Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.5904 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 24540/2016 proposto da:

F. Stirling s.p.a., in Amministrazione straordinaria, nella persona dei Commissari Liquidatori pro tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura speciale rilasciata a margine del ricorso per cassazione, dall’Avv. Dario Picone, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via Flaminia, n. 135.

– ricorrente –

contro

Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., nella persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Angelo Brofferio, n. 6, presso lo studio dell’Avv. Roberto Marraffa, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ROMA n. 2051/2016, pubblicata il 30 marzo 2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/01/2022 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

RILEVATO

Che:

1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha rigettato l’appello proposto dalla società F. Stirling s.p.a., in Amministrazione Straordinaria, avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 7906 del 9 aprile 2009, che aveva respinto la domanda proposta L. Fall., ex art. 67, comma 1, n. 2, ed in subordine L. Fall., ex art. 67, comma 2, in relazione a due rimesse effettuate entro l’anno antecedente la declaratoria di insolvenza, sul conto *****, intrattenuto presso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., la prima dell’8 ottobre 2001 per Lire 2.000.000.000 e la seconda del 9 ottobre 2001 per Lire 1.999.990.00.

2. La Corte territoriale, per quel che rileva in questa sede, ha evidenziato, sul presupposto che l’atto di appello aveva perduto l’originale natura devolutiva e non costituiva più un nuovo giudizio, ma una revisione del precedente giudizio, che la società appellante non aveva assolto l’onere di specificità dei motivi e, dopo avere illustrato la struttura dell’atto di impugnazione, ne ha messo in evidenza la singolarità, dato che nella parte relativa al fatto e allo svolgimento del processo erano stati indicati sia eventi propriamente processuali relativi allo svolgimento del processo, sia eventi relativi alla società e allo svolgimento del rapporto tra la stessa e la Banca appellata e che alla detta esposizione si accompagnavano osservazioni ed argomentazioni della società appellante, mentre erano assenti osservazioni espressamente finalizzate alla critica della sentenza impugnata.

3. I giudici di secondo grado hanno precisato, altresì, che mancava, sempre nella parte dedicata al fatto e allo svolgimento del processo, un chiaro momento volitivo che consentisse di associare una certa argomentazione alla volontà della parte di utilizzarla per muovere una critica alla sentenza, con la conseguenza che si sarebbero dovuto ricercare, nell’ampia porzione in esame dell’atto di impugnazione, i fatti e le osservazioni finalisticamente volti alla critica della sentenza, con esiti del tutto incerti ed in ipotesi addirittura arbitrati.

4. La Corte territoriale, poi, per quel che concerne la parte dell’atto di appello destinata all’illustrazione dei motivi, ha sottolineato che:

il primo motivo era generico, perché la società appellante si era limitata ad affermazioni di principio e comunque indeterminate, non supportate da alcun argomento svolto con riguardo al caso concreto, e alla mera enunciazione di massime della Suprema Corte, senza alcun richiamo di fatti ed osservazioni esposti nella prima parte dell’impugnazione;

anche il secondo motivo era inammissibile, oltre che infondato, alla luce delle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, in relazione alle quali la società appellante non aveva formulato alcuna specifica censura sull’idoneità probatoria della dichiarazione rilasciata dalla Banca d’Italia in data 1 aprile 2005 e avendo prodotto il bilancio 2000 (in relazione al quale il Tribunale aveva constatato la mancata produzione), così incorrendo nel divieto posto dall’art. 345 c.p.c., comma 3, non essendo consentita la produzione in appello di nuovi documenti, quando risultava evidente sin dal giudizio di primo grado e difettandone l’indispensabilità di cui all’art. 345 c.p.c., citato;

pure le circostanze dedotte a dimostrazione dell’elemento soggettivo (congelamento del conto corrente su cui erano state effettuate le rimesse; istruttoria condotta dalla banca per l’apertura di un fido; predisposizione di un piano di rientro per i pagamento dei debiti) erano rimaste confinate in un ambito generico avuto riguardo alla loro esistenza, collocazione temporale e specificazione delle condizioni del piano di rientro e, comunque, non idonee a denotare la consapevolezza in capo alla banca dell’insolvenza del cliente.

