Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.6011 del 23/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6505/2021 R.G. proposto da:

B.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Cristiano Dalla Torre, con domicilio eletto in Roma, salita S. Nicola da Tolentino, n. 1/b, presso lo studio dell’Avv. Domenico Naso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 2088/20, depositata il 26 agosto 2020.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 dicembre 2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

RILEVATO

che B.M., cittadino del Senegal, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso la sentenza del 26 agosto 2020, con cui la Corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa l’11 ottobre 2017 dal Tribunale di Venezia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;

che il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.

CONSIDERATO

che è inammissibile la costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, dal momento che nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione il concorso delle parti alla fase decisoria deve realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835);

che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), nonché la nullità della sentenza impugnata per apparenza della motivazione, sostenendo che, ai fini dell’esclusione della sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata in Senegal, la Corte d’appello ha estrapolato alcuni frammenti dai report di note agenzie internazionali, senza tenere conto di altre informazioni desumibili dalle medesime fonti, che attestavano la ripresa degli scontri armati tra le forze armate governative ed i gruppi ribelli e la grave compromissione dello sviluppo economico della regione della Ca-samance, nonché l’esistenza di gravi violazioni dei diritti umani;

che il motivo è infondato;

che, in tema di protezione internazionale, questa Corte ha infatti affermato costantemente che l’obbligo di motivazione posto a carico del giudice ai fini dell’adempimento del dovere di cooperazione istruttoria ufficiosa previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in funzione integrativa degli elementi e della documentazione forniti dal richiedente deve ritenersi assolto mediante il richiamo ad informazioni precise ed aggiornate riguardanti la situazione generale del paese di origine, desunte dalle fonti privilegiate di cui alla medesima disposizione, da individuarsi puntualmente nel provvedimento, in modo tale da consentire alle parti la verifica della pertinenza e correttezza dei dati acquisiti, nonché la critica degli stessi in sede d’impugnazione, attraverso l’eventuale deduzione dell’esistenza di altre fonti più aggiornate e specifiche, sulla base delle quali il provvedimento impugnato sarebbe potuto pervenire a conclusioni diverse (cfr. Cass., Sez. I, 11/11/2019, n. 29056; 22/05/ 2019, n. 13897; 17/05/2019, n. 13449);

che tale dovere è stato correttamente adempiuto dalla Corte d’appello, la quale, nell’escludere la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha riportato, a sostegno della propria valutazione, ampi stralci delle informazioni relative alla situazione sociale, politica ed economica del Senegal desunte dal rapporto EASO relativo all’anno 2018, sulla base dei quali ha concluso che in tale Paese non è in atto una situazione di violenza generalizzata talmente grave da esporre a rischio la vita o l’incolumità della popolazione civile;

che, nel censurare la predetta valutazione, il ricorrente non è in grado d’indicare fonti più specifiche o aggiornate di quelle utilizzate nella sentenza impugnata né lacune argomentative o incongruenze del ragionamento seguito per giungere alla decisione, ma si limita ad invocare altri passi del medesimo rapporto citato dalla Corte d’appello, ai quali non può tuttavia riconoscersi una portata decisiva, in quanto recanti la mera segnalazione di scontri occasionali tra le forze di sicurezza governative ed i ribelli nella regione della Casamance, la cui identificazione come luogo di origine del ricorrente è stata peraltro motivatamente posta in dubbio dall’ordinanza di primo grado, con apprezzamento non validamente censurato in sede di gravame;

che, nell’insistere sull’esistenza di gravi violazioni dei diritti umani, emergente dal medesimo rapporto, il ricorrente non considera che le stesse esulano dalla fattispecie di cui all’art. 14, lett. c), del D.Lgs. n. 251 del 2007, per la cui configurabilità è necessaria la sussistenza di un conflitto armato, cioè di un contrasto tra le forze governative dello Stato ed uno o più gruppi armati antagonisti, o tra due o più gruppi armati che si contendano il controllo militare del territorio, caratterizzato da un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rinviato nella regione di provenienza, corra il rischio di subire un danno grave per la sua sola presenza sul territorio (cfr. Cass., Sez. I, 2/03/ 2021, n. 5675; Cass., Sez. VI, 8/07/2019, n. 18306; 2/04/2019, n. 9090);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, nonché la nullità della sentenza impugnata per apparenza della motivazione, osservando che, ai fini del rigetto della domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata si è limitata ad insistere sull’insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata, omettendo di valutare il livello d’integrazione socio-economica da lui raggiunto in Italia, desumibile dall’apprendimento della lingua, dal superamento dell’esame di terza media, dallo svolgimento di attività di formazione professionale e di volontariato, nonché dalla stipulazione di un contratto di apprendistato;

che il motivo è infondato;

che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, la sentenza impugnata ha richiamato il giudizio d’inattendibilità espresso in ordine alla vicenda personale allegata dal ricorrente, ritenendolo sufficiente ad escludere la sussistenza dei presupposti necessari per l’applicazione della misura richiesta, in mancanza dell’allegazione di ulteriori profili di vulnerabilità soggettiva, diversi da quelli già esaminati;

che tale apprezzamento si pone perfettamente in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, pur postulando una condizione di vulnerabilità personale, la cui configurabilità deve costituire oggetto di una valutazione autonoma rispetto a quella dei presupposti richiesti per l’applicazione delle altre forme di protezione, non richiede specifici approfondimenti istruttori da parte del giudice di merito allorquando quest’ultimo abbia già escluso la credibilità della vicenda personale allegata dal richiedente, e non siano state fatte valere ragioni di vulnerabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle dedotte a sostegno della domanda di riconoscimento delle forme di protezione c.d. maggiori (cfr. Cass., Sez. I, 24/12/2020, n. 29624; Cass., Sez. I, 7/08/2019, nn. 21123 e 21129);

che, in difetto dell’allegazione di una condizione di vulnerabilità personale o dell’esposizione al rischio di gravi violazioni dei diritti umani in caso di rimpatrio, deve ritenersi irrilevante la prova dell’avvenuto inserimento del richiedente nel tessuto economico-sociale italiano, la cui isolata considerazione non potrebbe in alcun modo condurre al riconoscimento della protezione umanitaria, ai fini della quale si richiede un raffronto tra il livello d’integrazione da lui raggiunto nel paese di accoglienza e la situazione soggettiva e oggettiva in cui egli versava prima dell’espatrio, e nella quale verrebbe nuovamente a trovarsi in caso di rientro nel paese di origine (cfr. Cass., Sez. Un., 13/11/ 2019, n. 29459; Cass., Sez. II, 17/07/2020, n. 15319; Cass., Sez. VI, 3/04/ 2019, n. 9304);

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo all’irrituale costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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