LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 23244 del ruolo generale dell’anno 2014 proposto da:
Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;
– ricorrente principale –
contro
Firenze Fiera s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Laura Castaldi, Nicola L. de Renzis Sonnino e Livia Salvini, elettivamente domiciliata in Roma, viale Mazzini, n. 11, presso lo studio di quest’ultimo difensore;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, n. 320/24/2014, depositata in data 18 febbraio 2014;
udita la relazione nella pubblica udienza del 13 gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Locatelli Giuseppe, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle entrate;
letta la memoria difensiva depositata dalla controricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Locatelli Giuseppe, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso principale e l’accoglimento del quinto motivo di ricorso incidentale.
FATTI DI CAUSA
Dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata nonché dagli atti difensivi delle parti si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Firenze Fiera s.p.a. degli avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2005 e 2006, aveva contestato, per quanto ancora di interesse: l’omessa dichiarazione di ricavi imponibili, per non avere proceduto al riaddebito dei costi relativi al distacco di personale eseguito presso la propria controllata Firenze Convention Bureau s.c.a.r.l., la mancata applicazione dell’Iva sui corrispettivi derivanti dal rimborso dei costi del personale distaccato e, infine, la non inerenza dei costi, ai fini Iva e delle imposte dirette, sostenuti per la ristrutturazione dell’immobile di via Perfetti Ricasoli; avverso i suddetti atti impositivi la società aveva proposto separati ricorsi che, previa riunione, erano stati accolti dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze; avverso la pronuncia di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello.
La Commissione tributaria regionale della Toscana ha parzialmente accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’omesso riaddebito dei costi a carico della società controllata non poteva costituire una omessa dichiarazione dei ricavi, non sussistendo, peraltro, un principio generale di obbligo di riaddebito dei costi del personale distaccato; circa, poi, la contestazione della mancata applicazione dell’Iva sulle fatture ricevute in conseguenza del riaddebito dei costi da parte della società distaccataria, doveva trovare applicazione l’espressa previsione di cui alla L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35; infine, con riferimento alla pretesa relativa ai costi connessi ai lavori di ristrutturazione sull’immobile di *****, assumeva rilevanza il comportamento antieconomico tenuto dalla società con l’acquisto dell’immobile, da cui era derivata anche l’antieconomicità della locazione, nonché la non inerenze dei costi, in quanto i lavori erano stati eseguiti per esigenze non ascrivibili alla diretta utilizzazione della contribuente.
L’Agenzia delle entrate ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi di censura, cui ha resistito la controricorrente depositando controricorso e notificando ulteriore ricorso, cui attribuire il valore di ricorso incidentale, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso contenente ricorso incidentale, avente censure identiche a quelle già proposte con il ricorso principale.
La contribuente ha altresì depositato memoria.
il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Dott. Locatelli Giuseppe ha depositato le proprie osservazioni scritte con le quali ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Sul ricorso principale dell’Agenzia delle entrate.
Preliminarmente, va disattesa l’eccezione di inammissibilità di entrambi i motivi di ricorso proposta dalla contribuente, posto che, invero, nel ricorso risultano chiaramente esposte le ragioni di fatto e di diritto che consentono a questa Corte di apprezzare i termini delle questioni prospettate.
Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 2, per avere ritenuto che non sussisteva un obbligo per la contribuente, quale distaccante, di provvedere al riaddebito dei costi per il personale distaccato e di imputare tali importi tra i componenti positivi di reddito; diversamente, si evidenzia col presente motivo, qualora il distaccante non provveda a riaddebitare il costo del personale distaccato che egli stesso ha sostenuto, si verificherebbe una ingiustificata deduzione di costi che non ineriscono alla sua impresa ma dovrebbero fare carico al distaccatario.
Il motivo è infondato.
Va precisato che, come si evince dalla sentenza, nonché dal processo verbale di constatazione e dal contenuto degli avvisi di accertamento (riprodotti dalla contribuente nell’osservanza del principio di specificità dei motivi alle pagg. 12 e 13 del controricorso), quel che era stato contestato con gli atti impositivi era la omessa dichiarazioni di ricavi conseguenti al mancato riaddebito dei costi sostenuti per il personale dipendente distaccato presso la controllata.
