Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.6248 del 24/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18087/2013 R.G. proposto da:

RIO TINTO INTERNATIONAL HOLDINGS LIMITED, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa per procura speciale dagli Avv.ti Beatrice Fimiani, Carlo Romano e Giorgio Cherubini, con domicilio eletto presso lo studio legale e tributario CMS Adonnino Ascoli & Casavola Scamoni, in Roma, Via Agostino De Pretis n. 86;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo-sezione staccata di Pescara, n. 49/10/13, depositata il 17 gennaio 2013.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 27 gennaio 2022 dal Consigliere Michele Cataldi.

RILEVATO

che:

1. Rio Tinto International Holdings Limited, società residente nel Regno Unito, ricevette nel 2003 dalla partecipata Itallumina s.r.l., residente in Italia, il pagamento di dividendi e, successivamente, presentò all’Agenzia delle entrate, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 38, domanda di rimborso del credito d’imposta, ai sensi della Convenzione tra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo del Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord, art. 10, comma 4, lett. a), per evitare le doppie imposizioni e prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla L. 5 novembre 1990, n. 329, a norma del quale “Un residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia fatte salve le disposizioni del sub-paragrafo b) del presente paragrafo – ha diritto, se è il beneficiario effettivo dei dividendi, al credito d’imposta con riguardo a tali dividendi cui una persona fisica residente dell’Italia avrebbe avuto diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista nel sub-paragrafo b) del presente art., paragrafo 2. Questa disposizione non si applica se la persona che percepisce i dividendi ed il credito di imposta non è a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito.”.

Con provvedimento di diniego del 2010 l’Amministrazione rigettò l’istanza, ritenendo sia che difettasse il requisito, necessario per il regime convenzionale invocato, dell'”effettiva doppia tassazione, in capo al soggetto inglese, dei dividendi percepiti”; sia che “la scelta operata all’atto dell’erogazione del dividendo del regime di esonero della ritenuta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, indica chiaramente l’opzione effettuata per l’applicazione della Direttiva Comunitaria, i cui benefici (…) non possono che essere alternativi al regime convenzionale.”. Riteneva l’Ufficio che la percipiente avesse optato per i benefici congiunti dell’applicazione della Dir. n. 90/435/CE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (c.d. direttiva madre-figlia), con l’esonero dalla ritenuta sui dividendi, invocato ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27 bis, – e dell’underlying tax credit (u.l.t.), normativa inglese che consentiva autonomamente di non tassare i dividendi di fonte italiana in presenza di partecipazioni qualificate, equivalente comunque ad un detrazione d’imposta. Per effetto di tali regimi sarebbe quindi venuta meno ogni doppia imposizione e non sarebbe stata pertanto applicabile la ridetta Convenzione.

2. La contribuente propose ricorso avverso il diniego di rimborso, deducendo che il mancato riconoscimento delle somme pari al credito d’imposta, che le spettava ai sensi della Convenzione, art. 10, comma 4, lett. a), comportava una doppia imposizione economica sui dividendi in questione, che non era eliminata dalle disposizioni inglesi sull’ult., poiché gli stessi dividendi erano stati inseriti dalla società madre, residente nel Regno Unito, nella base imponibile dell’imposta dovuta nel paese di residenza. Inoltre, la contribuente evidenziò che non aveva preteso di fruire di un doppio beneficio (quello convenzionale e quello di cui alla c.d. direttiva madre-figlia), poiché, nel chiedere il rimborso, aveva richiesto di applicare la ritenuta convenzionale del 5% sia sul dividendo che sul credito d’imposta, attenendosi peraltro alle indicazioni fornite dalla stessa Amministrazione nella prassi, ed in particolare nella circolare dell’Agenzia delle entrate 10 agosto 1994, n. 151.

L’adita Commissione tributaria provinciale di Pescara respinse il ricorso della società.

Proposto appello dalla contribuente, la Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo-sezione staccata di Pescara, con la sentenza n. 49/10/13, depositata il 17 gennaio 2013, lo ha rigettato.

Avverso quest’ ultima decisione la società ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

L’Ufficio si è costituito con controricorso.

La ricorrente ha prodotto memoria.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente società denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 18, (ex art. 12), della libertà di stabilimento di cui all’art. 43, (ex art. 52), e della libera circolazione dei capitali di cui al trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), art. 63, (ex art. 56).

Assume infatti la contribuente che per effetto della negazione dell’applicabilità della Convenzione, art. 10, comma 4, lett. a), essa verrebbe assoggettata ad un trattamento fiscale deteriore rispetto a quello cui sarebbe stata assoggettata una società residente in Italia che avesse percepito dividendi da altra società italiana, poiché in quest’ultimo caso la società c.d. madre non avrebbe subito ritenuto ed avrebbe beneficiato del credito d’imposta allora previsto dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 14. Tale trattamento deteriore era stato stigmatizzato anche dalla pronuncia della Corte di giustizia del 19 novembre 2009, nella causa C-540/07, per la quale “La Repubblica italiana, avendo assoggettato i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri ad un regime fiscale meno favorevole di quello applicato ai dividendi distribuiti alle società residenti, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 56 CE, n. 1”.

Ribadisce poi la ricorrente che il diniego opposto dall’Agenzia all’istanza di rimborso la sottopone ad una doppia imposizione economica, atteso che i medesimi dividendi sarebbero tassati sia in uscita (con ritenuta alla fonte) che in entrata, essendo inclusi nel reddito imponibile della società madre ed essendo tale circostanza sufficiente, a prescindere dalla loro effettiva tassazione nel Regno Unito, a determinare il trattamento deteriore della società non residente che li percepisca.

1.1. In subordine al mancato accoglimento del primo motivo, ovvero per il caso di ritenuta “disapplicazione della Convenzione Italia-Regno Unito, art. 10, comma 4”, la ricorrente ha chiesto di sottoporre alla Corte di Giustizia le questioni pregiudiziali relative alla legittimità – ai sensi del principio di non discriminazione, del diritto di stabilimento, della libera circolazione di capitali e del principio di reciprocità dei trattati – del ritenuto trattamento diverso tra azionisti residenti in Italia ed azionisti residenti nel Regno Unito, che deriverebbe dal mancato riconoscimento a questi ultimi, negando l’applicazione della ridetta Convenzione, art. 10, paragrafo 4, di alcun rimedio contro la doppia imposizione economica sui dividendi ricevuti.