5. F. Stirling s.p.a., in Amministrazione straordinaria, avverso la superiore sentenza, ricorre in Cassazione con atto affidato a quattro motivi.

6. La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. ha depositato controricorso.

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 342 c.p.c., nella formulazione anteriore alla L. n. 134 del 7 agosto 2012, avendo errato la Corte d’appello a ritenere applicabile al giudizio in esame la normativa introdotta dalla L. n. 134 del 2012, riferibile ai giudizi introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui era richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della Legge di Conversione del Decreto n. 83 del 2012, ossia a partire dall’11 settembre 2012, mentre l’atto di appello era stato notificato in data 25 maggio 2010; al giudizio di appello de quo si applicava, dunque, il regime devolutivo ante riforma e poteva essere rivolto ad ottenere il riesame tout court della causa di merito, prescindendo da qualsiasi particolare rigore di forme; la stessa Corte, peraltro, aveva individuato i passaggi dell’atto di appello da cui si evincevano con chiarezza i motivi di gravame e le ragioni che li sostenevano, a prescindere dalla suddivisione prettamente formale e materiale dell’atto di gravame; l’atto di appello era perfettamente idoneo a confutare le risultanze di una sentenza che, per la sua costruzione generica, confusa e non argomentata, non poteva che imporre un atto di appello articolato al fine del riesame completo della sentenza e della vicenda, in funzione degli argomenti svolti dal Tribunale stesso; la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare l’atto di appello nella sua interezza, entrando nel merito del gravame e coordinando il principio della specificità dei motivi di appello con il principio Tura novit cura che, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., presiedeva alla soluzione delle questioni di diritto.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente lamenta la nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 342 c.p.c., nella formulazione anteriore alla L. 7 agosto 2012, n. 134 per violazione dell’art. 132 c.p.c., per motivazione omessa o apparente, in connessione con l’art. 156 c.p.c., comma 2, e con l’art. 111 Cost.; non trovando applicazione il rigido principio dell’onere di specificità dei motivi di appello, come sancito dal novellato art. 342 c.p.c., la decisione assunta dalla Corte d’appello era viziata in quanto la motivazione sul punto risultava completamente omessa o, comunque, apparente, e, in ogni caso, tale da invalidare la sentenza per mancanza di uno dei requisiti richiesti dall’art. 132 c.p.c., indispensabili per il raggiungimento del suo scopo ai sensi e per gli effetti dell’art. 156 c.p.c., comma 2.

3. Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 342 c.p.c., nella formulazione anteriore alla L. 7 agosto 2012, n. 134, in combinato disposto con la L. Fall., art. 67, comma 1, n. 2, e consequenziale omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione alla L. Fall., art. 67, comma 1, n. 2, avendo la violazione e/o falsa applicazione del novellato art. 342 c.p.c. determinato (anche) un’errata valutazione circa la sussistenza dei requisiti prescritti dalla L. Fall., art. 67; la Corte aveva omesso ogni e qualsiasi esame e/o valutazione sulle ragioni e le circostanze che integravano la fattispecie di cui alla L. Fall., art. 67, comma 1, n. 2, ritenendola assorbita da un presunto “scollamento tra la menzionata prima parte dell’atto di impugnazione e quella formalmente volta all’illustrazione dei motivi di appello”; l’atto di appello aveva proceduto ad una prima disamina degli elementi di fatto dedotti in giudizio per poi proseguire all’enunciazione dei motivi di diritto che portavano all’inquadramento giuridico della questione e, quindi, concludere con l’enunciazione analitica dei requisiti di applicabilità della L. Fall.,. 67, comma 1, n. 2 e comma 2, sia sotto il profilo dei requisiti soggettivi, sia sotto il profilo dei requisiti oggettivi.