In sostanza, secondo l’amministrazione finanziaria, la cui prospettazione è stata seguita dalla sentenza censurata, i costi sostenuti dalla società per il personale da essa distaccato presso la controllata avrebbero dovuto essere necessariamente riaddebitati nei confronti di quest’ultima, sicché l’omesso riaddebito si sarebbe tradotto, fiscalmente, in una omessa dichiarazione di ricavi.
Tuttavia, è pacifico in giudizio che la contribuente non ha provveduto al riaddebito dei costi sicché si pone la questione di valutare se effettivamente tale omissione possa tradursi in una omessa dichiarazione di ricavi, come contestato dall’Agenzia delle entrate.
A tal proposito, devono essere fatte due considerazioni.
In primo luogo, la censura prospettata dall’Agenzia delle entrate con il presente motivo, laddove pone l’attenzione sulla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 2, non è aderente al thema decidendum, posto che sposta l’attenzione, non correttamente, dalla ragione del recupero impositivo (relativo, come detto, all’omessa dichiarazione di ricavi) a quello, certamente diverso, come puntualizzato dalla difesa della controricorrente, della indebita deduzione di costi non inerenti che, tuttavia, non è riconducibile all’oggetto del contendere.
Il rilievo, come detto, non consisteva nel disconoscimento, da parte dell’amministrazione finanziaria, di costi non inerenti, con il loro conseguente recupero, ma nel preteso recupero di maggiori ricavi di cui si contestava l’omessa contabilizzazione, posto che, secondo l’assunto dell’Agenzia delle entrate, dovevano essere computati come ricavi i costi del personale distaccato per la parte non riaddebitata dalla distaccataria, e su tale questione specifica si era pronunciato il giudice del gravame.
In secondo luogo, va osservato che, posta l’attenzione unicamente sotto il versante della previsione di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85, la pretesa esercitata dalla amministrazione finanziaria non può dirsi corretta.
La questione di fondo, in particolare, va esaminata, come detto, entro i limiti del thema decidendum come risultano delineati dalla pretesa impositiva fatta valere dall’amministrazione finanziaria. Sotto tale profilo, la prospettazione dell’amministrazione finanziaria riguarda specificamente, ed esclusivamente, il trattamento fiscale, ai fini delle imposte dirette, dei costi sostenuti dalla contribuente per il personale distaccato in favore della controllata.
Come evidenziato, secondo l’amministrazione finanziaria, nell’ambito dell’accordo di distacco di personale posto in essere tra la contribuente (distaccante) e la società distaccataria, i costi sostenuti dalla prima dovevano necessariamente essere riaddebitati alla seconda, e, in questo ambito, il mancato riaddebito si traduceva, fiscalmente, in una omessa dichiarazione di ricavi.
In realtà, al citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85, prevede espressamente che “Sono considerati ricavi: a) i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa”.
La fattispecie del distacco di personale, sotto il profilo fiscale, va ricondotta nell’ambito della prestazione di servizi, nel quale l’obbligo del distaccante consiste nella messa a disposizione di proprio personale in favore della distaccataria, per il perseguimento di un proprio interesse, e di provvedere al pagamento dei costi; d’altro lato, la distaccataria si obbliga ad impegnare il personale presso la propria struttura ed a rimborsare alla distaccante i costi da questa sostenuti per il pagamento del personale presso la stessa distaccato. Il pagamento, da parte della distaccante, dei costi per il personale costituisce quindi l’adempimento di una propria obbligazione, mentre il rimborso del suddetto costo costituisce, per la distaccataria, l’assolvimento dell’obbligazione da essa assunta: è questo, in ultima analisi, il corrispettivo che questa è tenuta a corrispondere in osservanza dell’obbligazione assunta a seguito dell’accordo di distacco.