2. Con il secondo motivo la ricorrente società denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della c.d. dir. madre-figlia, art. 4, comma 1, e art. 7, comma 2. Quest’ultima disposizione, sottolinea in particolare la ricorrente, prevede che “La presente direttiva lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi.”, per cui la domanda di rimborso trova fondamento nel persistente regime convenzionale invocato. Il quale, aggiunge la ricorrente, con riferimento al caso di specie, prevede, all’art. 10, comma 1, che “I dividendi pagati da una società residente di uno Stato contraente ad un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili in detto altro Stato.”, introducendo una regola di principio e fatti salvi i commi successivi.

Infatti, l’art. 10, il successivo comma 2, dispone che “Tuttavia, tali dividendi possono essere tassati anche nello Stato contraente di cui la società che paga i dividendi è residente ed in conformità alla legislazione di detto Stato ma, se la persona che percepisce i dividendi ne è l’effettivo beneficiario, l’imposta così applicata non può eccedere: a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se l’effettivo beneficiario è una società che controlla, direttamente o indirettamente, almeno il 10 per cento del potere di voto della società che paga i dividendi;”.

Dispone ulteriormente l’art. 10, il successivo comma 4, che “a) Un residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia – fatte salve le disposizioni del sub-paragrafo b) del presente paragrafo – ha diritto, se è il beneficiario effettivo dei dividendi, al credito d’imposta con riguardo a tali dividendi cui una persona fisica residente dell’Italia avrebbe avuto diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista nel sub-paragrafo b) del presente art., del paragrafo 2. Questa disposizione non si applica se la persona che percepisce i dividendi ed il credito di imposta non è a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito.

b) Le disposizioni del sub-paragrafo a) del presente paragrafo non si applicano quando il beneficiario effettivo dei dividendi è una società che controlla da sola od insieme ad una o più società collegate, direttamente o indirettamente, il 10 per cento o più del potere di voto nella società che paga i dividendi. In tal caso, una società residente del Regno Unito che riceve dividendi da una società residente dell’Italia ha diritto, a condizione che sia la beneficiaria effettiva dei dividendi, ad un credito di imposta pari alla metà del credito d’imposta cui una persona fisica residente in Italia avrebbe diritto se avesse ricevuto gli stessi dividendi, previa deduzione dell’imposta prevista al sub-paragrafo a) del presente art., del paragrafo 2, ed a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d’imposta sia a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito. Ai fini del presente sub-paragrafo, due società si considerano collegate se una di esse controlla, direttamente o indirettamente, più del 50 per cento del potere di voto nell’altra società oppure una terza società controlla più del 50 per cento del potere di voto di entrambe.”.

Afferma la ricorrente (sul presupposto quindi di rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 10, comma 2, lett. a), della società che controlla il 10 per cento o più del potere di voto nella società che paga i dividendi) che la sua richiesta di rimborso della metà del credito d’imposta, decurtato del 5% sullo stesso credito d’imposta e del 5% sui dividendi, si traduceva quindi nella scelta (ammessa anche dalla richiamata circolare n. 151/E del 1994) di applicare il regime convenzionale appena esposto, con conseguente rinuncia ai benefici della direttiva madre-figlia, e non rappresentava invece la pretesa di godere contemporaneamente anche del regime comunitario, cumulandolo a quello pattizio, come invece ritenuto dalla sentenza impugnata.

3. Con il terzo motivo la ricorrente società denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della ridetta Convenzione, art. 4, comma 1, e art. 10, comma 4, e dell’art. 115 c.p.c..

Rileva la contribuente che la clausola di cui alla Convenzione, art. 10, comma 4, lett. a), dispone che “Questa disposizione non si applica se la persona che percepisce i dividendi ed il credito di imposta non è a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito.”. Ed invero anche lo stesso comma, la successiva lett. b), recita “a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d’imposta sia a tal titolo soggetta all’imposta del Regno Unito”.

A detta della ricorrente, la condizione della sottoposizione all’imposta del Regno Unito deve ritenersi soddisfatta quando ricorrano i presupposti di cui alla Convenzione, art. 4, comma 1, che, in tema di domicilio fiscale, definisce “residente di uno Stato contraente” “ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono imponibili in questo Stato contraente soltanto per i redditi provenienti da fonti ivi situate.”. Per ritenere “soggetta all’imposta del Regno Unito” – della Convenzione, ex art. 10, comma 4, – la società residente nel Regno Unito, che abbia ricevuto i dividendi da quella residente in Italia, sarebbe quindi sufficiente, a detta della ricorrente, la sussistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato contraente, indipendentemente dalla prova dell’effettivo pagamento in concreto delle imposte del regno Unito per il medesimo titolo e per la stessa annualità, come invece la CTR ha nel caso di specie ritenuto necessario, escludendo che fosse avvenuto.

Assume la ricorrente che aveva allegato già all’originaria istanza di rimborso, al ricorso introduttivo ed all’appello (indicandone puntualmente la produzione, per autosufficienza, come allegato 2 al ricorso introduttivo, oltre che all’appello), una certificazione dell’autorità fiscale del Regno Unito, dalla quale risultava che essa era residente nel Regno Unito ai sensi del trattato tra l’Italia ed il Regno Unito ed era soggetta nel Regno Unito alla tassazione, che la CTR non aveva considerato.

Aggiunge poi la contribuente che la disciplina fiscale applicata ratione temporis nel Regno Unito, ovvero l’underlying tax credit (u.l.t.), non comportava l’esenzione dei dividendi di fonte estera dall’imposizione, atteso che il credito d’imposta indiretto derivante nel Regno Unito dall’applicazione di tale istituto era obbligatoriamente ridotto del valore del credito riconosciuto dalla Convenzione de qua e la ricorrente lo aveva infatti determinato al netto di quest’ultimo.

4. Con il quarto motivo la ricorrente società denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del principio di reciprocità e della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, art. 26, secondo il quale ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere interpretato secondo buona fede.

