Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.6008 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 31775/2020 R.G. proposto da:

B.H., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo Alessandrini, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila n. 304/20, depositata il 19 febbraio 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 dicembre 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che con sentenza del 14 marzo 2017 la Corte d’appello di L’Aquila dichiarò inammissibile, in quanto proposto con ricorso, anziché con citazione, il gravame interposto da B.H., cittadino del Gambia, avverso l’ordinanza emessa il 23 maggio 2016, con cui il Tribunale di L’Aquila aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante;

che il ricorso per cassazione proposto dal B. fu accolto da questa Corte con ordinanza del 17 luglio 2018, n. 18871, con cui fu affermato che l’appello proposto ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c. avverso la decisione del tribunale di rigetto della domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale dev’essere introdotto con citazione, anziché con ricorso, anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, atteso che il riferimento al “ricorso in appello” di cui all’art. 27, comma 1, lett. f), di quest’ultimo è volto a regolare i tempi e non la forma di introduzione del giudizio di secondo grado, sicché la tempestività del gravame va verificata calcolandone, in ogni caso, il termine di trenta giorni dalla data di notifica dell’atto introduttivo alla parte appellata;

che il giudizio è stato pertanto riassunto dinanzi alla Corte d’appello, che con sentenza del 19 febbraio 2020 ha rigettato il gravame;

che avverso la predetta sentenza il B. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, al quale il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

CONSIDERATO

che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione della Dir. 2004/83/CE, artt. 4 e 8, ri-trasfusa nella Dir. 2011/95/UE, del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, della Dir. 2005/85/CE, ritrasfusa nella Dir. 2013/32/UE, e del D.Lgs. 28 gennaio 2007, n. 25, art. 8 e art. 37, comma 1-bis, sostenendo che, nel ritenere inattendibile la vicenda personale allegata a sostegno della domanda, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’immediata presentazione della stessa, degli sforzi da lui compiuti per circostanziarla, della coerenza intrinseca della narrazione e della sua conformità alle informazioni disponibili sulla situazione del suo Paese di origine;

che, ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello, oltre ad aver omesso di esercitare i propri poteri istruttori officiosi per accertare il rischio, che egli correrebbe in caso di rimpatrio, di essere arrestato e sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, ha escluso la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sulla base d’informazioni desunte da fonti rimaste imprecisate;

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7 e 14 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, rilevando che, nell’escludere il rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti in caso di rimpatrio, la sentenza impugnata non ha tenuto delle informazioni desumibili dalle fonti internazionali più aggiornate e da recenti precedenti giurisprudenziali, attestanti le condizioni di sovraffollamento e le carenze igieniche e sanitarie che caratterizzano il sistema carcerario del Gambia;

che i due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni parzialmente sovrapponibili, sono infondati;

che in tema di protezione internazionale questa Corte ha affermato ripetutamente che il giudizio in ordine alla credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente a sostegno della domanda, da effettuarsi in base ai parametri meramente indicativi previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ovvero ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per inesistenza materiale, mera apparenza, perplessità o grave contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 2/07/2020, n. 13578; 11/03/2020, n. 6897; Cass., Sez. III, 19/06/2020, n. 11925), nella specie neppure dedotti dal ricorrente;

che quest’ultimo ha infatti lamentato il vizio di violazione di legge, in relazione all’inosservanza dei criteri di valutazione previsti dall’art. 3, comma 5, cit., limitandosi peraltro ad insistere sul carattere circostanziato della vicenda da lui riferita, in contrasto con quanto affermato dalla sentenza impugnata, senza neppure riportare, a corredo della propria censura, il testo delle dichiarazioni rese nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, con la conseguenza che il motivo risulta, sotto tale profilo, privo di specificità;

che l’esito negativo del controllo in ordine alla credibilità del richiedente, non validamente censurato, risulta di per sé sufficiente a dispensare il giudice da approfondimenti istruttori in ordine alla situazione del Paese di origine, non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925);