Ne consegue che, ponendo la prospettiva unicamente dal punto di vista della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria, cioè della omessa dichiarazione del maggior reddito ai fini delle imposte dirette, non può ragionarsi in termini di reddito non dichiarato se il distaccatario non provvede ad adempiere alla sua controprestazione, cioè al pagamento dei costi che la distaccante dovrebbe ad essa riaddebitare.
Sotto tale profilo, dunque, la circostanza che la contribuente non ha riaddebitato i costi non può tradursi in una omessa dichiarazione di ricavi per il fatto, come detto, che nessun corrispettivo è stata ad essa versato dalla distaccataria.
Ciò, evidentemente, ha i suoi effetti anche sul piano della deducibilità dei costi, nel senso che, in applicazione della previsione di cui al D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1 bis (corrispondente al comma 2 nella versione applicabile ratione temporis) gli importi spettanti a titolo di recupero di oneri per il personale distaccato non concorrono alla formazione della base imponibile della distaccante e, del pari, in capo all’utilizzatrice delle risorse umane, i detti costi risultano essere indeducibili ovvero concorrere alla base imponibile. Si tratta, tuttavia, come detto, di una questione diversa rispetto a quella oggetto del presente giudizio nel quale la pretesa era relativa alla contestazione di maggiori redditi non dichiarati ai fini delle imposte dirette, non al diverso profilo della non deducibilità dei costi sostenuti in favore del personale distaccato.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere erroneamente ritenuto che il parziale riaddebito dei costi per il personale distaccato non fosse soggetto ad Iva.
Il motivo è fondato.
Nelle more del giudizio, è intervenuta la Corte di Giustizia con la sentenza 11 marzo 2020, in C-94/19, San Domenico Vetraria Spa, la quale ha stabilito che “la Sesta Dir. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, art. 2, punto 1, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una legislazione nazionale” nella specie proprio la L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, – “in base alla quale non sono ritenuti rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale di una controllante presso la sua controllata, a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo, a patto che gli importi versati dalla controllata a favore della società controllante, da un lato, e tali prestiti o distacchi, dall’altro, si condizionino reciprocamente”. Occorre sottolineare che di nessun rilievo è la circostanza che il distaccante e il distaccatario siano, effettivamente, in posizione di controllante e/o controllata, che attiene alla fattispecie concreta e non al fenomeno giuridico ed economico oggetto di considerazione da parte della Corte di Giustizia.
E’ invece importante che la prestazione di servizi, come definita dalla Sesta Dir., art. 2, punto 1, (che si specchia nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3), sia da ritenere onerosa, e quindi imponibile, condizione che ricorre ove sia ravvisabile un nesso di corrispettività tra servizio reso e somma ricevuta, anche in mancanza di lucratività.
E’ dunque irrilevante l’importo del corrispettivo, ossia che sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto nell’ambito della fornitura della sua prestazione e la circostanza, evidenziata dalla contribuente, che nella fattispecie il rimborso era relativo unicamente al puro costo del personale e non anche alla maggiorazione ad esso relativa.
Orbene, dallo stesso controricorso emerge che una tale condizione deve ritenersi sussistente, avendo essa stessa evidenziato che, nella fattispecie, i costi riaddebitati e corrisposti avevano avuto riguardo al costo complessivo del personale, ponendosi, dunque, il pagamento dei costi come condizione per il distacco dei lavoratori. La sentenza censurata e’, dunque, viziata, sul punto, da violazione di legge.
Sul ricorso incidentale della contribuente Con il primo motivo di ricorso incidentale la contribuente censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere fondato la sussistenza dell’antieconomicità dell’acquisto dell’immobile di ***** sulla base di una affermazione in fatto che la stessa pronuncia aveva, in sede della medesima motivazione, radicalmente esclusiva e per avere fatto discendere da tale circostanza, senza avere indicato il percorso logico seguito, anche la antieconomicità della locazione dell’immobile.
Il motivo è infondato.