Secondo la ricorrente, infatti, la mancata applicazione della Convenzione tra Italia e Regno Unito, art. 10, comma 4, determinerebbe (come riconosciuto dall’Agenzia nella risoluzione 16 marzo 1999, n. 43/E), la violazione di tale accordo e del principio di reciprocità, immanente alla materia pattizia, posto che almeno fino al periodo d’imposta 2004 i dividendi distribuiti da una società inglese ad una società italiana davano diritto a quest’ultima di ottenere il tax credit.

5. Pare opportuno premettere che, come questa Corte ha già rilevato in controversie analoghe (Cass. 19/11/2020, n. 26307; Cass. 20/07/2021, n. 20646), alcun rilievo può essere attribuito al recente recesso del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord (“Brexit”) dall’Unione Europea, il cui accordo (in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 31 gennaio 2020), all’art. 127, prevede che, salvo che l’accordo medesimo non disponga diversamente “il diritto dell’unione si applica al Regno Unito e nel Regno Unito durante il periodo di transizione” il quale, per effetto del precedente art. 126, decorreva dalla data di entrata in vigore dell’accordo stesso sino al 31 dicembre 2020.

Infatti, la domanda sostanziale della contribuente ha fondamento nella convenzione bilaterale, di natura pattizia, tra Italia e Regno Unito.

Inoltre, la direttiva del Consiglio concernente il regime fiscale madre-figlia, per quanto in questa sede specificamente rileva, comunque non rientra tra quelle immediatamente abrogate. Ne’ alcuna disposizione specifica è dettata dall’accordo riguardo al regime dei dividendi. Inoltre gli articoli dell’accordo di interesse fiscale (ad esempio l’art. 20 in tema di Iva, l’art. 52 in materia di accise, e l’art. 47 riguardo i dazi), confermano espressamente l’applicazione del diritto unionale se il momento impositivo si colloca, come nel caso di specie, prima della fine della fase transitoria, datata 31 dicembre 2020.

L’art. 89 dell’accordo di recesso, infine, prevede la persistente vincolatività, rispetto alle fattispecie cui continua ad applicarsi il diritto comunitario, delle sentenze ed ordinanze già emesse dalla Corte di giustizia.

Peraltro tali criteri, a livello di principi, trovano corrispondenza, per quanto qui possa rilevare, nella disciplina interna di cui al D.L. 25 marzo 2019, n. 22, art. 13, convertito in legge con modificazioni dalla L. 20 maggio 2019, n. 41, che, sia pur nell’ambito del predetto D.L., della sezione I, concernente le misure in caso di recesso del Regno Unito in assenza di accordo, in materia di disposizioni fiscali dispone che “Fino al termine del periodo transitorio si continuano ad applicare le disposizioni fiscali nazionali previste in funzione dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, ivi incluse quelle connesse con l’esistenza di una direttiva UE. Le disposizioni derivanti dall’attuazione di direttive e regolamenti dell’Unione Europea in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) e accise si continuano ad applicare in quanto compatibili. Con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze sono stabilite, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, le modalità e i termini per l’attuazione della Disp. di cui al comma 1.”.

5.1. Tanto premesso, i motivi di ricorso, per la loro connessione, vanno trattati congiuntamente ed il ricorso è fondato e va accolto, nei termini di cui in motivazione, con conseguente assorbimento della richiesta, formulata dalla contribuente in via subordinata, di rinvio pregiudiziale.

Infatti, come questa Corte ha già chiarito con riferimento a fattispecie simile a quella sub iudice, “In tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia, residente in Italia, ad una società madre, residente nel Regno Unito, l’esenzione integrale da imposta sui dividendi riconosciuta in Italia ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, che ha attuato la Dir. madre-figlia n. 453/1990/CE, non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica né di violazione del principio di neutralità fiscale, secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia (causa C-389/18 del 19 dicembre 2019, Brussels Securities); pertanto, è consentito alla società madre, che originariamente non abbia subito in Italia ritenute sui dividendi ricevuti D.P.R. cit., ex art. 27-bis, di optare successivamente per l’applicazione della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Regno Unito, art. 10, par. 4 lett. b, ratificata con L. n. 329 del 1990, chiedendo un credito di imposta, che deve però subire una ritenuta del 5 per cento sull’ammontare dei dividendi ricevuti e un’ulteriore ritenuta del 5 per cento sull’importo del credito di imposta, non sussistendo una alternatività, in termini assoluti, tra le due fonti normative e trovando applicazione il principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale (“international tax neutrality ed efficiency”), espressione della “intercountry equity”.” (Cass. 20/07/2021, n. 20646; nello stesso senso cfr. Cass. 31/01/2020, n. 2313; Cass. 19/11/2020, n. 26307). Allo stesso modo, in ordine alla relazione tra i due strumenti (quello nazionale dell’esenzione dalla ritenuta, attuativo della direttiva comunitaria, e quello pattizio del credito d’imposta) finalizzati ad evitare il rischio della doppia imposizione, questa Corte si è pronunciata anche a proposito di altra Convenzione: “In tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Francia, il credito d’imposta previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, firmata tra Italia e Francia il 5 ottobre 1989, art. 10 comma 4, lett. b), e ratificata dalla Repubblica Italiana con L. n. 20 del 1992, non è escluso dal riconoscimento dell’esenzione dalla ritenuta prevista dalla Dir. madre-figlia n. 453 del 1990, (attuata con il D.Lgs. n. 136 del 1993), atteso che secondo l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia (causa C-389/18, del 19 dicembre 2019, Brussels Securities), questo secondo beneficio non elimina necessariamente il rischio di doppia imposizione economica né di violazione del principio di neutralità fiscale. Peraltro, ai fini del corretto coordinamento dei due meccanismi di tutela dagli effetti distorsivi della doppia imposizione (esenzione e credito d’imposta), la necessaria verifica in concreto della eliminazione effettiva di detto rischio in danno della società madre francese – a tutela da trattamenti fiscali deteriori rispetto alla disciplina applicabile ad una società madre sedente in Italia – deve essere compiuta mediante l’accertamento che il dividendo distribuito dalla società figlia italiana sia compreso, una volta assegnato alla società madre francese, nel coacervo dei redditi imponibili in quello Stato, senza che rilevi se nel concreto quel reddito sia ivi assoggettabile ad aliquota pari, inferiore o superiore a quella altrimenti applicabile in Italia, riconducendosi la disciplina nel principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale.” (Cass. 20/05/2021, n. 13845).

