Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.6192 del 24/02/2022

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11005-2016 proposto da:

B.B., domiciliato, in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 4, presso lo studio dell’avvocato GIULIO SIMEONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ALFREDO ZAZA D’AULISIO;

– ricorrente –

contro

ASL DI LATINA, REGIONE LAZIO, P.E., C.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3481/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 29/04/2015 R.G.N. 4647/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/11/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Roma, adita dalla Regione Lazio e dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Latina, ha riformato la sentenza del Tribunale di Latina che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, proposta da B.B. nei confronti delle appellanti, ed aveva dichiarato cessata la materia del contendere quanto alla domanda di reintegrazione e di risarcimento del danno patrimoniale;

2. la Corte territoriale ha premesso che l’appellato, nominato direttore generale dell’ASL di Latina con contratto di durata triennale del 24 novembre 2003, il 3 agosto 2005 era stato dichiarato decaduto dall’incarico ai sensi dello Statuto della Regione Lazio, art. 55, comma 4, e della L.R. n. 9 del 2005, art. 71 e, successivamente, aveva sottoscritto il 26 luglio 2007 atto di transazione, con il quale aveva accettato la somma di Euro 191.734,63 e rinunciato alla domanda di ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno patrimoniale;

3. il giudice d’appello, per quel che ancora rileva, ha evidenziato che il provvedimento di decadenza era stato adottato sulla base delle disposizioni normative sopra citate, dichiarate incostituzionali solo con sentenza n. 104 del 19 marzo 2007, sicché ha ritenuto infondata la domanda risarcitoria non coperta dalla transazione richiamando la giurisprudenza di questa Corte secondo cui non è configurabile la colpa dell’agente qualora, come nella fattispecie, quest’ultimo abbia conformato il proprio comportamento alla disposizione normativa solo successivamente dichiarata incostituzionale;

4. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.B. sulla base di due motivi, ai quali non hanno opposte difese la A.S.L. di Latina, la Regione Lazio, P.E. e C.G., rimasti tutti intimati.

CONSIDERATO

CHE:

1. il ricorso denuncia, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. perché, si sostiene, la Corte territoriale non avrebbe considerato la necessaria risarcibilità dei danni non patrimoniali che ledono beni costituzionalmente protetti, quali sono l’integrità psico-fisica, l’immagine, la vita di relazione;

1.1. sostiene il ricorrente, riportando le massime di pronunce di questa Corte, che l’obbligo di risarcire detti danni prescinde dal dolo o dalla colpa ed anche dal titolo della responsabilità, che può essere indifferentemente contrattuale o extra contrattuale, sicché doveva essere risarcito il danno biologico atteso che era stato dimostrato che la patologia era insorta nel dicembre 2005 a causa dall’anticipata cessazione dall’incarico di direttore generale;

1.2. aggiunge che non poteva essere aprioristicamente esclusa la colpa della PA perché la norma dichiarata incostituzionale non prevedeva un’attività obbligata sicché la scelta discrezionale compiuta andata effettuata nel rispetto dei canoni di perizia e di diligenza;

2. il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita alla sentenza impugnata il vizio di omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti perché il giudice d’appello avrebbe dovuto considerare la mancata reintegra successiva al pronunciamento della Corte Costituzionale, che costituiva condotta colposa, non avendo l’amministrazione ottemperato all’obbligo di riammissione in servizio;

3. il primo motivo di ricorso è infondato perché la Corte territoriale non si è discostata dall’orientamento, ormai consolidato, espresso da questa Corte che ha ritenuto infondate le domande di risarcimento del danno proposte in fattispecie analoghe (cfr. fra le più recenti Cass. n. 13916/2020; Cass. n. 13627/2020; Cass. n. 34465/2019; Cass. n. 137/2019);

3.1. con le richiamate decisioni si è ribadito che la retroattività delle pronunce di illegittimità costituzionale riguarda l’antigiuridicità delle norme investite, non più applicabili neanche ai rapporti pregressi non ancora esauriti, ma non consente di configurare retroattivamente e fittiziamente una colpa del soggetto che, prima della declaratoria di incostituzionalità, abbia conformato il proprio comportamento alle norme solo successivamente invalidate dalla Corte costituzionale;

3.2. si tratta, come evidenziato anche nella sentenza qui impugnata, di un indirizzo giurisprudenziale che ha origini remote, atteso che già con la sentenza n. 2697 del 21 agosto 1972 le Sezioni Unite avevano enunciato il principio secondo cui non si può configurare retroattivamente la colpa, intesa quale atteggiamento psichico del soggetto, non ravvisabile, neppure sotto forma di una sorta di fictio iuris, riguardo ad un comportamento imposto da una norma cogente, anche se incostituzionale, fino a che essa sia in vigore;

