LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANCINO Rossana – Presidente –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –
Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16488-2016 proposto da:
M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 25, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO DE FILIPPO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE PITARO;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO STUMPO, VINCENZO TRIOLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 270/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 18/04/2016 R.G.N. 548/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/2022 dal Consigliere Dott. ALFONSINA DE FELICE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato VINCENZO STUMPO.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Catanzaro, a conferma della pronuncia dl Tribunale di Crotone, ha condannato M.P., titolare di assegno d’invalidità dal 1993, a restituire all’Inps quanto indebitamente percepito a titolo di sussidio per lo svolgimento di lavori socialmente utili a decorrere dal 1998, in violazione del divieto di cumulo sancito dal D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 8, comma 5.
La Corte territoriale, richiamando l’espresso divieto legislativo, ha ricostruito l’istituto dei lavori socialmente utili ponendone in risalto la peculiare finalità previdenziale, di strumento operante nell’ambito delle misure dirette a fronteggiare la disoccupazione; ha, quindi, rilevato che il divieto di cumulo del sussidio con altri benefici previdenziali/assistenziali è previsto dal legislatore in funzione “antielusiva”, condannando M.P. a restituire quanto ricevuto dall’Inps (Euro 56.239,96) a titolo di sussidio in quanto appartenente alla categoria dei lavoratori socialmente utili.
Quanto alla doglianza del ricorrente, secondo cui l’Inps sarebbe comunque tenuto a retribuire le prestazioni svolte, sia pure in violazione di legge, ai sensi dell’art. 2126 c.c., la Corte d’appello ha affermato che, stante l’assenza di un vincolo di subordinazione in capo al lavoratore socialmente utile, e stante altresì la particolare configurazione del rapporto, che vede coinvolte tre partii-il lavoratore, l’ente pubblico utilizzatore e l’Inps,– l’onere di adempimento dell’obbligazione retributiva sarebbe gravato, eventualmente, su chi utilizza la prestazione e non già sull’ente previdenziale, che si limita a gestire il finanziamento dei progetti socialmente utili e ad erogare materialmente la prestazione.
La cassazione della sentenza è domandata da M.P. sulla base di tre motivi.
L’Inps ha depositato controricorso, illustrato da successiva memoria.
Il P.G. si è pronunciato per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente contesta “Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto – Illogicità manifesta – art. 36 Cost. – art. 2126 c.c.”.
Sostiene che a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro, egli ha diritto a ricevere una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto.
Col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
civ., denuncia “Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto – Illogicità manifesta – art. 36 Cost. – art. 2126 c.c.”, insistendo sul proprio diritto a ricevere l’equa retribuzione per avere svolto concretamente una prestazione lavorativa, e individua nell’Inps il soggetto tenuto alla controprestazione.
Col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, contesta, altresì “Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto – – Illogicità manifesta – art. 36 Cost. – art. 2126 c.c.”, là dove la sentenza gravata ha affermato che un eventuale corrispettivo per l’attività materialmente prestata sarebbe privo di giusta causa; afferma che l’art. 2126 c.c. riconosce il diritto alla retribuzione anche in caso di contratto nullo e/o annullabile, ciò in nome della tutela preminente che il Costituente riconosce al lavoro nel nostro ordinamento.
I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, per la loro intima connessione.
Essi presentano evidenti profili d’inammissibilità.
In primo luogo, va rilevato che le censure di violazione di legge sono inammissibilmente prospettate.
Esse non rendono intelligibile la dedotta violazione dell’art. 2126 c.c., ma paiono piuttosto evocare genericamente la mancata osservanza di un principio generale in virtù del quale a chiunque abbia svolto una prestazione lavorativa, pur se in violazione di norme di legge, spetta una retribuzione proporzionata e sufficiente a norma dell’art. 36 Cost..
Tuttavia, la modalità con cui il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di legge non si conforma a quanto, anche di recente, hanno ribadito le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. 23745 del 2020), là dove hanno affermato che in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa.
Ma vi è di più: come fa rilevare opportunamente la difesa dell’odierno controricorrente, le censure omettono di confrontarsi con la seconda ratio decidendi autonoma – su cui regge il decisum, rintracciabile nell’affermazione secondo la quale, seppure avesse voluto porsi la questione dell’equa retribuzione per prestazioni di lavoro subordinato svolte con scostamento dalla finalità previdenziale propria della qualifica di lavoratore socialmente utile, il soggetto obbligato avrebbe dovuto essere individuato non già nell’Inps – che nello “schema trilatero” delineato dal legislatore si limita a gestire la procedura di finanziamento – bensì nell’ente pubblico utilizzatore il quale agisce per il recupero di somme non spettanti all’odierno ricorrente.
Nella fattispecie in esame va, pertanto, resa applicazione del consolidato principio di diritto secondo cui, qualora una decisione di merito si fondi su distinte e autonome rationes decidendi di cui ciascuna è – da sola – sufficiente a sorreggerla, il ricorrente, in sede di giudizio di legittimità, ha l’onere, a pena d’inammissibilità del ricorso, di impugnarle (fondatamente) tutte, non potendo altrimenti pervenirsi alla cassazione della sentenza (cfr. ex plurimis, Cass. n. 10815 del 2019 e Cass. n. 17182 del 2020).
Quanto alla denuncia d’illogicità della motivazione, essa è stata inammissibilmente prospettata dal ricorrente in costanzàdi una doppia conforme.
E’ opportuno, in proposito, ricordare quanto afferma il pacifico orientamento di questa Corte: “Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse”(Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 19001 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014).
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
In considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Inps, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.000,00 a titolo di compensi professionali oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’Udienza Pubblica, il 12 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022