La sentenza censurata ha ritenuto che l’acquisto dell’immobile era stato antieconomico evidenziando espressamente che: “le circostanze sopra brevemente riferite e comunque meglio e più diffusamente indicate nella più volte ricordata sentenza del Tribunale di Firenze numero 931/2010 acquisita agli atti di causa, evidenziano l’antieconomicità dell’acquisto in questione e questa situazione, tra l’altro causativa anche della conseguente antieconomicità del contratto di locazione concluso dalla società appellata con la società Tecnoconference, può, ad avviso di questa Commissione, ritenersi decisiva ai fini della conferma del rilievo in questione”.
L’accertamento, quindi, della antieconomicità dell’acquisto dell’immobile era stato compiuto dal giudice del gravame facendo espresso rinvio al contenuto della sentenza del Tribunale di Firenze e, in questo contesto, nella parte motiva della pronuncia censurata si era evidenziato che: “avuto riguardo alla sentenza del Tribunale di Firenze numero 93/2010 (cui sembrano riferirsi congiuntamente le parti) l’attività posta in essere direttamente o indirettamente dalla società Firenze Fiera con l’acquisto dell’immobile di cui trattasi, sembra qualificabile come “condotta di sperpero di danaro” costituendo di per sé…”una possibile fonte di responsabilità civile e contabile”.
In sostanza, il giudice del gravame ha chiaramente precisato il percorso logico seguito al fine di pervenire alla considerazione della antieconomicità dell’acquisto dell’immobile, avendo fatto espresso riferimento al contenuto della sentenza penale nella quale, pur essendo stata esclusa la rilevanza penale della condotta, risultava accertata, con rilevanza civilistica o contabile, la sua finalizzazione allo “sperpero di denaro” in conseguenza dell’acquisto dell’immobile ed è su tale circostanza, quindi, che ne è stata fatta derivare la rilevanza ai fini fiscali della suddetta condotta.
Non può, d’altro lato, ritenersi che sussista una contraddittorietà nell’ambito della medesima pronuncia.
Invero, la questione che il giudice del gravame aveva affrontato, così come si evince dalla sentenza censurata, era relativa alla indeducibilità degli ammortamenti relativi all’immobile in oggetto in quanto derivanti da attività illecite sotto il profilo penalistico da parte dell’amministratore e dell’eventuale estraneità della società, secondo quanto previsto dalla L. n. 537 del 1993, art. 14.
In questo specifico ambito, il giudice del gravame ha escluso che nella fattispecie potesse ragionarsi in termini di condotta penalmente rilevante, ma ha, come detto, fatto derivare, ai fini della contestazione dei costi relativi alla ristrutturazione dell’immobile le conseguenze derivanti dall’accertamento della condotta antieconomica.
Ne’ può dirsi che non sussista l’indicazione del ragionamento logico seguito al fine di ritenere che, dalla antieconomicità dell’acquisto dovesse derivare anche l’antieconomicità della locazione.
Sul punto, la sentenza censurata ha evidenziato che la antieconomicità dell’acquisto era di per sé causativa delle conseguente antieconomicità della locazione, volendo, in tal modo rappresentare che, essendo venuta meno, sotto il profilo fiscale, la rilevanza dell’acquisto dell’immobile, ne derivava, in termini conseguenziali, la deducibilità dei costi sostenuti in conseguenza della locazione dell’immobile, essendo, evidentemente, gli stessi attratti, in termini conseguenziali, dalla irrilevanza fiscale dell’acquisto antieconomico dell’immobile.
Non può quindi ragionarsi in termini di motivazione apparente o contraddittoria, come invece argomentato dalla difesa della contribuente.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, consistente: nella circostanza che era stata evidenziata la non correttezza del percorso logico-matematico seguito dall’ufficio per supportare la tesi dell’antieconomicità della gestione dell’immobile, in particolare la circostanza che l’immobile in oggetto, per la parte utilizzata direttamente, doveva considerarsi produttivo di ricavi presunti commisurati al valore locativo della porzione affittata; nel fatto che le condizioni contenute nel contratto di locazione, i termini economici, strategici e commerciali, rendevano l’operazione valida da un punto di vista economico e commerciale, nonché inerente e propedeutica all’attività esercitata in chiave di ottimizzazione del processo produttivo; inoltre, nel fatto che la parziale locazione dell’immobile e la individuazione del conduttore si inserivano in una strategia gestionale volte all’ottimale utilizzo delle risorse ed all’implementazione dei rapporti di sinergia con i propri partners commerciali con l’obiettivo di rafforzamento per il futuro della propria posizione nello specifico settore di attività.
