Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.6010 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3109/2021 R.G. proposto da:

A.M.T., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonino Ciafardini, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila n. 1571/20, depositata il 17 novembre 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 dicembre 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che con sentenza dell’8 febbraio 2018 la Corte d’appello di L’Aquila dichiarò inammissibile, in quanto proposto con ricorso, anziché con citazione, il gravame interposto da A.M.T., cittadino del Pakistan, avverso l’ordinanza emessa l’11 novembre 2016, con cui il Tribunale di L’Aquila aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante;

che il ricorso per cassazione proposto dall’ A. fu accolto da questa Corte con ordinanza del 18 giugno 2019, n. 13255, con cui fu affermato che, nel regime introdotto dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 19, come modificato dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 27 comma 1, lett. f), l’appello avverso la decisione di primo grado sulla domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale, sia in caso di rigetto che di accoglimento, non deve essere introdotto con citazione, ma con ricorso, con la precisazione che tale nuovo principio di diritto costituisce overruling processuale sin dall’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 19 cit.;

che il giudizio è stato pertanto riassunto dinanzi alla Corte d’appello, che con sentenza del 17 novembre 2020 ha rigettato il gravame;

che avverso la predetta sentenza l’ A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, al quale il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

CONSIDERATO

che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per inesistenza, apparenza e/o contraddittorietà della motivazione, osservando che, nell’escludere l’attendibilità della vicenda personale da lui allegata a sostegno delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, la Corte d’appello non ha indicato gli elementi sulla base dei quali ha formato il proprio convincimento, avendo omesso di compiere i dovuti approfondimenti mediante l’esercizio dei propri poteri d’indagine, ed essendosi limitata a ribadire la valutazione compiuta dalla Commissione territoriale;

che il motivo è infondato;

che il mero richiamo alla valutazione compiuta dalla Commissione territoriale in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente non comporta la nullità della sentenza impugnata per difetto di motivazione, avendo la Corte d’appello esplicitato le ragioni della propria adesione all’apprezzamento risultante dalla decisione amministrativa e dall’ordinanza di primo grado, mediante l’individuazione dei principali profili di inverosimiglianza della vicenda narrata e la sottolineatura delle carenti indicazioni fornite a corredo della stessa, nonché della mancanza di riscontri documentali;

che la sentenza pronunziata in sede d’impugnazione di un provvedimento amministrativo deve infatti considerarsi legittimamente motivata per relationem ove il giudice, nel far proprie le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni dell’adesione alle stesse in relazione alle censure proposte, in modo tale da consentire di ricavare, attraverso l’integrazione tra il provvedimento amministrativo e quello giurisdizionale, un percorso argomentativo adeguato e corretto (cfr. Cass., Sez. II, 17/01/2014, n. 868; Cass., Sez. lav., 17/11/2010, n. 23231; Cass., Sez. III, 16/01/2009, n. 979);

che l’esito negativo del controllo in ordine alla credibilità del richiedente risulta di per sé sufficiente a dispensare il giudice da approfondimenti istruttori in ordine alla situazione del Paese di origine, non trovando applicazione in tal caso il dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, il quale non opera laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quanto meno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (cfr. tra le altre, Cass., Sez. II, 11/08/2020, n. 16925; Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 27/06/2018, n. 16925);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), sostenendo che, nell’escludere la configurabilità di una situazione di violenza indiscriminata derivante da un conflitto armato, la sentenza impugnata non ha considerato che tale nozione non include soltanto l’ipotesi di guerra civile, ma tutte quelle situazioni in cui gli scontri o le forme di violenza tra opposte fazioni o gruppi di potere abbiano assunto connotazioni di persistenza e stabilità e livelli significativi di diffusione, sfuggendo al controllo degli apparati statali o giovandosi della contiguità culturale o politica degli stessi;

che, ad avviso del ricorrente, la predetta situazione, riscontrabile anche nel suo Paese di origine, a causa di una legislazione fortemente limitativa della libertà di espressione e d’informazione, non è stata presa in considerazione dalla Corte territoriale, la quale inoltre, nell’affermare che la sua regione di provenienza era più sicura di altre aree del Pakistan, non ha tenuto conto del mancato recepimento nell’ordinamento interno della Dir. 2004/83/CE, art. 8, per effetto della quale la sentenza impugnata avrebbe dovuto prendere in esame la situazione dell’intero Pakistan;

che il motivo è infondato;

