Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.5486 del 18/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19929/14 R.G., proposto da:

CALFIN – PARTECIPAZIONI E GESTIONI S.R.L., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa, in forza di procura in margine al ricorso, dall’avv.to Tinelli Giuseppe e dall’avv.to Contestabile Giovanni, con i quali è elettivamente domiciliata in Roma, Via delle Quattro Fontane, n. 15;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 432/29/14 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata in data 28 gennaio 2014, non notificata;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa D’Angiolella Rosita nella camera di consiglio del 10 gennaio 2022.

RILEVATO

Che:

1. L’Agenzia delle entrate – Ufficio di Roma 1 – notificò, in data 4 gennaio 2010, alla società Calfin – Partecipazioni e Gestioni s.r.l. (di seguito, per brevità, Calfin) l’avviso di accertamento n. *****, per Ires anno 2004, contestando un maggior reddito imponibile, pari ad Euro 28.881.699,00, con liquidazione di maggiore Ires per Euro 9.209.865,00, oltre sanzioni ed interessi, a titolo di sopravvenienza attiva (art. 88 T.U.I.R.) conseguente all’incasso, avvenuto in data 20 aprile 2004, del credito di lire 65 miliardi (Euro Euro 33.569.698,44) che Calfin vantava nei confronti del Comune di Roma.

2. L’ipotesi su cui si fondava l’avviso di accertamento riguardava il comportamento elusivo della società contribuente, parte di una più vasta operazione negoziale, posto in essere al solo scopo di trarne un vantaggio fiscale. Ed invero, dalla verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza – e dal conseguenziale pvc redatto in data 05/07/2006 – si appurò che:

– Calfin partecipava ad un gruppo societario controllato dalla società olandese Holding Genius One BV (di seguito, Genius), a sua volta controllante la società italiana Holding Prima s.r.l. (di seguito, Prima), che, a sua volta ancora controllava la società contribuente, Calfin detenendone una quota di partecipazione pari all’89,48% del capitale sociale;

– in data 16/11/2000 Calfin aveva acquistato da una società esterna al gruppo, Bolton Industries LTD (di seguito, Bolton), un credito verso il Comune di Roma per il prezzo di lire 65 miliardi (Euro 33.569.698,44);

– con atto del 06/12/2006 Genius si accollò il debito che Calfin vantava verso Bolton, relativo al pagamento del prezzo di cessione;

– contestualmente Genius cedeva il suddetto credito a Prima, senza obbligo di restituzione e senza interessi, fino al 31/12/2003;

– in data 8 gennaio 2001, Calfin ottenne da Prima un finanziamento per l’importo di Euro 33.569.698,44 per il pagamento del prezzo di cessione del credito;

– in data 14 dicembre 2000 Prima ottenne da Genius analogo finanziamento per l’importo di 65 miliardi di lire (Euro 33.569.698,44);

– nel 2004 Calfin incassò, in forza di procedura esecutiva a carico del Comune di Roma, la somma di Euro 29.881.699,42, quale quota parte del maggior credito di lire 65 miliardi e tale operazione venne neutralizzata, sotto il profilo fiscale, dalla posta negativa costituita dalla restituzione del finanziamento concesso a Calfin da Prima.

La Guardia di finanza rilevava, altresì, che nonostante le società del gruppo avessero finanziato l’acquisto del credito e nonostante il Comune di Roma avesse soddisfatto in favore di Calfin parte del credito da quest’ultima acquisito, non vi era stata alcuna movimentazione di somme di denaro (né da Genius a Prima né da Prima a Calfin) e tanto aveva dichiarato il Prof. D., consulente del gruppo societario, circa la mancanza di uscita di denaro e circa l’interesse del gruppo di soddisfare esigenze contabili dirette a controbilanciare la voce attiva riguardante il credito vantato nei confronti del Comune di Roma.