Il motivo è infondato.
Con riferimento al primo profilo di censura, il giudice del gravame ha tenuto conto dei rilievi prospettati dalla contribuente in ordine alla non correttezza della ricostruzione operata dall’ufficio, ma ha espressamente precisato che, “quale che sia il modus operandi dei verbalizzanti”, doveva ritenersi che l’antieconomicità dell’acquisto dell’immobile si rifletteva in modo conseguenziale sulla stessa non rilevanza, sotto il profilo fiscale, della locazione effettuata.
Con riferimento agli ulteriori profili di censura, il fatto controverso aveva riguardo alla deducibilità dei costi, ai fini delle imposte dirette, e della detraibilità ai fini Iva, sostenuti per la ristrutturazione dell’immobile dato in locazione a terzi, e su di esso il giudice del gravame si è pronunciato, pervenendo alla considerazione non solo della antieconomicità della stessa operazione negoziale di locazione, ma anche della non inerenza delle spese sostenute, avendole ritenute non strumentali all’attività svolta in quanto “non ascrivibili alla diretta utilizzazione da parte della società contribuente”.
Si tratta, pertanto, di circostanze che attengono a profili sui quali il giudice del gravame si è pronunciato e che non rilevano, pertanto, in considerazione della ratio decidendi della pronuncia censurata, basata, come detto, sulla stretta connessione tra l’antieconomicità dell’acquisto dell’immobile e la stipula del contratto di locazione e, dunque, sul venire meno della rilevanza dei presupposti fattuali sui quali la società aveva ritenuto di dovere evidenziare, invece, la diretta correlazione tra i costi sostenuti e la strumentalità del bene. Con il terzo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza ai sensi dell’art., 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere ritenuto che la non inerenza dei costi sostenuti trovava conferma sul fatto che erano conseguenti ad esigenze non ascrivibili alla diretta utilizzazione da parte della contribuente.
Evidenzia parte ricorrente che i lavori avevano riguardato un immobile che non era atto ad essere utilizzato in alcun modo perché acquistato allo stato grezzo, sicché gli stessi erano stati realizzati ai fini della sua fruibilità, consentendo l’adattamento dell’immobile nel suo complesso e della porzione locata agli obiettivi funzionali e gestionali propri della società. Inoltre, anche ove si volesse ritenere che gli interventi fossero stati realizzati nell’esclusivo interesse della conduttrice, non sarebbe possibile individuare su quale percorso logico tale circostanza avrebbe potuto condurre a ritenere che i costi non fossero inerenti.
Il motivo è inammissibile.
La censura per motivazione apparente presuppone che la pronuncia, sebbene graficamente esistente, non consenta di individuare il percorso logico seguito ai fini della decisione.
Nel caso di specie, il giudice del gravame, ha chiaramente evidenziato le ragioni sulle quali ha ritenuto di dovere ritenere legittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria.
L’attenzione del giudice del gravame si è rivolta, come detto, da un lato, al carattere antieconomico delle operazioni negoziali a monte dei lavori di ristrutturazione dell’immobile, nonché alla non inerenza dei costi, avendo ragionato, in sostanza, nel senso che da tali circostanze dovesse farsi derivare la non inerenza dei costi in favore di un bene strumentale all’attività di impresa esercitata.
La ratio decidendi della pronuncia, in sostanza, risiede nella riscontrata soluzione di continuità tra svolgimento dell’attività di impresa e riferibilità alla stessa dei costi sostenuti, sicché ha ritenuto, in definitiva, che questi non fossero “ascrivibili alla diretta utilizzazione da parte della società contribuente”, esprimendo, in tal modo, un giudizio di fatto sulla non strumentalità del bene in favore del quale i costi erano stati sostenuti.
