Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.5947 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MELONI Marina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10644/2020 proposto da:

A.R., rappresentato e difeso dall’avvocato Fabio Madella;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi 12;

– resistente –

avverso decreto n. cronol. 1204/2020 del Tribunale di Brescia, depositato il 5/3/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 14/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA IOFRIDA.

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Brescia, con decreto n. cronol. 1204/2020, depositato il 5/3/2020, ha respinto la richiesta di A.R., cittadino del Ghana, di riconoscimento, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o umanitaria.

In particolare, i giudici di merito, previa nuova audizione del richiedente, hanno rilevato che: il racconto del richiedente (avere lasciato il Ghana per sfuggire alle minacce di morte dei membri di un gruppo criminale, dopo che egli non era stato più in grado, essendo stato derubato della merce presente nel negozio che gestiva, di restituire il prestito di denaro ricevuto) non integrava, in difetto di atti persecutori ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, neppure un effettivo rischio attuale di danno grave ai fini della protezione sussidiaria (avendo il richiedente ricevuto solo minacce verbali e comunque risalenti nel tempo né essendo stato dimostrata l’impossibilità di ricevere tutela da parte dell’autorità statuale); quanto alla protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), il Ghana non era interessato da situazioni di violenza indiscriminata, sulla base delle fonti consultate (*****); né ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, non essendo state dimostrate situazioni di vulnerabilità, con riferimento al Paese d’origine, e comunque considerato che il richiedente è soggetto giovane, scolarizzato, che non ha problemi di salute, dotato di piena capacità lavorativa e che ha conservato nel paese d’origine legami affettivi (madre, fratello e sorella), mentre in Italia ha soltanto il supporto della struttura ospitante e non ha dimostrato una piena integrazione, avendo soltanto frequentato un corso di italiano e svolto attività di volontariato.

Avverso la suddetta pronuncia, comunicata il 20/3/2020, A.R. propone ricorso per cassazione, notificato il 21/4/2020, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., ai nn. 3, 4 e 5, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, nonché l’eccesso di potere per errato presupposto di fatto, illogicità e contraddittorietà della motivazione, incompletezza dell’attività istruttoria, per avere il Tribunale omesso di esaminare compiutamente gli accadimenti narrati dal richiedente e la situazione del Paese di provenienza, ai fini della chiesta protezione sussidiaria, nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,6,7,8 e 14, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 115 e 116 c.p.c., e artt. 10,24 e 111 Cost., artt. 2, 3 e 13 CEDU, della Carta dei diritti fondamentali UE art. 47, della Dir. n. 2013/13/UE, art. 46, per avere il Tribunale escluso i presupposti di qualsiasi forma di protezione, non correttamente valutando i fatti allegati, travisando persino i fatti, laddove ha ritenuto che il pericolo non sia attuale o esistente, in difetto di violenze fisiche, e non ha considerato la totale assenza nel Paese di provenienza di un apparato giudiziario di tutela per le vittime, come il ricorrente, di un sistema di vendette private, oltre che una situazione di violenza generalizzata ed insicurezza, indigenza, emergenza sanitaria, nonché le esperienze drammatiche vissute nel Paese di transito (in Libia), ove il ricorrente aveva vissuto quindici mesi ed ove era stato venduto e costretto a lavorare presso terzi per pagare il proprio debito ed affrancarsi.

La plurima censura è inammissibile.

Anzitutto è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (Cass. nn. 26874/18 e 19443/11).

Così come altrettanto costante è la giurisprudenza di legittimità nel senso che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente riievante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (S.U. n. 8053/14).

E’ stato, in particolare, precisato che la motivazione è solo apparente e che la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. SU n. 22232 del 2016).

Tali carenze, che il ricorrente assume sulla base di considerazioni del tutto generiche ed assertive, non si rinvengono nel decreto in esame, del quale è agevolmente riscontrabile il percorso argomentativo posto a base del diniego della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b) e c).

Il motivo propone, senza un chiaro ordine logico-giuridico, una commistione di questioni di fatto e di diritto, che spazia dall’errata ricostruzione della fattispecie alla contraddittorietà motivazionale, dall’omesso esame (non di fatti, ma) di tesi difensive all’insufficiente cooperazione istruttoria.

In ordine alla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306/19, n. 9090/19 e n. 13858/18).

Il decreto impugnato ha motivatamente escluso, attraverso l’impiego di fonte qualificata, l’esistenza di un siffatto grado di violenza nell’accezione anzi detta, cosicché le contrarie affermazioni del motivo di ricorso invocano uno scrutinio di merito non consentito in questa sede di legittimità.

Quanto alle sofferenze patite in Libia, seppure il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (nella disciplina previgente al D.L. n. 113 del 2018, conv., con modif., in L. n. 132 del 2018), costituisca una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento di una tutela tipica (“status” di rifugiato o protezione sussidiaria), non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (Cass. n. 13096/2019; Cass. n. 13565/2020; Cass. n. 2574/2021), nella specie, non risulta neppure allegato un disturbo post-traumatico da stress a causa di quanto subito nel paese di transito.

2. Col secondo motivo è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., ai nn. 3, 4 e 5, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., la violazione del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, del D.P.R. n. 394 del 1999, artt. 11 e 28, artt. 112,115 e 116 c.p.c., artt. 24 e 111 Cost., nonché la carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata per carente istruttoria e per omesso esame degli accadimenti descritti dall’istante nell’atto d’appello anche in relazione alla richiesta di protezione umanitaria.