che nell’escludere la configurabilità delle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), la Corte territoriale ha richiamato informazioni fornite da fonti autorevoli ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione (relazione annuale 2017-2018 dell’organizzazione Freedom House, rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International), dalle quali ha desunto l’intervenuto miglioramento della situazione generale del Gambia, a seguito del superamento del preesistente regime dittatoriale e dell’insediamento di un Presidente liberamente eletto, nonché la riduzione delle condizioni di sovraffollamento del sistema carcerario, già caratterizzato da gravi carenze igienico-sanitarie, concludendo pertanto per l’insussistenza, in caso di rimpatrio del ricorrente, del rischio di un danno grave alla vita o alla persona ricollegabile ad una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato o del rischio di sottoposizione ad un trattamento inumano o degradante in conseguenza di un eventuale arresto;

che deve ritenersi pertanto assolto l’obbligo di motivazione posto a carico del giudice ai fini dell’adempimento del dovere di cooperazione istruttoria ufficiosa previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ai fini del quale è necessario il richiamo ad informazioni precise ed aggiornate riguardanti la situazione generale del paese di origine, desunte dalle fonti privilegiate di cui alla medesima disposizione, da individuarsi puntualmente nel provvedimento, in modo tale da consentire alle parti la verifica della pertinenza e correttezza dei dati acquisiti, nonché la critica degli stessi in sede d’impugnazione, attraverso l’eventuale deduzione dell’esistenza di altre fonti più aggiornate e specifiche, sulla base delle quali il provvedimento impugnato sarebbe potuto pervenire a conclusioni diverse (cfr. Cass., Sez. I, 11/11/ 2019, n. 29056; 22/05/ 2019, n. 13897; 17/05/2019, n. 13449);

che, nel censurare la valutazione compiuta dalla Corte territoriale in ordine alle condizioni del sistema carcerario del Gambia, il ricorrente non è in grado d’indicare fonti più specifiche o aggiornate di quelle utilizzate nella sentenza impugnata, ma si limita ad invocare altri passi del medesimo rapporto citato nella sentenza impugnata, non contrastanti con quest’ultima;

che inappropriato deve ritenersi anche il richiamo a precedenti giurisprudenziali riguardanti cittadini gambiani ai quali, diversamente da quanto accaduto nel caso in esame, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, dal momento che i motivi della decisione in tanto possono considerarsi viziati, in quanto risultino di per sé erronei, in fatto o in diritto, in relazione alla fattispecie concreta, e non in quanto si pongano eventualmente in contrasto con quelli addotti in decisioni riguardanti altre fattispecie analoghe, simili o addirittura identiche (cfr. Cass., Sez. II, 26/06/2017, n. 15846; Cass., Sez. lav., 17/03/1980, n. 1772);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione della Dir. 2011/95/UE, art. 4, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, della Dir. 2013/32/UE, art. 10, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 27 e 32, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, dell’art. 2 Cost. e dell’art. 3 della CEDU, osservando che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata ha omesso di procedere ad un confronto tra il rischio di compromissione dei diritti umani cui egli resterebbe esposto in caso di rimpatrio ed il livello d’integrazione sociale da lui raggiunto in Italia, avendo escluso la credibilità delle dichiarazioni da lui rese senza compiere alcun approfondimento ufficioso in ordine alla situazione esistente nel suo Paese di origine, e non avendo tenuto conto del periodo da lui trascorso in Italia, dello svolgimento di attività lavorativa e dell’interruzione di ogni rapporto con il luogo di provenienza;

che il motivo è infondato;

che, come ripetutamente affermato da questa Corte, il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede infatti specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando, come nella specie, quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione c.d. maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/ 12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/2019, nn. 21123 e 21129);

che non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, esclusa la sussistenza di una particolare condizione di vulnerabilità del ricorrente, anche alla luce della ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni da lui rese, ha ritenuto insufficiente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, il generico riferimento alle generali condizioni d’insicurezza o alle violazioni dei diritti umani in atto nel suo Paese di origine, astenendosi conseguentemente da qualsiasi apprezzamento in ordine al livello d’integrazione sociale ed economica raggiunto dal ricorrente in Italia;

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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