LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MELONI Marina – Presidente –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4383/2021 proposto da:
M.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Assunta Fico;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi 12;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1009/2020 della Corte d’appello di Catanzaro, depositata il 3/7/2020;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 14/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 1009/2020 depositata in data 3/7/2020, ha respinto l’impugnazione di M.S., cittadino del Bangladesh, avverso ordinanza del Tribunale che aveva respinto la sua richiesta, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.
In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che: il racconto del richiedente (essere scappato dal Paese d’origine, per il timore di essere ucciso da un usuraio, avendo contratto un prestito e non essendo riuscito a saldare il debito) era non credibile, per genericità ed incoerenza, non essendo tra l’altro stato chiarito il motivo per cui non si era chiesto aiuto alle Autorità locali, e doveva essere confermato il giudizio del Tribunale sull’insussistenza dei presupposti del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; in ordine alla protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il motivo era infondato perché non sussisteva in Bangladesh una situazione di violenza indiscriminata (sulla base siti di informazione consultati: *****); neppure ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, non essendo sufficiente la mera aspirazione a condizioni di vita migliori ed in difetto di condizioni di vulnerabilità.
Avverso la suddetta pronuncia, M.S. propone ricorso per cassazione, notificato il 29/1/2021, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).
E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in punto di ritenuta non credibilità delle dichiarazioni del richiedente, anche senza attivazione dell’obbligo di cooperazione officiosa da pari del giudice; con il secondo motivo, si denuncia poi la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8-27, in relazione al diniego di protezione sussidiaria a fronte del dedotto pericolo di un danno grave per via dell’impossibilità di ricevere adeguata tutela da parte delle Autorità locali del paese di provenienza; infine, con il terzo motivo, si denuncia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in relazione alla mancata comparazione tra la situazione personale del richiedente, in Italia (non meglio descritta), rispetto alla vulnerabilità conseguente al rientro forzoso nel Paese d’origine, considerata la grave crisi sanitaria in Bangladesh ed il rischio di morte allegato per mano degli usurai.
2. La prima e la seconda censura sono inammissibili.
La doglianza è inammissibile, in relazione alla situazione del Paese d’origine, perché mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).
Quanto alla lamentata violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, il disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b), (esame su base individuale della dichiarazione e della documentazione presentate dal richiedente) non può essere inteso nel senso di imporre l’analitica valutazione di ciascun documento prodotto al giudicante, il quale, al contrario, è tenuto a enunciare le ragioni del proprio convincimento senza tuttavia dover passare in rassegna ciascuna delle prove offerte dal richiedente asilo ed effettuare una precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio; la stessa norma, al comma 5, detta i criteri della decisione in merito alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ma non prescrive una valutazione, separata e prioritaria, dei documenti prodotti dal migrante; al contrario, il giudicante è tenuto a un apprezzamento globale della congerie istruttoria raccolta, cosicché anche in questa materia la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è obbligato a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie ma deve soltanto fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.
Nel caso di specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione dei principi sopra enunciati, ha ritenuto che i molteplici aspetti di genericità e contraddittorietà delle dichiarazioni del migrante pregiudicassero l’accoglimento della domanda di protezione internazionale presentata e, in questo modo, ha attribuito alla inverosimiglianza del racconto carattere determinante.
Inoltre, si è ulteriormente chiarito (Cass. n. 27593/2018) che “in tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati”, cosicché “la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (cfr. anche (Cass. n. 27503/2018 e Cass. n. 29358/2018).
Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito.
Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati.
3. Il terzo motivo è invece fondato.
Vero è che il giudice del merito era chiamato a valutare, secondo il regime applicabile ratione temporis (Cass. n. 4890/2019), la sussistenza del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, all’esito di una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (Cass. n. 4455/2018).
Il ricorrente censura il rigetto della richiesta di protezione umanitaria, lamentando che la Corte d’appello non avrebbe vagliato la condizione di particolare vulnerabilità cui sarebbe esposto il richiedente, in caso di rientro nel Paese, con riferimento alla perdita dell’integrazione raggiunta in Italia, essendo stato assunto nel 2017 con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, come inserviente di cucina in ditta di ristorazione, avendo reperito in ***** un alloggio, come da contratto di locazione esibito, avendo frequentato con profitto corsi di lingua italiana, avendo intessuto anche relazioni amicali, grazie al lavoro.
Ora la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio né integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali e che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato no era sufficiente ai fini di un’effettiva integrazione in Italia.