3. Sulla base di tali elementi l’Ufficio ipotizzò che l’allocamento contabile come posta passiva delle relative restituzioni conseguenti alla cessione del credito ed ai correlativi finanziamenti, fosse del tutto fittizio ovvero realizzante un’operazione elusiva al solo fine di trarre un vantaggio fiscale: la passività indicata in bilancio, inizialmente scritta nei debiti verso le società controllanti (p.v.c. pag. 9), esigibile entro l’esercizio successivo e successivamente riportata nel patrimonio netto tra le riserve, aveva l’unico scopo di consentire il flusso finanziario in uscita verso la holding controllante rendendo in tal modo neutro e, quindi, intassabile, l’accredito effettuato dal Comune di Roma in favore di Calfin (v. pagina 16 del ricorso, ove è riportata la pagina 4 dell’avviso di accertamento; v., altresì, pagina 2 del controricorso ove è richiamata la pag. 9 del p.v.c.).

4. La società Calfin impugnò l’avviso di accertamento sostenendo l’effettività della passività iscritta nel suo stato patrimoniale e, quindi, l’inesistenza della sopravvenienza attiva oggetto del recupero a tassazione; la Commissione tributaria provinciale adita, con sentenza n. 555/2/12, accolse il ricorso, ritenendo che l’ipotesi dell’Ufficio fosse sfornita di idoneo supporto probatorio.

5. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso tale sentenza, insistendo sulla fittizietà dell’operazione posta in essere dal gruppo societario e rilevando, tra l’altro, che anche la società Prima era stata attinta da avviso di accertamento per recuperare le poste attive non dichiarate in relazione al fittizio finanziamento ottenuto da Genius.

6. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe, riformava la sentenza di primo grado ritenendo che tutte le operazioni messe in atto dalla holding miravano ad un’operazione elusiva d’imposta.

7. La società ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza, affidato a quattro motivi.

8. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso nel quale ha evidenziato, tra l’altro, la pendenza in Cassazione del giudizio nei confronti della Holding Prima s.r.l. di cui alla controversia originata dall’impugnazione dell’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti per le poste attive non dichiarate e oggetto del finanziamento infragruppo.

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso – così rubricato: “nullità della sentenza per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché dell’art. 101 Cost., commi 1 e 2 e art. 112 c.p.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)” – la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata è stata resa in palese violazione del diritto difesa costituzionalmente garantito e dei principi del giusto processo, in quanto ha rilevato d’ufficio, senza che la relativa questione facesse parte del dibattito processuale, la sussistenza del cd. abuso di diritto, di derivazione giurisprudenziale, basandosi su mere supposizioni che, invece, avrebbero potuto essere smentite se fossero stato oggetto di dibattito processuale. In particolare, rileva l’erroneità dell’assunto della CTR nella parte in cui ha ritenuto che “non esiste una società finanziaria che presti danaro dello stesso ammontare del credito nominativo, ma una cifra molto inferiore al valore nominale in modo tale che vi sia margine al proprio profitto di finanziaria”, deducendo la regolarità dell’operazione di finanziamento pari all’importo nominale del credito acquistato, trattandosi di rapporto instaurato all’interno dello stesso gruppo per il quale la prospettiva di profitto dell’operazione era l’attesa, da parte di Genius, di un differenziale positivo tra quanto pattuito con la Bolton per l’acquisto del credito verso la Calfin per la cessione del credito verso il Comune di Roma e quanto poi effettivamente il Comune di Roma avrebbe versato.

1.2. Col secondo motivo di ricorso deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti riguardanti le emergenze del dibattito processuale quali: (A) il fatto che, come da atto di acquisto del credito del 16 novembre 2000, Calfin non versò immediatamente a Bolton, il corrispettivo dell’acquisto del credito, che doveva essere pagato entro e non oltre il 30 giugno 2001, con la conseguenza che la Calfin risultava titolare di un credito di 65 miliardi di vecchie lire verso il Comune di Roma e di un debito di pari importo verso la Bolton Industries da estinguersi nel successivo anno 2001;

(B) il fatto che il credito che la Bolton aveva nei confronti di Calfin era stato acquistato dalla capogruppo Genius la quale, dunque, si accollava il debito surrogandosi nella posizione creditoria di Bolton con la conseguenza che Calfin diveniva debitrice della capogruppo;