5.2. Nel caso di specie, così come in quello oggetto del primo arresto giurisprudenziale citato (Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit.; in senso conforme cfr. altresì cass. 15/11/2021, n. 34179), peraltro relativo anch’esso al periodo d’imposta 2003, si controverte, nella sostanza della possibilità della società – madre, residente nel regno Unito, di mutare, con la domanda di rimborso del credito d’imposta, il regime fiscale relativo ai dividendi che le ha distribuito la società – figlia residente in Italia, transitando da quello di “esenzione”, di fatto applicato al momento della riscossione del dividendo, in base alla direttiva madre-figlia, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, al regime di tassazione con l’aliquota del 5% + 5%, previsto invece dalla Convenzione tra Italia e Regno Unito.

L’Agenzia delle entrate contesta la legittimità di tale scelta, sostenendo che i due regimi siano necessariamente alternativi e non cumulabili, ed assumendo che l’avvenuta applicazione della direttiva madre-figlia (attuata nel nostro ordinamento dall’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, per effetto del quale la contribuente non ha subito alcuna ritenuta sui dividendi riscossi) impedirebbe di applicare contestualmente alla fattispecie la Convenzione Italia-Regno Unito contro le doppie imposizioni (dalla quale, secondo la società, deriverebbe il diritto al pagamento del credito d’imposta).

Infatti, sostiene l’ufficio, il sistema del credito d’imposta, derivante dalla Convenzione, art. 10, risponde alla ratio di evitare la doppia tassazione del medesimo fenomeno economico, impedendo che lo stesso reddito sia tassato sia in uscita, ovvero a carico della società che produce utili e distribuisce dividendi, come reddito d’ impresa; sia in entrata, in capo al socio che incassa gli stessi dividendi, quale reddito di capitale, derivante dalla partecipazione alla società.

Tale esigenza non ricorrerebbe tuttavia in caso di applicazione del sistema previsto dalla direttiva madre-figlia, giacché l’esclusione di oneri d’imposta a carico del socio che percepisca i dividendi escluderebbe già la doppia imposizione economica che si vorrebbe evitare. In questo caso, allora, l’ulteriore concessione al socio del credito d’imposta di matrice pattizia, invece di evitare la doppia imposizione economica, distorcendo la ratio della Convenzione, darebbe luogo ad un indebito beneficio, comportando un doppio privilegio a favore del soggetto non residente, con conseguente ingiustificata disparità di trattamento rispetto a quello residente.

Nella sostanza, secondo la tesi dell’Ufficio, se si accordasse anche la restituzione del credito d’imposta si consentirebbe alla società di accrescere il dividendo di un ulteriore importo pari al credito rimborsato, ponendo in essere una discriminazione rispetto agli altri soggetti italiani.

5.3. Va premesso che non sono contestate specificamente in questa sede né la relazione tra la società che ha erogato i dividendi e quella che li ha incassati; né, per quanto qui rileva, la misura della partecipazione della seconda nella prima, da ritenersi pari almeno al 10%, atteso che non è puntualmente contraddetta la misura (5%) della decurtazione da applicare sui dividendi e sul credito d’imposta, indicata dalla contribuente, che corrisponde, a norma dell’art. 10, comma 2, lett. a), e comma 4, lett. a), a tale livello minimo di partecipazione; né che sia avvenuta l’effettiva distribuzione degli utili in questione, da parte della società-figlia italiana alla società-madre inglese; né, infine, che la società-figlia non abbia applicato alcuna ritenuta al momento dell’erogazione dei dividendi.

La totale esenzione d’imposta sui dividendi distribuiti trovava fondamento nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, comma 3, vigente ratione temporis, inserito nell’ordinamento italiano in attuazione della disciplina relativa alla direttiva madre-figlia, che nel terzo considerando evidenzia “che le attuali disposizioni fiscali che disciplinano le relazioni tra società madri e società figlie di Stati membri diversi variano sensibilmente da uno Stato membro all’altro e sono, in generale, meno favorevoli di quelle applicabili alle relazioni tra società madri e società figlie di uno stesso Stato membro; che la cooperazione tra società di Stati membri diversi viene perciò penalizzata rispetto alla cooperazione tra società di uno Stato membro; che occorre eliminare questa penalizzazione instaurando un regime comune e facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello comunitario” e che “e’ inoltre opportuno esentare dalla ritenuta alla fonte, salvo in taluni casi particolari, gli utili conferiti da una società figlia alla propria società madre”.

In attuazione di tale ratio la Dir. prevede quindi, all’art. 4, la possibilità, alternativa, di tassazione dei dividendi ricevuti dalla società madre, stabilendo che “(…) quando una società madre (…) riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato della società madre e lo Stato della sua stabile organizzazione: -si astengono dal sottoporre tali utili ad imposizione, o -li sottopongono ad imposizione, autorizzando però detta società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata, a condizione che a ciascun livello la società e la sua sub-affiliata soddisfino i requisiti di cui agli artt. 2 e 3, entro i limiti dell’ammontare dell’imposta corrispondente dovuta”. Il successivo art. 5, chiarisce poi che “gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre sono esenti dalla ritenuta alla fonte”.

5.4. Con la richiesta di rimborso oggetto del presente contenzioso la contribuente ha, sostanzialmente, rinunciato all’applicazione della Dir. madre-figlia n. 435/90/CE, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, comma 3, ovvero all’esenzione totale dalle ritenute applicabili sui dividendi distribuiti dalla società-figlia italiana, optando per la diversa disciplina del credito d’imposta, prevista dalla ridetta Convenzione Italia-Regno Unito, art. 10, non limitandosi, infatti, a richiedere soltanto che le fosse pagato il credito d’imposta, ma chiedendo espressamente che le fossero applicate le ritenute del 5% sia su quest’ultimo che sui dividendi ricevuti, in conformità al regime pattizio ante richiamato.

In questo senso, del resto, la stessa Amministrazione (cfr. pag. 25 del controricorso) evidenzia e censura la pretesa della contribuente di “scambiare” i due regimi, attraverso l’applicazione, “al momento dell’opzione per il regime convenzionale”, della ritenuta “non applicata al momento della riscossione”.

