LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STALLA Giacomo Maria – Presidente –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –
Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso R.G. 3461/2014 proposti da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
ERIF INVEST s.r.l., ed ERIF ONE s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difesa dall’avv.to Riccardo Conte, elettivamente domiciliate in Roma presso lo studio dell’avv. Giuseppe Miani via Tintoretto 88;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 81/22/13 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 02/08/2013;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 02/02/2022 dal Consigliere Relatore Dott. RITA RUSSO.
RILEVATO
che:
Erif Invest s.r.l. ed Erif One s.r.l. impugnavano dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano gli avvisi di liquidazione notificati dall’Agenzia delle entrate in relazione agli atti negoziali posti in essere, rispettivamente, da Erif Invest s.r.l. e Erif – One s.r.l. (avviso di liquidazione n. *****) e da Erif Costruzioni s.r.l., poi incorporata in Erif Invest s.r.l. e Erif – One s.r.l. (avviso di liquidazione n. *****).
L’Ufficio richiedeva il pagamento delle maggiori imposte procedendo alla riqualificazione di una serie di atti negoziali posti in essere dalle società in atto di cessione di ramo d’azienda, con correlativa applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale, anziché in maniera fissa.
L’Agenzia riteneva l’esistenza di un collegamento tra i singoli negozi giuridici, i quali dovevano essere considerati produttivi di un unico effetto giuridico – tributario di cessione di ramo d’azienda.
Le contribuenti lamentavano l’illegittimità degli avvisi per violazione dell’art. 20 T.U.R., in quanto la nuova formulazione della norma chiariva che gli effetti, da considerare ai fini della tassazione dell’atto, erano quelli giuridici e non quelli economici. Secondo le ricorrenti, l’Agenzia aveva erroneamente richiamato, in relazione alle operazioni poste in essere dalla società, la nozione di abuso del diritto, in quanto le società non intendevano ottenere un risparmio di imposta, ma procedere alla riorganizzazione aziendale.
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con sentenza n. 212/21/12, respingeva il ricorso. Le società contribuenti appellavano la pronuncia dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che, con sentenza n. 81/22/13, accoglieva il gravame ritenendo che gli atti di conferimento di ramo d’azienda e di cessioni di partecipazioni non potevano essere riqualificati come un unico negozio di cessione di ramo d’azienda, escludendo che l’art. 20 T.U.R., consentisse il riferimento ad elementi extratestuali. Inoltre, la società aveva dimostrato la sussistenza di valide regioni economiche di riorganizzazione del gruppo che giustificavano l’operazione economica e consentivano di escludere il carattere di elusività alla stessa. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza affidandosi a due motivi. Erif Invest S.r.l. ed Erif-One S.r.l., si sono costituite con controricorso, illustrato con memorie. All’udienza del 24 ottobre 2019, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo, per la pendenza della questione di costituzionalità er avanzata da questa Corte con ordinanza n. 23549 del 2019. In esito alla udienza del 2.12.2020 è stata ulteriormente rinviata a nuovo ruolo per la pendenza di altra questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna.
La causa è stata quindi nuovamente trattata all’adunanza camerale non partecipata del 2 febbraio 2022.
RITENUTO
che:
1. – Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, in combinato disposto con gli artt. 1362 c.c..
L’Ufficio evidenzia che le società del Gruppo Erif nel 2008 hanno posto in essere una serie di atti negoziali in breve lasso di tempo: le società vengono costituite il ***** e gli atti di acquisto delle partecipazioni da parte di Erif One s.r.l. avvengono il *****. Si chiede, pertanto, alla Corte di valutare se tale fattispecie complessa, costituita da tre negozi, stipulati in rapida sequenza, in collegamento tra loro – quali la costituzione di nuove società, l’aumento di capitale mediante conferimento di rami d’azienda e la cessione delle quote di partecipazioni ad un terzo soggetto (interno al medesimo gruppo di società) – possa essere sussumibile, ai sensi dell’art. 20 T.U.R., alla stregua di un atto di cessione di azienda.
Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 176 TUIR, comma 3, anche in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20. L’Ufficio contesta l’affermazione della Commissione Tributaria Regionale nella parte in cui sostiene che l’operazione posta in essere dalle società appellanti non possa es-sere considerata come operazione elusiva; e ciò per due motivi: a) l’art. 176 TUIR, comma 3, espressamente escluderebbe dall’ambito di applicazione della clausola generale antielusiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, il conferimento di azienda e la successiva cessione della partecipazione; b) la società avrebbe dimostrato la sussistenza di valide ragioni economiche a giustificazione delle operazioni realizzate. Tali argomentazioni, secondo l’Ufficio ricorrente, sarebbero ultronee e fuorvianti rispetto all’oggetto del giudizio, in quanto l’avviso di liquidazione sarebbe stato emanato in applicazione del potere di riqualificazione degli atti negoziali riconosciuto all’Agenzia delle entrate dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20. Il riferimento all’abuso del diritto contenuto negli avvisi di liquidazione sarebbe giustificato in ragione del fatto che, secondo l’orientamento della giurisprudenza dominante, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, è una norma antielusiva, essendo diretta ad impedire comportamenti che abbiano, quale unica finalità, quella di produrre un indebito vantaggio fiscale per il contribuente. Nel caso di specie, ciò sarebbe avvenuto perché le società coinvolte, al posto di un unico atto di trasferimento dell’azienda dall’originaria titolare alla Erif One s.r.l., hanno posto posto in essere tre atti distinti, realizzando, così, il vantaggio fiscale della tassazione con imposta in misura fissa, anziché in misura proporzionale.
I motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono infondati 2.- Ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione deve avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extratestuali.
Prima degli interventi normativi del 2017/2018 la giurisprudenza di questa Corte, con alcune isolate pronunce, aveva affermato il principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente ” alla quale lo stesso art. 20, (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017), fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054 del 2017, Cass. n. 722 del 2019 e Cass. n. 6790 del 2020). In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20, fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre. Ciononostante, la giurisprudenza maggioritaria era orientata nel senso che dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610 del 2018).
L’intervento legislativo è avvenuto in due tempi: dapprima con la legge di bilancio 2018 (L. n. 25 del 2017) affermando la necessità di applicare l’imposta “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati” e la seconda con la legge di bilancio 2019 (L. n. 145 del 2018) affermando che si tratta di una norma di interpretazione autentica e quindi dotata – per definizione – di efficacia retroattiva (cfr. Cass. n. 23549 del 2019), essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal legislatore medesimo.
In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158 del 2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549 del 2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.
2.1.- La Corte Costituzionale, premesso che l’interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, ha osservato che l’esclusione dalla rilevanza interpretativa degli elementi extratestuali e degli atti collegati, disposta dal legislatore con i menzionati interventi normativi del 2017 e 2018, non si pone in contrasto con i parametri costituzionali.
Infatti, “il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico”, salvaguardando “la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”.
Ha aggiunto che gli evocati parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost., non si oppongono in modo assoluto a una diversa concretizzazione da parte legislatore dei principi di capacità contributiva e, conseguentemente, di eguaglianza tributaria, che sia diretta (come stabilito dalla norma censurata) a identificare i presupposti impostivi nei soli effetti giuridici desumibili dal negozio contenuto nell’atto presentato per la registrazione, senza alcun rilievo di elementi tratti aliunde, “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” dello stesso testo unico. Ha, inoltre, evidenziato che l’interpretazione evolutiva dell’art. 20, incentrata sulla nozione di causa reale, provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, in quanto “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale”, pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea.
Ciò non toglie che eventuali condotte di sottrazione all’imposizione di effettiva ricchezza imponibile possa rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto, alla cui repressione, tuttavia, non è funzionale la disposizione di cui al citato art. 20.
2.3.- Con successiva sentenza n. 39 del 16 marzo 2021 la Corte Costituzionale ha ribadito il giudizio di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, in relazione alla violazione degli artt. 3 e 53 Cost..
Nel richiamare la precedente pronuncia la Corte ha ritenuto che la retroattività conseguente alla natura di interpretazione autentica riconosciuta alla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), trova adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasta con altri valori e interessi costituzionalmente protetti, avuto riguardo al carattere di sistema assunto dall’intervento legislativo oggetto di scrutinio, e che, per tale motivo, si sottrae al dubbio sollevato dal remittente.
Evidenzia, inoltre, che la medesima ragione impone di disattendere la censura di irragionevolezza della disposizione anche sotto il profilo della ipotizzata violazione dei “motivi imperativi di interesse generale” desumibili dall’art. 6 CEDU, sottolineando che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione e non viceversa.
3.- In sintesi, il legislatore, con un intervento ritenuto conforme ai parametri costituzionali, ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.
La più recente giurisprudenza di questa Corte si è pertanto orientata nel senso che: “In tema di imposta di registro, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 – nella formulazione successiva alla L. n. 205 del 2017, che, secondo la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ne ha fornito l’interpretazione autentica e alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 158 del 2020, e n. 39 del 2021 – è legittima l’attività di riqualificazione dell’atto da registrare da parte dell’Amministrazione soltanto se operata “ab intriseco”, cioè senza alcun riferimento agli atti ad esso collegati e agli elementi extra-testuali, non potendosi essa fondare sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dall’atto” (Cass. n. 10688 del 2021; Cass. n. 9065 del 2021).
Pertanto, nel caso sottoposto all’esame di codesta Corte l’amministrazione finanziaria non aveva facoltà di riqualificare l’atto in base ad elementi extratestuali.
4.- Ne’ può dirsi che la riqualificazione sia diretta di per sé a far rilevare una forma di abuso del diritto o di elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare. L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.
Pertanto, se una diversa lettura del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così come risulta autenticamente interpretato dal legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ove ricorra l’abuso del diritto, mediante l’applicazione dello Statuto del Contribuente, art. 10 bis, stante l’espresso richiamo contenuto nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, si richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è detto (Cass. n. 10688 del 2021).
Ne consegue il rigetto del ricorso Le spese del complessivo giudizio possono essere compensate, per la complessità della questione interpretativa trattata, e in ragione del recente consolidamento della giurisprudenza nei termini sopra precisati.
PQM
Rigetta il ricorso.
Compensa interamente le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, tenutasi da remoto, il 2 febbraio 2022.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2022