(C) il fatto che i successivi contratti di finanziamento stipulati all’interno del gruppo avevano quale ragione economica l’intento di consolidare nel medio e lungo termine una posizione debitoria, altrimenti esigibile a breve termine, senza che ciò influisse sul risultato del conto economico o dell’utile imponibile, come d’altronde rilevato alle pagine 9 e 10 del pvc; (D) il fatto che al pagamento del Comune di Roma del 20 aprile 2004, di Euro 29.881.699,42, seguiva, in data 22/04/2004, il trasferimento di tale somma a Prima per estinguere il debito derivante dal contratto di finanziamento del 17 gennaio 2001 e che, a sua volta, Prima provvedeva a riversare la suddetta somma a Genius per onorare il contratto di finanziamento del 14-22/12/2000 tra esse intercorrente, e ciò in quanto Genius (e non Calfin) aveva acquistato il credito nei confronti di Bolton surrogandosi a quest’ultima nella posizione debitoria di Calfin e che tale surroga costituiva il titolo giuridico sufficiente per riscrivere la posta passiva in bilancio relativa al pagamento del prezzo oggetto di finanziamento indipendentemente dall’esistenza del flusso monetario.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la violazione dell’art. 53 Cost., nonché dei principi in materia di abuso di diritto, nella parte in cui i secondi giudici hanno configurato un comportamento elusivo nonostante la condotta della contribuente non fosse in alcun modo tesa ad un utilizzo distorto delle norme tributarie per trarne indebiti vantaggi fiscali ma dall’intento di sollevare la Calfin dall’obbligo di corrispondere a breve termine il prezzo della cessione del credito verso il Comune di Roma mantenendola, tuttavia, titolare di una consistenza voce attiva di bilancio. Secondo l’assunto della ricorrente, la prospettiva del profitto dell’operazione non risiedeva nel finanziamento infragruppo, bensì nell’attesa da parte di Genius di un differenziale positivo tra quanto pattuito con Bolton per l’acquisto del credito sulla Calfin per la cessione del credito verso il Comune di Roma e poi per quanto effettivamente il Comune di Roma avrebbe versato (il credito originario di lire 12.050.080.000 era lievitato, per interesse rivalutazione ad oltre 100 miliardi di lire).

1.4. Con il quarto, infine, deduce la violazione di legge e segnatamente dell’art. 88 T.U.I.R., nella parte in cui secondi giudici non hanno considerato che la sopravvenienza è imponibile solo se si riferisce al venir meno di costi in precedenza dedotti fiscalmente mentre l’eliminazione di un costo che non aveva trovato riconoscimento fiscale non comporta invece, per simmetria, alcuna sopravvenienza.

2. I fatti che hanno originato la vicenda in esame sono pacifici, non essendo contestato che Calfin, in data 16/11/2000, acquistò da Bolton Industries LTD, un credito verso il Comune di Roma per il prezzo di lire 65 miliardi (Euro 33.569.698,44), che con atto del 06/12/2006 Genius (controllante del gruppo di cui faceva parte Calfin) si accollò il debito che Calfin vantava verso Bolton, che contestualmente Genius cedeva il suddetto credito a Prima, senza obbligo di restituzione e senza interessi, fino al 31/12/2003, che in data 8 gennaio 2001, Calfin ottenne da Prima un finanziamento per l’importo di Euro 33.569.698,44 per il pagamento del prezzo di cessione del credito, che in data 14 dicembre 2000 Prima ottenne da Genius analogo finanziamento per l’importo di 65 miliardi di lire (Euro 33.569.698,44) e che, nel 2004, Calfin incassò dal Comune di Roma la somma di Euro 29.881.699,42, quale quota parte del maggior credito (originario) di lire 65 miliardi.

2.1. Tali fatti risultano confermati anche dalla sentenza di questa Corte n. 14606 del 25/05/2019, su ricorso dell’Agenzia delle entrate nei confronti di Holding Prima s.r.l. che, nel cassare la sentenza impugnata per vizio motivazionale, ha dato per assodati i fatti appena descritti oggetto delle risultanze delle verifiche della Guardia di Finanza e dei conseguenti processi verbali di constatazione.