5.5. Condividendo le argomentazioni già esposte dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte (ed in particolare quelle di cui alla motivazione di Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit.), deve ritenersi, a differenza di quanto reputato dalla CTR, possibile che la società-madre, residente in Gran Bretagna, che inizialmente aveva beneficiato dell’esenzione totale dalle ritenute sui dividendi ricevuti dalla società-figlia, residente in Italia, possa invocare, tramite istanza di rimborso, la disciplina tributaria del credito d’imposta ai sensi della L. 5 novembre 1990, n. 329, art. 10, comma 4, (Convenzione Italia-Regno Unito).

Il principio di alternatività, in termini assoluti, tra tali regimi non trova infatti conferma nella Dir. madre-figlia n. 435/90/CE, che invece prevede espressamente, all’art. 7, paragrafo 2, che “La presente direttiva lascia impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intesi a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari dei dividendi”.

Si tratta invero di una disposizione testuale, esplicita ed inequivocabile, che garantisce la permanente efficacia degli accordi bilaterali anche in relazione alla materia trattata dalla direttiva e che “e’ stata introdotta, su richiesta di alcuni degli Stati membri, proprio al fine di evitare che potessero emergere dubbi in merito alla compatibilità della direttiva madre-figlia con talune disposizioni convenzionali volte ad eliminare o mitigare la doppia imposizione sui dividendi” (Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit., in motivazione).

Pertanto, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra convenzione sulla doppia imposizione, ” il concorso formale tra norma bilaterale e norma comunitaria è risolto, nel senso della sopravvivenza della prima, dalla stessa Dir. CEE 23 luglio 1990, n. 435, art. 7, paragrafo 2, (…) (nello stesso senso, in motivazione, Cass.. 27/10/2017, n. 25585, secondo cui la permanente efficacia degli accordi bilaterali è resa esplicita dalla stessa Dir., art. 7, paragrafo 2, che non intende superare la “competizione” di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di Direttiva e di Convenzione bilaterale implichi l’automatica espunzione dell’una a favore dell’altra).” (Cass. 21/11/2019, n. 30347, in motivazione).

A supporto della sopravvivenza della Convenzione in parola, e della sua compatibilità con la predetta direttiva, è stato aggiunto (Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit., in motivazione) che “La deroga al generale divieto di imposizione alla fonte di cui alla Dir. madre-figlia (n. 435/90/CE), art. 5, n. 1, e’, dunque, ammessa solo a condizione che lo Stato della società che distribuisce dividendi elimini la doppia imposizione economica, costituita dall’imposizione degli utili in capo alla società distributrice e dal successivo prelievo alla fonte al momento della distribuzione. Ciò avviene con il pagamento in favore della società madre non residente di un credito d’imposta relativo alle imposte pagate dalla società figlia. Pertanto, ai sensi della Dir., art. 7, paragrafo 2 può applicarsi la ritenuta eventualmente prevista da un trattato contro le doppie imposizioni, in deroga al divieto di ritenuta di cui alla Dir., art. 5, paragrafo 1, se tale ritenuta “può essere considerata come rientrante in un insieme di disposizioni convenzionali relative al pagamento di crediti di imposta ai beneficiari di dividendi e diretta perciò stesso ad attenuare la doppia imposizione” (Corte giustizia, 25 settembre 2003, n. 58, paragrafo 88). Con tale decisione, si consente la contestuale applicazione della direttiva e delle disposizioni convenzionali volte al riconoscimento del credito d’imposta sui dividendi. I due sistemi normativi, costituiti dalla direttiva madre-figlia e dalla Convenzione Italia-Regno Unito non sono in alcun modo incompatibili, ma possono anche essere applicati in modo contestuale nei casi in cui la ritenuta sui dividendi costituisca parte integrante di un insieme di disposizioni convenzionali volte ad attenuare la doppia imposizione. Non v’e’, dunque, alcuna preclusione all’applicazione del credito d’imposta convenzionale, anche in presenza dei requisiti di applicazione della direttiva madre-figlia.”

Anche la norma interna che ha recepito la direttiva madre-figlia non esprime un principio di alternatività assoluta con la disciplina pattizia, atteso che il ridetto D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, al comma 4, dispone che “resta impregiudicata l’applicazione di ritenute alla fonte previste da disposizioni convenzionali che accordano rimborsi di somme afferenti i dividendi distribuiti”.

5.6 La prassi dell’Amministrazione finanziaria, poi, prevede espressamente la fattispecie in cui il sostituto d’imposta, sotto la propria responsabilità, si sia astenuto dall’applicazione della ritenuta sui dividendi erogati, disponendo che “a seguito dell’istanza della società madre residente nel Regno Unito volta ad ottenere il rimborso del credito d’imposta spettante ai sensi della vigente Convenzione, art. 10, per evitare la doppia imposizione da presentarsi alle direzioni delle entrate-sezioni staccate, queste ultime applicheranno la ritenuta prevista dal trattato sia sull’ammontare del credito d’imposta sia – ove non l’abbiano effettuata i sostituti – sull’ammontare dei dividendi e provvederanno a detrarre la ritenuta così applicata dalla somma dovuta quale credito d’imposta”, poiché “in quest’ultima ipotesi cioè di dividendi pagati da una società figlia italiana ad una società madre inglese (e non assoggettati ad alcuna ritenuta), quest’ultima avrà ugualmente diritto alle condizioni previste dal trattato, al pagamento di una somma pari alla metà del credito d’imposta, ma in tal caso la ritenuta del 5% dovrà essere applicata sia sull’importo del credito d’imposta spettante sia sull’importo dei dividendi (rimborso 21,72%)” (circolare 10 agosto 1994, n. 151/E, richiamata dalla ricorrente).