3.3. tale principio è stato poi sviluppato nella giurisprudenza successiva (v. Cass. n. 6744/1996; Cass.n. 941/1999; Cass.n. 1138/1999; Cass. n. 15879/2002; Cass. n. 13731/2004; Cass. n. 23565/2007) e, a partire da Cass. n. 355/2013, dello stesso è stata fatta applicazione anche in tema di risoluzione anticipata degli incarichi dirigenziali, disposta sulla base di norme, statali o regionali, poi dichiarate costituzionalmente illegittime, in ordine alla quale si è osservato che la colpa è elemento essenziale dell’illecito e, pertanto, il danno risarcibile subito dal dirigente rimosso dall’incarico è solo quello successivo alla pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, non quello che si è prodotto alla data di cessazione del rapporto, e va ristorato a condizione che al momento della pronuncia di incostituzionalità non fosse già decorso il termine finale originariamente previsto nel contratto di conferimento dell’incarico (si rimanda a Cass. n. 13627/2020 ed alla giurisprudenza ivi richiamata al punto 4.8.);

3.4. nel caso in esame risulta dalla sentenza gravata che il contratto, di durata triennale, era stato sottoscritto il 24 novembre 2003 sicché la pronuncia di incostituzionalità, risalente al 19 marzo 2007, è intervenuta allorquando era già spirato il termine finale dell’originario incarico ed inoltre si erano già prodotti i danni dei quali il ricorrente domanda il risarcimento in questa sede (danno biologico insorto nel dicembre 2005; danno all’immagine derivato dal clamore mediatico della rimozione risalente all’agosto 2005);

3.5. né si può sostenere che la colpa dell’amministrazione andrebbe comunque ravvisata in quanto la norma dichiarata incostituzionale non prevedeva un’attività vincolata bensì, nel consentire la conferma, conferiva all’amministrazione un potere discrezionale, da esercitare nel rispetto dei principi di efficienza, imparzialità e buon andamento fissati dall’art. 97 Cost.;

3.6. le disposizioni normative che vengono qui in rilievo (il “combinato disposto” della L.R. Lazio 17 febbraio 2005, n. 9, art. 71, commi 1, 3 e 4, lett. a), e della L.R. Lazio 11 novembre 2004, n. 1, art. 55, comma 4) sono state dichiarate incostituzionali proprio perché consentivano la decadenza automatica a prescindere dall’operato del Direttore Generale, tanto che nella motivazione della sentenza n. 104/2007 si sottolinea che neppure l’eventuale conferma doveva essere motivata e preceduta da apposita valutazione;

3.7. la colpa dell’amministrazione, pertanto, non può essere ravvisata nella mancata espressione di un giudizio che, all’epoca, non era imposto dalla normativa vigente;

4. il secondo motivo è inammissibile perché esula dai limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e denuncia l’omesso esame in relazione ad una circostanza che non è sfuggita alla Corte territoriale (nella sua consistenza di accadimento storico) la quale ha dato atto della transazione;

4.1. d’altro canto, anche a voler ritenere non vincolante la rubrica del motivo e la sua riconduzione al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non si può sostenere che la colpa della Regione Lazio andrebbe ravvisata nell’avere la stessa preferito stipulare un atto di transazione anziché disporre la reintegrazione del Direttore Generale illegittimamente dichiarato decaduto;

4.2. l’atto la cui legittimità è posta in dubbio dal ricorrente è stato sottoscritto nel rispetto della disciplina all’epoca dettata dalla L.R. Lazio n. 8 del 2007, art. 1, secondo cui: “La Giunta regionale, nei confronti dei componenti di organi istituzionali degli enti pubblici dipendenti, i quali siano decaduti dalla carica ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime a seguito di sentenze della Corte Costituzionale, con conseguente risoluzione dei contratti di diritto privato disciplinanti i relativi rapporti di lavoro, è autorizzata a deliberare in via alternativa: a) il reintegro nelle cariche e il ripristino dei relativi rapporti di lavoro; b) un’offerta di equo indennizzo. 2. La soluzione di cui al comma 1, lett. b) è comunque adottata qualora la durata del rapporto di lavoro sia scaduta”;

4.3. anche detta normativa è stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 351 del 24 ottobre 2008, ossia successivamente alla sottoscrizione dell’atto di transazione risalente al 26 luglio 2007, sicché, quanto alla responsabilità, valgono le medesime considerazioni espresse nei punti che precedono;

5. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato e, pertanto, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato;

5.1. non occorre, invece, provvedere sulle spese del giudizio di legittimità perché la Regione Lazio, la ASL di Latina, P.E. e C.G. sono rimasti tutti intimati.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472