Sostiene il ricorrente che il Tribunale non avrebbe vagliato i fatti di causa e non avrebbe adeguatamente considerato la situazione d’integrazione del richiedente in Italia. Richiama, inoltre, il principio di non respingimento e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, art. 11; lamenta il pericolo di vita cui il richiedente sarebbe esposto in caso di rientro in Ghana; torna a dedurre il rischio di danno grave derivante da trattamenti inumani e degradanti e sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto svolgere un’accurata indagine sulle diverse condizioni poste a base del peculiare titolo di soggiorno da rilasciarsi ove ricorrano gravi violazioni dei diritti umani, ancorché queste ultime non siano sufficienti ad integrare i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato politico o per la protezione sussidiaria.

Le censure sono infondate.

Il decreto impugnato non ha affatto omesso l’esame dei fatti inerenti alla protezione umanitaria, né tanto meno era tenuta a giustificare al suo interno il giudizio su ogni singola argomentazione difensiva della parte appellante. Ne’ – ancora – ha omesso di valutare il dedotto radicamento del richiedente (cfr. da ultimo Cass. SU n. 24413/2021), che peraltro consiste nell’adesione ai programmi della comunità di accoglienza alla ricerca di una stabile occupazione lavorativa.

Non pertinenti, inoltre, le citazioni dei suindicati precedenti di questa Corte, poiché l’indagine ufficiosa sul tipo di protezione applicabile a fronte della narrazione del richiedente e del relativo onere probatorio attenuato, non esimono il richiedente stesso dal dover allegare le circostanze di fatto che lo rendano vulnerabile (cfr. Cass. n. 3016/19 e n. 19197/15).

3. Il ricorrente lamenta, con il terzo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., ai nn. 3, 4 e 5, la nullità del decreto per violazione dell’art. 10 Cost., la violazione del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 18, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, e art. 116 c.p.c., nonché la carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata per carente istruttoria e per omesso esame degli accadimenti descritti dall’istante, sempre in relazione alla richiesta di protezione umanitaria, sostenendo che il Tribunale non avrebbe vagliato i fatti di causa e non avrebbe adeguatamente considerato la situazione d’integrazione del richiedente in Italia (adesione a diversi progetti presso la comunità di accoglienza, al fine di trovare una stabile occupazione). Richiama, inoltre, il principio di non respingimento e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, art. 11; lamenta il pericolo di vita cui il richiedente sarebbe esposto in caso di rientro in Ghana; torna a dedurre il rischio di danno grave derivante da trattamenti inumani e degradanti.

La doglianza è inammissibile sia perché puramente ripetitiva delle doglianze sopra svolte e confutate, sia perché l’art. 10 Cost., comma 3, in quanto attuato mediante il sistema pluralistico della protezione internazionale (tipica) e nazionale (atipica, quanto alla protezione umanitaria, applicabile alla fattispecie ratione temporis) non ha rispetto a tale sistema un proprio ambito applicativo distinto, autonomo e aggiuntivo (Cass. n. 16362/16 e Cass. n. 10686/12).

4. – Il quarto motivo di ricorso denuncia, in relazione all’art. 3, dell’art. 360 c.p.c., la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 14, artt. 2, 3, 8 e 27 CEDU, nonché il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e l’omesso esame di fatti decisivi. Deduce il ricorrente, al riguardo, che la Dir. n. 2004/83/CE, art. 8, che consente agli Stati membri di indicare le zone interne sicure in cui lo straniero rinviato, non è stato accolto dal nostro ordinamento; che, il tribunale non ha considerato che, secondo molte fonti, i luoghi di provenienza del richiedente sono ad altissimo rischio di violenza indiscriminata e che autori del danno grave possono essere anche soggetti privati, in assenza di un’autorità statuale che impedisca condotte dannose, come quelle del caso di specie.

Anche tale mezzo è puramente ripetitivo di doglianze già esposte, già ritenute inammissibili. Va solo aggiunto che il mancato recepimento della Dir. n. 2011/95/TUE, art. 8, (che ha sostituito la Dir. n. 2004/83/CE, e il cui art. 8, comma 1, dispone che “nell’ambito dell’esame della domanda di protezione internazionale, gli Stati membri possono stabilire che il richiedente non necessita di protezione internazionale se, in una parte del territorio del paese d’origine, questi: a) non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi; oppure b) ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi di cui all’art. 7, e può legalmente e senza pericolo recarsi ed essere ammesso in quella parte del paese e si può ragionevolmente supporre che vi si stabilisca), non significa altro che la protezione non può essere negata a cagione della possibilità che il richiedente, per evitare la persecuzione o il danno grave cui sia esposto nella zona di provenienza, possa trasferirsi in altra parte del Paese d’origine; sicché, esclusa in radice – come nella specie – tanto la persecuzione quanto il danno grave, è insensato discutere dell’inapplicabilità di una norma che il giudice di merito non ha affatto applicato;

Una volta esclusa una situazione oggettiva di danno grave è del pari privo di senso discutere se tale inesistente danno possa provenire anche da soggetti privati.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’e’ luogo a provvedere sulle spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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