad altro fondo previdenziale avente lo stesso scopo previdenziale del Fondo per il Personale della Banca Commerciale Italiana”; che “il recesso da tutte le pattuizioni previdenziali, comunicato dalla Banca in data 15/12/1999, risulta illegittimo, così come disposto dalla Cassazione con sentenza n. 6427 del 1/7/1998”.

Il motivo introduce dunque: da un lato, una questione caratterizzata da assoluta astrattezza (avendo il ricorrente espressamente affermato di essere “andato in pensione in data *****… ed ha dunque ricevuto…lo zainetto “decurtato” dell’importo complessivo di Euro 50.064,82"); dall’altro una questione di fatto (“recesso da tutte le pattuizioni previdenziali comunicato dalla Banca in data 15/12/1999”) di cui non è dato intendere i termini rilevanti ai fini della decisione sul motivo e che non risulta essere stata affrontata dal decreto in questa sede impugnato, con conseguente novità della stessa.

10. Il sesto motivo è invece in parte infondato e in parte inammissibile, risultando, per quanto sopra evidenziato al punto, che il rapporto fra ricorrente e Fondo cessò al momento del suo pensionamento (come detto avvenuto il *****) e che il 28 novembre 2003 il ricorrente ottenne la liquidazione del proprio “zainetto”.

Al riguardo è da ribadire il principio, affermato da Cass. n. 22267 del 2021, cit. (poi ripreso dalle ordinanze citate sub punto 7.), secondo cui non ha diritto a ricevere la parte di plusvalenze conseguite dal prezzo ricavato dalla vendita di immobili in sede di liquidazione generale del patrimonio del Fondo chi, come il ricorrente, ha ottenuto la liquidazione della propria quota in capitale, con conseguente cessazione della sua iscrizione al fondo. In altre parole, “i lavoratori sono cessati dal fondo incassando il proprio “zainetto” (ossia la propria quota capitalizzata individuale da erogare in caso di cessazione dell’iscrizione al fondo: cfr. Cass. Sez. L, sentenza n. 21224 del 10.10.2007), in toto o pro quota mediante riscossione di una anticipazione a valere sullo “zainetto” medesimo”. Costoro, “sino a quando hanno mantenuto la loro partecipazione al fondo, hanno beneficiato, in ragione della quota detenuta, dei rendimenti annuali del fondo, mediante attribuzione proporzionale ai loro “zainetti” individuali. Nel momento i cui i predetti hanno riscosso lo “zainetto” (potendolo poi investire liberamente in altri impieghi disponibili e ponendosi al riparo dei rischi connessi con il futuro andamento del fondo, inclusa la sua insolvenza) o chiesto un’anticipazione, essi hanno sciolto ogni rapporto con il fondo”.

Tale conclusione è “coerente con la natura del fondo, che è a contribuzione definita, seguendo un regime nel quale è fissato il livello di contribuzione (sulle caratteristiche di detti fondi, v. Cass. Sez. L, sentenza n. 9042 del 5/6/12), restando le prestazioni fluttuanti e variabili in relazione ai rendimenti del patrimonio. I fondi di tale natura, infatti, operano come i fondi comuni di investimento, sicché chi ritira in tutto o in parte il proprio investimento, quale che sia il relativo motivo, da quel momento in poi ha diritto solo al rendimento del fondo per la sola eventuale parte dell’investimento residuo” (così, sempre in motivazione, Cass. n. 22267 del 2021, cit.).

Infine, è da rimarcare che il ricorrente non deduce di avere chiarito al Tribunale per quale ragione il danaro a lui dato a titolo di liquidazione del proprio “zainetto” sarebbe stato inferiore a quello a lui spettante sulla sola base dell’interpretazione dell’art. 27 dello statuto: ciò rende parte della censura caratterizzata da assoluta astrattezza e, per tale parte, inammissibile in quanto relativa al merito della decisione.

11. Il ricorso deve in conclusione essere rigettato; con conseguente condanna del ricorrente al rimborso in favore della parte vittoriosa delle spese processuali da costei anticipate nel presente giudizio nella misura in dispositivo liquidata.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese da questi anticipate nel giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200 per esborsi e in Euro 5.000 per compenso di avvocato, oltre spese forfetarie pari al 15% di tale compenso, I.V.A. e c.p.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472