4. Con il quarto motivo la società ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 342 c.p.c., nella formulazione anteriore alla L. 7 agosto 2012, n. 134 e all’art. 345 c.p.c., comma 3, anche in combinato disposto tra loro; l’errata applicazione dell’art. 342 c.p.c., nella sua formulazione anteriore alla riforma di cui alla L. n. 134 del 2012, aveva conseguentemente impattato anche sulla violazione della sussistenza della scientia decoctionis, così come richiesto dalla L. Fall., art. 67, per l’integrazione della fattispecie degli atti e dei pagamenti revocabili; la censura era stata correttamente inserita nel contesto del secondo motivo di appello e il contesto in cui era stata inserita, non trovando applicazione il rigido principio dell’onere di specificità dei motivi di appello, come sancito nel “nuovo” art. 342 c.p.c., era perfettamente idoneo ad impugnare il corrispondente punto della sentenza del Tribunale; la Corte d’appello, inoltre, aveva compiuto una errata e contraddittoria valutazione non avendo ritenuto sussistente il requisito della “indispensabilità” in relazione al bilancio prodotto relativo all’anno 2000.

5. I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono tutti inammissibili per difetto di autosufficienza.

5.1 Premesso che, come affermato dalla società ricorrente, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, la nuova disposizione dell’art. 342 c.p.c., si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e che, nel caso in esame, l’atto di appello è stato notificato in data 25 maggio 2010, va osservato che il testo precedente dell’art. 342 c.p.c., così disponeva: “L’appello di propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni previste nell’art. 163”, con la conseguenza che l’atto di appello, nel regime applicabile al processo di cui all’art. 342 c.p.c., avrebbe dovuto recare l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte nell’art. 163 c.p.c..

5.2 Ciò posto, correttamente la Corte d’appello, peraltro richiamando anche giurisprudenza di questa Corte formatasi sotto la vigenza dell’art. 342 c.p.c. ante riforma, ha affermato il principio statuito da questa Corte che “Avendo il giudizio di appello natura di “revisio prioris instantiae ” e non di “novum iudicium”, ai fini dell’ammissibilità del relativo atto di gravame non è sufficiente che la sentenza di primo grado sia impugnata nella sua interezza, risultando necessaria, invece, l’impugnazione specifica dei singoli capi censurati della decisione e l’analitica esposizione delle ragioni di censura; né, in caso di inosservanza di tale onere, il vizio appare suscettibile di sanatoria in virtù dell’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, atteso che l’inammissibilità dell’impugnazione comporta il formarsi del giudicato sui capi della sentenza investiti dal gravame inammissibile (nella fattispecie, in applicazione del suddetto principio, è stata confermata la pronuncia della corte territoriale dichiarativa della inammissibilità dell’atto di appello che si era limitato a chiedere “il riesame di tutte le eccezioni pregiudiziali e di merito avanzate dalla parte in primo grado”” (Cass., 25 luglio 2005, n. 15558; Cass., 16 gennaio 2007, n. 840).

5.3 E, tuttavia, sul punto non può essere dimenticato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito; ne discende che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte (Cass., 23 dicembre 2020, n. 29495; Cass., 29 settembre 2017, n. 22880; Cass., 21 maggio 2004, n. 9734; Cass., 20 settembre 2006, n. 20405).

Ed invero, il principio reiteratamente espresso da questa Corte è nel senso che ” L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione dei giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità” (Cass., 29 settembre 2017, n. 22880; Cass., 20 settembre 2006, n. 20405, citate).

5.4 Nel caso di specie, tale onere non è stato assolto dalla società ricorrente che non soltanto non ha riportato il contenuto della sentenza di primo grado, ma non ha nemmeno indicato il contenuto dell’atto di appello, così rendendo la doglianza generica ed irricevibile in questo giudizio di legittimità; l’osservanza di tale principio avrebbe imposto, nel caso in esame, in cui si lamenta l’errata applicazione dell’art. 342 c.p.c., nella formulazione ratione temporis applicabile, l’onere per il ricorrente di trascrivere integralmente gli indicati atti, il cui contenuto costituisce l’imprescindibile termine di riferimento per l’esame delle censure sollevate; la mancata trascrizione, nell’odierno ricorso, dello specifico contenuto di tali atti impedisce, allora, la necessaria verifica dell’astratta idoneità dei motivi di ricorso ad incrinare il fondamento logico giuridico delle argomentazioni che sorreggono la decisione impugnata.

6. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso va dichiarato inammissibile e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Banca controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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