Diversamente da quanto sostenuto dalla contribuente, dunque, il giudice del gravame ha chiaramente esposto il percorso logico seguito al fine di ritenere, alla luce della complessiva ratio decidendi, che i costi sostenuti non potevano essere ricondotti all’attività propria della contribuente.
Le considerazioni espresse dalla contribuente con il presente motivo, invero, attengono ad una non ammissibile rivisitazione in fatto della motivazione della sentenza censurata.
Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame cica un fatto decisivo per la controversia, per non avere tenuto conto dei fatti dedotti dalla contribuente diretti a dimostrare che gli interventi sull’immobile non erano stati realizzati nell’esclusivo interesse della società conduttrice.
Il motivo è inammissibile.
Va ricordato il principio, da tempo puntualizzato dalle Sezioni unite della Corte (cfr. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ammette la denuncia di un vizio relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia, con la necessaria conseguenza che è onere del ricorrente, ai sensi degli art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, indicare il fatto storico, dato da cui esso risulti esistente, il come ed il quando esso abbia formato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività.
E’, d’altro lato, inammissibile il ricorso per cassazione quando il ricorso, sotto l’apparente deduzione del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., sez. un., 27 dicembre 2019, n. 34476, fra le tante).
Dalla sentenza censurata si evince che il giudice del gravame ha tenuto conto delle circostanze ora evidenziate dalla contribuente, evidenziando che la tesi argomentativa della società, volta a dimostrare la inerenza dei costi sostenuti per l’immobile dato in locazione, era basata sulla circostanza che erano stati sostenuti nell’interesse prioritario della società ed erano finalizzati a rendere l’immobile utilizzabile.
Rispetto a tali elementi fattuali il giudice del gravame ha, in primo luogo, espresso la propria autonoma ratio decidendi basata sulla considerazione dell’antieconomicità, a monte, dello stesso acquisto dell’immobile, e, inoltre, ha accertato in fatto che i lavori non erano relativi ad esigenze ascrivibili alla diretta utilizzazione da parte della contribuente, in quanto funzionali unicamente allo svolgimento dell’attività propria della locataria e dunque provi del requisito della inerenza.
Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102 e art. 109, comma 5, nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 4 e 19, in relazione all’art. 17, VI Direttiva n. 77/388/CEE, ora art. 168 Direttiva n. 2006/112/CE. In particolare, evidenzia parte ricorrente che, anche laddove si dovesse ritenere che i lavori siano stati realizzati nell’esclusivo interesse della conduttrice, ciò non rileverebbe ai fini della dimostrazione della non inerenza dei costi e della non detraibilità dell’Iva, in quanto i costi erano comunque finalizzati a generare componenti reddituali ed erano stati sostenuti in conseguenza di operazioni rilevanti ai fini Iva.
Il motivo è infondato.
Va, invero, richiamato il consolidato orientamento di questa Corte, per cui, alla luce della sesta direttiva dei Consiglio n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (v. sent, 13 dicembre 1989 in causa C-342/87) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, n. 1, secondo il quale le cessioni di beni e le prestazioni di servizi poste in essere dai vari tipi di società ivi indicate costituiscono sempre ad ogni effetto, per presunzione iuris et de ture e quale che sia la natura dell’attività svolta, operazioni effettuate nell’esercizio di impresa, con conseguente applicazione dell’IVA sulle operazioni attive compiute, in ordine invece agli acquisti di beni, ed in generale alle operazioni passive, non è sufficiente, ai fini della detraibilità dell’imposta, la qualità d’imprenditore societario, dovendosi altresì verificare in concreto l’inerenza, cioè la stretta connessione con le finalità imprenditoriali, e la strumentalità in concreto del bene acquistato rispetto alla specifica attività imprenditoriale, compiuta o anche solo programmata (Cass. civ., n. 16697/2013; n. 7344/2011; n. 1863/2004; n. 5599/2003).