che la sentenza impugnata non merita infatti censura nella parte in cui, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria, ha ritenuto non pertinente il riferimento del ricorrente alle condizioni generali di privazione delle libertà e di violazione dei diritti umani asseritamente in atto nel suo Paese di origine, risultando le stesse irrilevanti ai fini della configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la quale ricorre esclusivamente in presenza di un conflitto armato interno, tale da comportare una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile;

che, come affermato dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 30 gennaio 2014, in causa C-285/12, Diakite’), la nozione di conflitto armato comprende quelle situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrino con uno o più gruppi armati antagonisti, o nelle quali due o più gruppi armati si contendano tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché il conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza corra il rischio descritto nella norma per la sua sola presenza sul territorio, tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili, della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche, della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento, e del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento (cfr. Cass., Sez. I, 2/03/2021, n. 5675; Cass., Sez. VI, 8/07/ 2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090);

che la configurabilità della predetta situazione è stata nella specie correttamente esclusa dalla sentenza impugnata attraverso il richiamo ad informazioni fornite da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, puntualmente indicate in motivazione, dalle quali la Corte territoriale ha desunto che nello Stato di provenienza del ricorrente (Punjab), pur registrandosi scontri ed attentati, non si riscontra un livello di violenza tale da indurre a ritenere fondatamente che un civile, se rinviato in quell’area, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, il rischio effettivo di subire un danno grave alla vita o alla persona;

che risulta altresì condivisibile il riferimento alla situazione esistente nello Stato di origine del ricorrente, anziché a quella in atto nell’intero Pakistan, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, il richiamo alla Dir. 2004/83/CE, art. 8, il cui mancato recepimento nell’ordinamento interno esclude la facoltà dello Stato di rifiutare la protezione internazionale nel caso in cui il richiedente possa trasferirsi in altra parte del paese di origine, diversa da quella in cui abbia fondato motivo di temere di essere perseguitato o corra il rischio effettivo di subire un danno grave, ma non comporta l’obbligo di riconoscere la protezione anche nel caso in cui, come nella specie, il rischio di persecuzione o di danno grave risulti circoscritto ad un’area del paese diversa da quella da cui proviene il richiedente (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29621; 10/07/2019, n. 18540; 15/05/2019, n. 13088);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonché l’apparenza e/o la contraddittorietà della motivazione, rilevando che, nel ribadire l’inattendibilità della vicenda personale da lui allegata, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata non ha considerato che tale misura, avente carattere residuale, è applicabile anche in assenza dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, nonché in caso di compromissione dei diritti inerenti alla sfera personale ed umana del richiedente, come quelli alla salute ed all’alimentazione;

che, nel rigettare la predetta domanda, la sentenza impugnata ha omesso di valutare la situazione generale del suo Paese di origine e le condizioni di vita in cui egli versava prima dell’espatrio, nonché la documentazione prodotta, da cui risultava che egli era ormai stabilmente integrato in Italia;

che il motivo è infondato;

che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata ha richiamato per un verso il giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alle dichiarazioni rese dal ricorrente, rilevando per altro verso l’insussistenza di una condizione di vulnerabilità personale riconducibile alla tipologia elaborata dalla giurisprudenza ai fini dell’individuazione dei “seri motivi di carattere umanitario” che giustificano l’applicazione di tale misura, ed escludendo la possibilità di ravvisare tali motivi nella mera situazione d’insicurezza esistente nel paese di origine, o in gravi violazioni dei diritti umani o delle libertà fondamentali, in assenza di un collegamento con la vicenda personale del richiedente;

che il primo rilievo trova conforto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando, come nella specie, quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione c.d. maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/2019, nn. 21123 e 21129);

che il secondo rilievo costituisce a sua volta puntuale applicazione del principio, anch’esso più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in assenza di un’effettiva condizione di vulnerabilità, deve ritenersi insufficiente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, dal momento che, presi isolatamente, il livello di integrazione dello straniero in Italia ed il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani esistente nel Paese di provenienza non integrano di per sé i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina l’applicazione della misura in questione (cfr. Cass., Sez. I, 22/02/2019, n. 5358; Cass., Sez. VI, 28/06/2018, n. 17072);

che, nel contestare l’ulteriore osservazione della sentenza impugnata, secondo cui non era stata offerta la prova di una sua significativa integrazione nel tessuto socio-economico italiano, il ricorrente si limita ad invocare la documentazione prodotta, senza neppure specificarne la natura ed il contenuto, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 da parte del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547);

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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