5.7. Anche la pronuncia di legittimità citata dall’Agenzia controricorrente (che invero attiene a fattispecie diversa da quella ora sub iudice, nella quale la società madre, oltre a beneficiare del credito d’imposta nei confronti dello Stato di residenza della società figlia, che aveva erogato i dividendi, pretendeva anche la restituzione della ritenuta del 5% operata ai sensi della Convenzione Italia-Regno Unito, art. 10, comma 2), conferma che la disciplina pattizia è eventualmente applicabile pure successivamente all’introduzione della direttiva comunitaria, rilevando che “la disposizione di non imponibilità degli utili di cui alla Dir., art. 5, n. 1, non si applica se già la normativa convenzionale o quella interna contengono norme che realizzano la finalità di sopprimere o attenuare la doppia imposizione economica, trattandosi di disposizione che non determina un’eccezione al divieto di doppia imposizione, ma semmai lo rafforza attraverso una saldatura delle norme convenzionali con quelle comunitari” (Cass. 12/03/2009, n. 5943, in motivazione).

5.8. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha inoltre evidenziato recentemente che “risulta precisamente dal terzo considerando della Dir. n. 435 del 1990, che essa mira ad eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della cooperazione tra società di Stati membri diversi rispetto alla cooperazione tra società di uno stesso Stato membro e a facilitare in tal modo il raggruppamento di società a livello dell’Unione. Tale direttiva tende così ad assicurare la neutralità, sotto il profilo fiscale, della distribuzione di utili da parte di una società figlia con sede in uno Stato membro alla sua società madre stabilita in un altro Stato membro (sentenze del 1 ottobre 2009, Gaz de France – Berliner Investissement, C-247/08, EU:C:2009:600, punto 27 e giurisprudenza ivi citata, e dell’8 marzo 2017, Wereldhave Belgium e a., C-448/15, EU:C:2017:180, punto 25)” (Corte giustizia, 19 dicembre 2019, causa C-389/18, Brussels Securities SA, punto 35). Ed ha aggiunto che ” Così, la Corte ha giudicato che la Dir. n. 435 del 1990, art. 4, paragrafo 1, primo trattino, vieta agli Stati membri di sottoporre ad imposizione la società madre a titolo di utili distribuiti dalla sua società figlia, senza distinguere a seconda che l’imposizione della società madre abbia come fatto generatore la percezione di tali utili o la loro ridistribuzione (v., in tal senso, sentenza del 17 maggio 2017, X, C-68/15, EU:C:2017:379, punto 79) e che rientra in tale divieto anche una normativa nazionale che, pur non assoggettando ad imposta i dividendi percepiti dalla società madre in quanto tali, può comportare che la società madre subisca indirettamente un’imposizione su tali dividendi (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punto 40).” (Corte giustizia, 19 dicembre 2019, causa C-389/18, cit., paragrafo 37).

5.9. Date tali premesse, come questa Corte ha già precisato in tema di istanza presentata da una società del Regno Unito per il rimborso del credito d’imposta relativo ai dividendi percepiti da società controllate con sede in Italia, la questione specifica va analizzata alla luce del principio, di matrice Eurounitaria, della neutralità nella tassazione in rapporti transnazionali, poiché, in conformità al principio espressa da Corte giustizia, 19 dicembre 2019, causa C-389/18, cit., al punto 37, “occorre evitare non solo la tassazione diretta dei dividendi in capo alla società madre, ma anche quella indiretta, intesa come conseguenza dell’applicazione di meccanismi che, sebbene accompagnati da esenzioni o deduzioni generate dalla volontà di tenere conto delle imposte pagate dalla società figlia nel proprio Stato, in concreto potrebbero causare in capo alla società madre un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora la due società (madre e figlia) fossero dello stesso Stato.” (Cass. 31/01/2020, n. 2313, cit., in motivazione; nello stesso senso cfr. Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit. e Cass. 19/11/2020, n. 26307, cit.).

La rilevanza del principio di neutralità emerge invero proprio con riferimento alla direttiva madre-figlia, che lo persegue, con “l’obiettivo della prevenzione della doppia imposizione economica, quale previsto da tale Dir., art. 4, paragrafo 1, primo trattino, (v., in tal senso, sentenza del 12 febbraio 2009, Cobelfret, C-138/07, EU:C:2009:82, punti 41 e 45)”, dovendo la percezione dei dividendi essere “fiscalmente neutra per la società madre” (Corte giustizia, 19 dicembre 2019, causa C-389/18, cit., punti 38, 46).

Come è stato già sottolineato, dopo la richiamata sentenza della Corte di giustizia del 19 dicembre 2019, le pronunce di legittimità più recenti (Cass. 31/01/2020, n. 2313; Cass. 19/11/2020, n. 26307; Cass. 20/05/2021, n. 13845) esprimono con continuità la rilevanza del principio di “neutralità”, “che è mutuato dalla dottrina economico-finanziaria che conosce la categoria concettuale della intemational tax neutrality ed efficiency. La neutralità ed efficienza fiscale internazionale, nell’allocazione delle risorse nel rispetto (anche convenzionale) della intercountry equity, comporta un’equa ripartizione del gettito tra gli stati impositori.” (Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit.).

5.10. L’esclusione di un principio di alternatività assoluta tra la norma sovranazionale Euro-unitaria e quella di natura convenzionale non comporta che la contribuente possa cumulare, nei confronti dello Stato di residenza della società-figlia, entrambi i rimedi, pretendendo sia l’esenzione dalla ritenuta sui dividendi distribuiti che il rimborso del credito d’imposta. Ma tanto non accade nel caso di specie, nel quale la società-madre residente nel Regno Unito ha pacificamente chiesto, con la domanda di rimborso del credito d’imposta, anche l’applicazione di ritenute, non effettuate in origine, nella misura prevista dalla Convenzione, ed ha quindi optato per l’applicazione del regime pattizio, rimanendo all’interno del perimetro di quest’ultimo (cfr. Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit., in motivazione).

Ne’, peraltro, potrebbe ritenersi che l’esercizio dell’opzione in questione, effettuato con la domanda di rimborso, fosse precluso per ciò solo alla contribuente, a causa della mancata ritenuta iniziale sui dividendi in uscita, giacché nessuna norma prevede che tale condotta esprima una scelta irrevocabile successivamente (Cass. 19/11/2020, n. 26307, cit., in motivazione; Cass. 20/07/2021, n. 20646, cit., in motivazione).

5.11. Non rileva, nel contesto sinora delineato, il principio di reciprocità, che secondo il quarto motivo di ricorso sarebbe immanente alla materia pattizia, posto che almeno fino al periodo d’imposta 2004 i dividendi distribuiti da una società inglese ad una società italiana davano diritto a quest’ultima di ottenere il tax credit.