Le Sezioni Unite (Cass. n. 24413/2021) si sono nuovamente pronunciate sul tema della protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, e del contenuto della valutazione comparativa affidata al giudice, tra la situazione che, in caso di rimpatrio, il richiedente lascerebbe in Italia e quella che il medesimo troverebbe nel Paese di origine, già condiviso dalle Sezioni Unite, con la precedente sentenza n. 29459/2019, affermando il seguente principio di diritto: “In base alla normativa del T.U. Imm. anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese d’origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare, sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dalla Convenzione EDU, art. 8, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno”. In motivazione, le Sezioni Unite hanno chiarito che: a) “fermo restando, quindi, che l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria postula sempre, proprio per l’atipicità dei relativi fatti costitutivi, l’esigenza di procedere a valutazioni soggettive ed individuali, da svolgere caso per caso, deve dunque confermarsi il principio, già enunciato in SS.UU. n. 29459/2019, che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato”; b) “tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alle condizioni soggettive e oggettive del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano” (secondo quanto già affermato dalle Sezioni semplici nelle pronunce n. 1104/2020 e n. 20894/2020); c) “l’integrazione sociale non costituisce una condicio sine qua non della protezione umanitaria, bensì uno dei possibili fatti costitutivi del diritto a tale protezione, da valutare, quando sussista, in comparazione con la situazione oggettiva e soggettiva che il richiedente ritroverebbe tornando nel suo Paese di origine, anche con riguardo alla situazione soggettiva – sotto il profilo della permanente sussistenza di una rete di relazioni affettive e sociali”; d) “il grado di integrazione del richiedente in Italia assume una rilevanza proporzionalmente minore e, in situazioni di particolare gravità – quali la seria esposizione alla lesione dei diritti fondamentali alla vita o alla salute, conseguente, ad esempio, a eventi calamitosi o a crisi geopolitiche che abbiano generato situazioni di radicale mancanza di generi di prima necessità – può anche non assumere alcuna rilevanza”; e) “per contro, in presenza di un livello elevato d’integrazione effettiva nel nostro Paese desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro quella più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento – saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore”.
Ora, nel presente giudizio, la Corte di merito ha escluso una situazione personale di vulnerabilità soggettiva ed oggettiva, meritevole di protezione per ragioni umanitarie, rilevando, essenzialmente, che, a fronte della non credibilità di quanto narrato dal richiedente e della situazione generale del Paese d’origine, non sussistendo diritti che potessero essere pregiudicati dal rientro in patria della richiedente protezione, per quanto già espresso in ordine all’inesistenza di un rischio di persecuzione o di pregiudizio in un contesto di violenza generalizzata in Bangladesh, la documentazione allegata dalla richiedente, in ordine al rapporto di lavoro in essere (dal 2017), non era comunque sufficiente ad integrare il requisito della integrazione effettiva nel nostro Paese.
La statuizione non risulta conforme ai principi di diritto sopra richiamati, in quanto, a fronte di un buon livello di effettiva integrazione in Italia, testimoniato dalla formazione scolastica raggiunta e dal costante svolgimento di regolare attività lavorativa, nonché dalla sistemazione abitativa (tutti documenti allegati in sede di merito), è mancata una corretta valutazione comparativa tra la odierna situazione del ricorrente e la possibile compressione del nucleo dei suoi diritti fondamentali, in caso di rimpatrio in Bangladesh. Invero, si imponeva, per le considerazioni da ultimo condivise dalle Sezioni Unite di questa Corte, una valutazione comparativa “attenuata” dell’elemento oggettivo costituito dalle presumibili condizioni di vita, sotto tutti i profili, economico, lavorativo, sociale e relazionale, che attendono il richiedente asilo di ritorno nel Paese di origine, rispetto al secundum comparationis rappresentato dal livello di effettiva integrazione nel nostro Paese.
Risulta, invero, doveroso, alla luce di quanto, da ultimo, ulteriormente chiarito dalle Sezioni Unite, valutare non solo il rischio di danni futuri, legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante potrà trovare nel Paese di origine, ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, lavorative ed in generale del radicamento nel tessuto sociale italiano raggiunto, incidente sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, di cui alla Convenzione Edu, art. 8, e sul diritto alla dignità della persona, riconosciuto nell’art. 3 Cost., ed a svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell’art. 2 Cost..
3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, respinti gli altri motivi, va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, respinti gli altri, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, anche in punto di liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2022