2.1. In tale perimetro di fatti pacifici, ciò che la difesa della società ricorrente addebita alla sentenza impugnata, è l’aver dichiarato la sussistenza di un’operazione abusiva in dispregio delle garanzie costituzionali di cui agli artt. 24,53 e 111 Cost., delle norme regolatrici delle sopravvenienze attive (art. 88 T.U.I.R.), nonché in carenza, anche motivazionale, degli elementi essenziali che, in diritto, sarebbero idonei a caratterizzare il comportamento elusivo.

2.2. Si tratta, dunque, di accertare se, mediante il debito iscritto in bilancio tra le passività dello stato patrimoniale della Calfin (debito avente ad oggetto il prezzo di cessione del credito) ed il corrispondente finanziamento ottenuto, in data 8 gennaio 2001, dalla controllante Prima per l’importo di Euro 33.569.698,44, la Calfin perseguisse l’unico scopo di consentire il flusso finanziario in uscita verso la holding controllante, per rendere neutro e, quindi, intassabile come sopravvenienza attiva, l’accredito di Euro 29.881.699,42, effettuato dal Comune di Roma in favore di Calfin. 3. La soluzione della questione richiede di delineare, anzitutto, i principi regolatori della fattispecie elusiva di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7.

3.1. Questa Corte, sin dalle sentenze a Sezioni unite del 2 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057, ha riconosciuto l’immanenza nel sistema tributario italiano del divieto di abuso del diritto divieto enucleabile in base ai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.).

3.1. L’importante affermazione giurisprudenziale di cui alle sentenze indicate, giunge al termine di un complesso percorso interpretativo, nel quale questa Corte si è interrogata sulla generale applicabilità del principio comunitario di divieto dell’abuso del diritto, in precedenza affermato dalla Corte di giustizia (Corte giustizia Ce, grande sezione, sentenza del 21 febbraio 2006, cause C-255/02 e C223/03, Halifax; Corte giustizia Ce, sentenza del 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Part. Service).

3.2. Gli esiti di tale percorso interpretativo – che originariamente ponevano il dubbio, dell’applicabilità del principio nei settori non armonizzati ma solo in quanto “principio tendenziale”, che avrebbe dovuto condurre il giudice a ricercare, nell’ordinamento nazionale mezzi giuridici appropriati per il contrasto dell’abuso, come, nel nostro ordinamento consentiva il ricorso alle ipotesi di nullità dei contratti per mancanza per illiceità di causa (artt. 1418 e 1344 c.c.), dubbio immediatamente superato dalla considerazione che il principio dell’abuso di diritto si impone nell’ordinamento tributario italiano “pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali” e, quindi, anche “al di fuori dei tributi armonizzati o comunitari” (Cass. 17/10/2008, n. 25374) – hanno portato alla configurazione di un principio di divieto dell’abuso del diritto “autonomo” rispetto a quello di derivazione comunitaria, in quanto i principi di capacità contributiva e di progressività (art. 53 Cost.), renderebbero sussistente nel sistema nazionale “il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione”, affermazione che non contrasterebbe con la presenza di specifiche norme antielusive (tra cui il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis), che vanno apprezzate come “mero sintomo dell’esistenza di una regola generale” (così, Sez. U., 23/12/2008, n. 30055).

3.3. L’elaborazione della giurisprudenza tributaria di questa Corte ha dunque perimetrato l’ipotesi della condotta abusiva ad ogni operazione economica realizzata attraverso l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici posti in essere al solo scopo, elusivo, di realizzare un risparmio di imposta, con la conseguenza che il divieto di siffatte operazioni non opera in presenza di ragioni economicamente apprezzabili che si possano spiegare altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (cfr., ex plurimis, Sez.U., 23/12/2008,n. 30055;Sez.5,30/11/2012,n. 21390; Sez. 5, 06/03/201 5, n. 4561; Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 31/12/2019, n. 34750; Sez. 5, 24/06/2021, n. 18239; Sez. 5, 21/07/2020, n. 15510; Sez. 5, 02/04/2021, n. 9135).

3.4. In tale prospettiva, si è chiarito che il principio dell’abuso di diritto il cui fondamento si rinviene nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, non sarebbe in contrasto con il principio di riserva di legge, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non si tradurrebbe nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali e comporterebbe l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretende di far discendere dall’operazione elusiva (Cass. 19/2/2014, n. 3938).