Invero, come è stato rilevato già da questa Corte (Cass.20/07/2021, n. 20646, cit., in motivazione), “l’art. 16 preleggi, si riferisce ai diritti di carattere privatistico (“diritti civili attribuiti al cittadino”), sicché si sottraggono all’operatività della condizione di reciprocità le norme interne di applicazione necessaria, quali quelle tributarie. (…).

In dottrina si è anche chiarito che non sussiste un principio di reciprocità in materia di doppia imposizione sui dividendi (…). Il commentario al modello OCSE, art. 10, si limita a rimettere gli Stati contraenti ogni valutazione in ordine all’opportunità di stipulare convenzioni contro la doppia imposizione che prevedano obblighi reciproci in materia di riconoscimento del credito d’imposta in favore dei soci non residenti; ciò non costituisce certo conferma dell’immanenza del principio di reciprocità, essendo invece necessario che le parti valutino l’opportunità di inserire clausole specifiche in materia di reciprocità.”. Ed è stato quindi ribadito, con riferimento a fattispecie analoga, che “L’art. 16 preleggi, sul trattamento dello straniero si riferisce ai diritti civili di carattere privatistico “attribuiti al cittadino”, sicché si sottraggono all’operatività della condizione di reciprocità ivi prevista – peraltro non deducibile per la prima volta in sede di legittimità – le norme interne di applicazione necessaria, quali quelle tributarie.”. (Cass. 15/11/2021, n. 34179).

6. In merito all’applicazione alla fattispecie concreta del regime convenzionale di cui alla domanda di rimborso, le parti sono in contrasto anche sull’interpretazione della formula, contenuta nella predetta convenzione, art. 10, comma 4, lett. b), secondo cui il credito d’imposta, nella misura ivi prevista, è attribuito “a condizione che la società la quale riceve i dividendi ed il credito d’imposta sia a tal titolo soggetta all’imposta nel Regno Unito”.

Sostiene infatti la ricorrente (in particolare nel terzo motivo) che tale requisito sia stato soddisfatto perché la società-madre è soggetto passivo d’imposta nel Regno Unito rispetto alla corporation tax (circostanza della quale ritiene di aver dato la prova attraverso la certificazione allegata all’istanza di rimborso e poi prodotta nel giudizio di merito in allegato al ricorso introduttivo, come allegato 2, ed all’appello, come da indicazione contenuta nel ricorso) ed i dividendi percepiti, in base alla normativa inglese dell’underlying tax credit (u.l.t.) vigente ratione temporis, erano soggetti all’inclusione nella base imponibile dell’imposta del paese di residenza della società madre.

Viceversa l’Amministrazione finanziaria ritiene che il diritto al rimborso del credito d’imposta richieda la prova, della quale è onerata la società che agisce con la domanda di rimborso, che i dividendi percepiti dal quest’ultima siano stati concretamente sottoposti a tassazione in tale Paese, non essendo sufficiente la prova dell’astratta applicabilità dell’imposta nel paese di residenza della ricorrente, ma occorrendo la dimostrazione che la società ha subito su di essi un’effettiva imposizione. In sintesi, la controricorrente, assume che l’assoggettamento a tassazione nel paese di residenza vada inteso come effettivo pagamento della relativa imposta, in difetto del quale non vi sarebbe doppia imposizione.

La sentenza impugnata, condividendo la posizione erariale, ha ritenuto che la contribuente avrebbe dovuto fornire la prova “che il dividendo sia stato effettivamente assoggettato all’imposizione con la specificazione del quantum che ne scaturisce” nel Regno Unito, ed ha escluso che tale dimostrazione sia stata fornita, facendo riferimento a criteri di calcolo e conteggi in materia di u.l.t., in relazione agli importi di cui “alla dichiarazione” della contribuente.

La decisione della CTR, nei termini in cui ha ritenuto infondata la domanda di rimborso (anche) per il ritenuto difetto di prova dell’effettivo pagamento dell’imposta sui dividendi (corporation tax) del diritto britannico, non è in linea con l’orientamento già manifestato dalla giurisprudenza di legittimità.

Invero, come questa Corte ha anche recentemente affermato (Cass. 20/05/2021, n. 13848, in motivazione):” La Corte di Giustizia, con sentenza 19 novembre 2009 (in causa C-540/2007, Commissione CE/Repubblica italiana), (…) in modo netto considera infatti che “la scelta di tassare nell’altro Stato membro i redditi provenienti dall’Italia o il livello a cui sono tassati non dipende dalla Repubblica Italiana, ma dalle modalità di imposizione definite dall’altro Stato membro”. La Corte Europea dunque ha avvertito come l’eliminazione della “disparità di trattamento” tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane non era garantita dalla disciplina sulla doppia imposizione tutte le volte che la società percipiente in altro Stato membro non avesse avuto modo di compensare in tale Stato l’imposta pagata in Italia (a mezzo di ritenuta), perché non tassata nel proprio Stato di appartenenza o non sufficientemente tassata. (…) Tali principi sono stati già recepiti e condivisi dalla giurisprudenza di legittimità, che ha infatti affermato, ad esempio in controversie relative a rapporti di partecipazione tra società madri sedenti nel Regno Unito e società figlie in Italia, come in tema d’imposte sui dividendi azionari l’intesa pattizia non assicura, di per sé, l’adempimento degli obblighi comunitari sulla parità di trattamento nella tassazione tra società percipienti nell’ambito dell’Unione Europea rispetto a quelle italiane, dovendosi assicurare condizioni di effettiva compensabilità della ritenuta alla fonte, dovuta nell’altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa interna. Concludendo che “Non è dunque corretto subordinare il rimborso della ritenuta alla circostanza che la società percipiente estera abbia effettivamente “sborsato”, nel Paese UE di residenza, l’imposta sul dividendo proveniente dall’Italia; risultando per contro (necessario e) sufficiente che tale dividendo concorra alla formazione del reddito complessivo, ancorché non sussista effettivo prelievo fiscale (Cass. 19/10/2018, n. 26377; 31/01/2019, n. 2889). Il principio trovava già precedenti nella giurisprudenza della Cassazione che si era occupata dei rapporti tra società italiane partecipate da società estere, anche fuori dei paesi UE, e secondo cui la regolamentazione convenzionale della minore imposta “e’ applicabile per il solo fatto della soggezione del dividendo alla potestà impositiva principale dell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta. La sufficienza del solo fattore in sé della esistenza del potere impositivo principale dell’altro Stato, deve ritenersi infatti coerente con le finalità delle convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, le quali hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, onde evitare che i contribuenti subiscano un maggior carico fiscale sui redditi percepiti all’estero ed agevolare l’attività economica e d’investimento internazionale” (Cass.29/01/2001, n. 1231; 7/07/2010, 23431; 10/11/2017, n. 26656). (…) Peraltro, ai fini del corretto coordinamento dei due meccanismi di tutela dagli effetti distorsivi della doppia imposizione (esenzione e credito d’imposta), la necessaria verifica in concreto della eliminazione effettiva di detto rischio in danno della società madre francese – a tutela da trattamenti fiscali deteriori rispetto alla disciplina applicabile ad una società madre sedente in Italia – deve essere compiuta mediante l’accertamento che il dividendo distribuito dalla società figlia italiana sia compreso, una volta assegnato alla società madre francese, nel coacervo dei redditi imponibili in quello Stato, senza che rilevi se nel concreto quel reddito sia ivi assoggettabile ad aliquota pari, inferiore o superiore a quella altrimenti applicabile in Italia, riconducendosi la disciplina nel principio di neutralità ed efficienza fiscale internazionale”.