Ciò in quanto il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, prevede, per la determinazione dell’imposta dovuta, che è detraibile dall’ammontare dell’Iva assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa solo quella in relazione ai beni o ai servizi importati o acquistati nell’esercizio di impresa o di arti e professioni, sia pure con una serie di deroghe.
Al riguardo è stato precisato che la compatibilità con l’oggetto sociale costituisce mero indizio della inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, della cui dimostrazione è onerato il contribuente (Cass. n. 4157 dei 2013, in tema di spese relative alla compravendita e/o alla ristrutturazione di immobili) e che dalla relativa conformità può prescindersi, nella misura in cui beni e servizi dell’impresa siano impiegati a fini di operazioni soggette ad imposta (Cass. n. 5753 del 2010).
Va aggiunto che questa Corte ha, affermato alla luce della sesta direttiva n. 77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (ivi compresa la sentenza 29.2.1996 in proc. C 110/94), che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, ed inoltre, non introducendo una deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lasciando la dimostrazione di detta inerenza o strumentante a carico dell’interessato (v. Cass. n. 3706/2010; n. 16730/2008, n. 11765/2008, n. 6200/2015, n. 25986/2014).
E in merito al contenuto dell’onere probatorio giova ricordare che la Corte di Lussemburgo ha ripetutamente ribadito che, ai fini di stabilire se sia detraibile, o meno un’attività di acquisto o di ristrutturazione di un bene da adibire all’esercizio dell’impresa, deve aversi riguardo all’intenzione del soggetto passivo di imposta, confermata da elementi obiettivi, di utilizzare un bene o un servizio per fini aziendali; il che consente di determinare se, nel momento in cui procede all’operazione a monte, detto soggetto passivo agisca come tale, e debba dunque poter beneficiare del diritto a detrazione dell’IVA dovuta o assolta per i detti beni e servizi (sentenze C- 97/90 dell’11/07/1991, Lennartz, e C-400/98 del 08/06/00, Breitshol; conf. C-334/10 del 19/07/2012).
Pertanto, ai fini della detrazione dell’Iva, non è sufficiente la natura societaria del soggetto acquirente, ma occorre anche la concreta verifica dell’inerenza dell’operazione rispetto alla specifica attività imprenditoriale programmata od esercitata.
Analoghe considerazioni devono essere fatte con riferimento alla deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette, posto che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, e art. 102, richiedono l’accertamento di un rapporto di strumentalità del bene sul quale sono sostenuti i costi e l’attività di impresa esercitata.
Il diritto alla detrazione dell’Iva ed alla deducibilità dei costi, pertanto, devono essere valutati in virtù della reale strumentalità del bene rispetto all’attività di fatto esercitata dal soggetto passivo, sulla base del principio di inerenza.
Questa Corte ha precisato, in particolare (Cass. civ., 10 dicembre 2014, n. 25986; Cass. civ., 27 marzo 2015, n. 6200) che non può riconoscersi la natura strumentale all’immobile acquistato quando lo stesso sia stato concesso in locazione a terzi e, contemporaneamente, l’impiego dell’immobile nell’ambito di una locazione è un’attività del tutto estranea all’oggetto sociale dell’impresa.
La pronuncia del giudice del gravame non contrasta con i suddetti principi, avendo accertato, in fatto, che non solo l’attività di acquisto dell’immobile fosse antieconomico, così come la successiva locazione, ma anche che le spese di ristrutturazione dell’immobile non fossero ascrivibili alla diretta utilizzazione da parte della società ricorrente, recidendo, in tal modo, il necessario rapporto di strumentalità tra i costi e l’attività di impresa.
In conclusione, è fondato il secondo motivo di ricorso principale dell’Agenzia delle entrate, son infondati il primo, secondo e quinto motivo di ricorso incidentale, inammissibili il terzo e quarto, con conseguente accoglimento del secondo motivo di ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale e cassazione della sentenza per il motivo accolto con rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Va dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il secondo motivo di ricorso principale, rigettato il primo, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza per il motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022