3.5. Quanto alla prova del disegno elusivo, nonché delle modalità di distorsione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato ed utilizzati solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, dovendo l’Amministrazione dimostrare che la ragione “prevalente” che sorregge la scelta giuridica del contribuente è quella del risparmio fiscale, prova che può esser data mettendo a confronto il comportamento posto in essere con “il comportamento fisiologico aggirato, onde far emergere quella anomala differenza incompatibile con una normale logica economica” (v. Sez. 5, 21/01/ 2009, n. 1465; id. Sez. 5, 26/02/2014, n. 4603). Il contribuente, per contro, potrà provare la sussistenza di ragioni economicamente apprezzabili, alternative e concorrenti, dotate di ragionevole consistenza, e non meramente marginali rispetto allo schema negoziale adottato. Ciò comporta che spetta all’Amministrazione finanziaria l’onere di spiegare perché lo schema negoziale impiegato dal contribuente abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa (Sez. 5, 30/11/2012, n. 21390; Sez. 5, 20/5/2016, n. 10458), mentre ricade sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.

3.6. Ed infatti, dal punto di vista della configurazione formale dell’abuso, ci si è preoccupati di trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, osservandosi che il carattere abusivo di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (cfr. Sez. U, n. 30055 e 30057 del 2008; CGUE nei casi 3M Italia, Halifax, Part. Service), presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Sez. 5, 30/11/2012 n. 21390, par. 3.2) rispetto al quale indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (cfr. Sez. 5, 26/02/2014, n. 4604).

3.7. Nell’intento di perseguire la pianificazione fiscale aggressiva, la Commissione Europea ha diramato la raccomandazione 2012/772/ UE agli Stati membri di intervenire ogniqualvolta vi sia “una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sta stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale” (montages articiels, artificial arrengement, mecanismo artificial, come inteso nelle varie versioni linguistiche), precisando all’uopo che “una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale” (p. 4.4), o più esattamente di “sostanza economica” (p. 4.2), e “consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali”, mentre “una data finalità deve essere considerata fondamentale se qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le circostanze del caso” (cfr. Sez. 5, 14/01/2015, n. 438 e Sez. 5, 14/01/2015,n. 43, p.8.3) 3.8. Lo stesso intento lo ha perseguito il legislatore nazionale con la L. 11 marzo 2014, n. 23 che, nel delegare al governo l’attuazione della disciplina dell’abuso del diritto (D.Lgs. 15 agosto 2015, n. 128, recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente) in ottemperanza alla raccomandazione 2012/772/UE, sulla pianificazione fiscale aggressiva, ha indicato tra i principi ed i criteri direttivi quelli di definire la condotta abusiva come un uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta” (Sez. U. n. 30055 del 2008 e 30057 del 2008; CGUE 3M Italia), di “garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale” (CGUE Part. Service) di “considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva” (rectius “scopo essenziale”, CGUE Halifax e Part. Service).

3.9. In tale linea interpretativa si pone l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente che pur non applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie in esame (D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5), risponde alle esigenze tracciate dalle fonti comunitarie e nazionali, stabilendosi che si è in presenza dell’abuso del diritto allorché “una o più operazioni prive di sostanza economica”, pur rispettando le norme tributarie, realizzano essenzialmente “vantaggi fiscali indebiti” (comma 1), chiarendosi che un’operazione è priva di sostanza economica se “i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati”, sono “inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, precisandosi che sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato” (comma 2) e ribadendo che, ferma restando la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale (comma 4), non possono considerarsi abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo, che “rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3) (in termini, Sez. 5, 16/3/2016, n. 5155; Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 5/12/2019, n. 31772, in motivazione; conf. Cass. n. 438 e 439 del 2015, cit., in motivazione).

4. Nel solco dei principi espressi dalla raccomandazione 2012/772/UE ed all’attuazione che di essa ne ha dato il nostro ordinamento come innanzi indicati, questa Corte è giunta, dunque, ad affermare un generale principio antielusivo rinvenibile nella Costituzione e nelle indicazioni della raccomandazione n. 2012/772/UE, configurabile ogni qual volta si sia in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l’imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali (cfr., ex plurimis, Sez. 5, 23/11/2018, n. 30404; Sez. 5, 30/12/2019, n. 34595; Sez. 5, 02/03/2020, n. 5644; Sez. 5, 02/02/2021, n. 2224).