6.1. Invero, questa Corte ha già ritenuto che di per sé una certificazione dell’Autorità fiscale che attesti che una società inglese sia subject to Corporation Tax può dare prova della sussistenza dei requisiti previsti dalla Convenzione, all’art. 10, comma 4, lett. b), potendo dimostrare che la società madre, effettiva beneficiaria dei dividendi distribuiti dalla società figlia italiana residente nel Regno Unito sia a tal titolo assoggettata alla corporation tax di diritto inglese, inclusa tra le imposte indicate nella Dir. madre – figlia, art. 2, lett. c), (Cass. 19/11/2020, n. 26307, cit., in motivazione).

E’ quindi da tale prospettiva (piuttosto che da quella della ricerca degli importi dell’effettiva imposizione inglese) che la CTR avrebbe dovuto – e dovrà, in sede di rinvio- traguardare la documentazione alla quale si riferisce la ricorrente, anche tenendo conto di quello che è l’effettivo ambito di contestazione tra le parti (che invero non attinge il dato dell'”assoggettamento all’imposta” britannica in sé, ma, come si è visto, il significato da attribuire a tale espressione ai sensi della disciplina pattizia sulla doppia imposizione).

7. Tanto premesso, deve aggiungersi che sebbene la domanda di rimborso sia fondata sulla normativa convenzionale, per le correlazioni tra le fonti e gli istituti sinora richiamati essa va inquadrata nell’ambito della cornice di riferimento normativa del diritto dell’Unione Europea, nel cui contesto è necessario verificare se comunque l’istanza sia, in concreto, coerente con lo scopo previsto dalla stessa norma convenzionale, evitando (o attenuando) il fenomeno della doppia imposizione economica, e non miri a conseguire un indebito vantaggio in contrasto con il principio di neutralità fiscale già illustrato (così Cass. 19/11/2020, n. 26307, cit., in motivazione). Sicché, deve verificarsi se il meccanismo di tassazione previsto dallo Stato membro elimini effettivamente detto rischio, dovendosi evitare non soltanto la tassazione diretta dei dividendi in capo alla società madre, ma anche quella indiretta intesa come conseguenza dell’applicazione di meccanismi che, sebbene accompagnati da deduzioni o esenzioni, possono causare alla società madre un trattamento deteriore rispetto a quello che spetterebbe qualora le due società fossero dello stesso Stato, dovendo la percezione dei dividendi essere fiscalmente neutra per la società madre, con riguardo all’assoggettamento ad imposta, senza possibilità di opzione e senza esenzione ai sensi della Dir. 30 novembre 2011, n. 2011/96/UE, art. 2, a.iii), (Cass. 31/01/2020, n. 2313, cit.).

Pertanto, se – tenuto conto dell’oggetto della richiesta di rimborso, che ha previsto la ritenuta tanto sull’ammontare del credito d’imposta quanto quella alla fonte non operata al tempo dal sostituto – la domanda non mira all’ottenimento di alcun indebito vantaggio rispetto alla disciplina prevista dalla fonte convenzionale, resta da esaminare se comunque, per l’effetto dell’operatività dell’ulteriore sistema di credito d’imposta indiretto (cd. underlying tax credit) di cui la società britannica ha ulteriormente beneficiato per gli anni in esame, la richiesta di rimborso del credito d’imposta secondo la disciplina convenzionale finisca o meno col porsi in violazione del principio di neutralità fiscale, assicurando all’istante un trattamento deteriore ovvero un beneficio ulteriore, rispetto alla tassazione dei dividendi percepiti dalla società figlia italiana, come assunto dall’Amministrazione controricorrente, diversamente da quanto sarebbe avvenuto, per gli stessi anni d’imposta, per i residenti in Italia, o per le società britanniche assoggettate a tassazione nello Stato di residenza (così Cass. 19/11/2020, n. 26307, cit., in motivazione).

E’ quindi anche tale verifica comparativa, da condurre in base ai criteri già indicati, che dovrà essere compiuta dal giudice del merito, contestualizzandola puntualmente con riferimento al momento nel quale si è verificato il presupposto dell’imposizione, ovvero il pagamento dei dividendi in questione.

All’accoglimento del ricorso segue quindi la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo- sezione staccata di Pescara, in diversa composizione, che provvederà, se del caso valendosi anche dei poteri istruttori di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, agli accertamenti di fatto sopra indicati, anche al fine di verificare se la richiesta di rimborso de qua si ponga o meno in violazione del principio di neutralità fiscale di cui alla richiamata Dir. n. 90/435/CEE, quale applicabile ratione temporis.

P.Q.M.

Accoglie, nei termini di cui in motivazione, il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo-sezione staccata di Pescara, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

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