4.1. Per configurare la condotta abusiva e’, dunque, necessario un’attenta valutazione delle “ragioni economiche” delle operazioni negoziali che sono poste in essere, in quanto, se le stesse sono giustificabili in termini oggettivi, in base alla pratica comune degli affari, minore o del tutto assente è il rischio della pratica abusiva; se invece tali operazioni, pur se effettivamente realizzate, riflettono, attraverso artifici negoziali, assetti di “anormalità” economica, può verificarsi una ripresa fiscale là dove è possibile individuare una strada fiscalmente più onerosa. In tal senso, la prova dell’elusione deve incentrarsi sulle modalità di manipolazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché sulla loro mancata conformità ad una normale logica di mercato.

5. Alla luce di siffatti principi devono essere rigettati tutti e quattro i motivi di ricorso.

6. Quanto al primo motivo, l’immanenza del nostro ordinamento, interno e sovranazionale, del generale principio del divieto dell’abuso di diritto, determina la rilevabilità, ex officio, nella singola fattispecie concreta, del relativo principio, quale strumento essenziale finalizzato a garantire la piena applicazione del sistema comunitario di imposta. Tale rilevabilità, nel processo tributario italiano, è coerente con l’altro più generale principio secondo cui le ragioni poste a fondamento dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario – che è un giudizio a carattere impugnatorio – sicché sebbene l’Ufficio finanziario non possa porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare la motivazione dell’atto nel corso del giudizio, rimane comunque il potere che ciascun giudice ha – in quanto connaturale all’esercizio stesso della giurisdizione, quand’anche abbia ad oggetto il mero riesame di atti – di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa (v., ex plurimis, Sez. 5, 11/05/2012, n. 7393).

6.1. Ne’ può ritenersi precluso, allo stesso giudice, l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo di impugnazione di atti, come quello amministrativo di legittimità (v., ex pluribus, Sez. 5, 21/10/2005, n. 20398, seguita dalla giurisprudenza successiva, tra cui, v. Sez. 5, 30/09/2011, n. 20029; Sez. 5, 28/06/2016, n. 13294; Sez. 6 – 5, 15/10/2018, n. 25629) e ciò, a maggior ragione, con riferimento al principio generale, particolarmente delicato, relativo all’esistenza dell’abuso del diritto in quanto collegato ad un’operazione di occultamento di sopravvenienze di valore milionario.

6.2. Non può trascurarsi di considerare, infine, che il tema in parola deve ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell’allegazione, da parte della società contribuente – sulla quale incombe l’onere di provare i presupposti di fatto dell’invocata inesistenza della sopravvenienza attiva – della regolarità fiscale dell’operazione di finanziamento infragruppo.

7. Le censure dedotte col secondo ed il terzo mezzo, per quanto suggestive, non riescono a dare fondamento alla tesi ivi sostenuta secondo cui, pur in presenza di un accreditamento di vari milioni di Euro, non si sono determinate sopravvenienze attive, tassabili, ma soltanto una serie di accolli operati dalle società dello stesso gruppo al fine di ottenere un risultato contabile – sollevare Calfin dall’obbligo di corrispondere a breve termine il prezzo della cessione del credito verso il Comune di Roma mantenendola nel contempo titolare di una consistenza voce attiva di bilancio – non incidente sul conto economico e, quindi, neutro sul piano fiscale.

7.1. Contrariamente all’assunto della ricorrente, la fattispecie in esame presenta una serie di elementi “anomali” derivanti dalla contestuale doppia operazione di finanziamento, tra società infragruppo, di un credito che, anche quando è stato incassato, per la quota parte di Euro 29.881.699,42, non ha generato alcuna movimentazione di denaro, né alcuna appostazione contabile.

7.2. La forte sintomaticità dell’uso distorto dello strumento negoziale adoperato è data, in primo luogo, dalla mancanza di esborso del doppio finanziamento (infruttifero) a Calfin da Prima e da Genius a quest’ultima (v. dichiarazioni del Prof. D.R., pag. 8 del pvc riportato a pagina 8 del controricorso), nonché alla mancanza di pagamenti relativi alla cessione del credito, causa, a monte, degli stessi finanziamenti (pag. 7 pvc, riportata a pag. 8 del controricorso). Che tale doppio finanziamento avvenisse tra società controllanti e controllate dello stesso gruppo (Calfin è controllata da Prima all’89% e quest’ultima che, ottiene, per lo stesso credito, il finanziamento dalla società madre Genius, è sua volta controllata da quest’ultima), colora di ulteriore anomalia tali finanziamenti che, in quanto essenzialmente “vuoti” per essere destinati a saldare un debito verso il medesimo finanziatore, evidenziano la fittizietà dell’operazione.

7.3. Deve essere, inoltre, considerato che, a fronte di tale anomala operazione societaria, la giustificazione, a discarico, offerta dalla contribuente – secondo cui l’accollo del debito da parte di Genius ed il relativo finanziamento “rispondeva alla precisa esigenza, avvertita dal gruppo societario, di dotare questo soggetto di una consistente voce attiva di bilancio, ancorché vista la coincidente posizione debitoria creditoria, ciò non avrebbe influito né sul risultato del conto economico né sull’utile imponibile” e che “(…)la prospettiva di profitto dell’operazione (…) risiedeva (…) nell’attesa di parte Holding Genius One di un differenziale positivo(…)” (v. pagina 42 del ricorso) – appare priva di senso logico, oltre che priva di senso economico e giuridico in quanto, in primo luogo, non è in grado di fornire alcuna giustificazione economica riconducibile alla Calfin supponendo, invece, un controvalore economico dell’operazione in capo a Genius, società controllante, senza provare, nel contempo, che quest’ultima abbia incassato qualche differenziale; in secondo luogo, perché, invece di comprovare l’interesse economico sotteso all’operazione di doppio finanziamento infruttifero, si limita a ribadire la natura meramente contabile (“controvalore contabile”) dell’operazione nei confronti di Calfin senza offrire alcun elemento, anche indiziario, per comprovare le movimentazioni di danaro sottese all’operazione. Pertanto, dalle stesse giustificazioni addotte dalla contribuente, se ne deduce, sul piano logico, prima ancora che giuridico, che la posta passiva in oggetto (obbligo di restituzione), sia stata iscritta nei libri contabili della Calfin al solo fine di evitare la tassazione dell’introito rappresentato dalla somma pagata dal Comune di Roma e, quindi, per conseguire un mero vantaggio di natura fiscale.

7.4. In tale cornice assume forte sintomaticità il profilo abusivo evidenziato dalla CTR che ha correttamente affermato che nella realtà finanziaria “non esiste” una società finanziaria che presti denaro dello stesso ammontare del credito nominativo essendo tipico della logica degli affari che il finanziamento sia concesso per una cifra inferiore al valore nominale in modo da garantirne un profitto finanziario, quale rischio insito nel recupero del credito, mentre, nella specie, si è trattato di un rischio puramente nominale e non reale, non essendovi stata alcuna finanziamento effettivo.

8. Il quarto motivo è inammissibile alla luce del pacifico e costante orientamento di questa Corte secondo cui in tema di imposte sui redditi d’impresa, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 55, del qualifica come sopravvenienza attiva da iscrivere in bilancio anche la sopravvenuta insussistenza di passività iscritte in precedenti esercizi, ovvero esistenti al momento della loro iscrizione e poi venute meno per fatti sopravvenuti, ipotesi da tenersi distinta rispetto alla passività fittizia, cioè inesistente, che come tale non può essere equiparata alle altre passività iscritte nei precedenti esercizi in quanto essa rileva al momento della sua eliminazione per decisione discrezionale del contribuente (v., ex pluribus, Sez. 5, 02/08/2017, n. 19219; sulle differenze con le passività fittizie, v. Sez. 5, 14/12/2018, n. 32433).

9. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere rigettato con condanna della società ricorrente, soccombente, al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessivi Euro 22.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2022

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