Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.6268 del 24/02/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13002/2015 R.G. proposto da:

BMS s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Vittorio Giordano e dall’avv. Gabriele Escalar, presso cui è elettivamente domiciliata in Roma, via Enrico Tazzoli, n. 6;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui ha domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1796/06/14 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 10 novembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio 2022 dal consigliere Dott. Cataldi Michele.

RILEVATO

che:

1. La BMS s.r.l. ricorre, con sei articolati motivi, per la cassazione della sentenza n. 1796/06/14 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 10 novembre 2014, che ha rigettato l’appello della contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che aveva rigettato il ricorso della medesima società avverso l’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle entrate ed avente ad oggetto la maggiore Ires, relativa all’anno di imposta 2006.

Nella sentenza impugnata il giudice a quo richiama in fatto la descrizione della fattispecie contenuta nell’avviso di accertamento, rappresentata dal contratto di prestito alla BMS s.r.l. di azioni della società Mont Bazon, società avente sede nella zona franca di Madeira, da parte della DFD Czech, società di diritto ceco, che era titolare dei titoli azionari prestati.

La CTR rileva che il contratto ” è nullo per mancanza dell’alea (…) è stato strutturato al solo fine di conseguire illegittimi vantaggi fiscali (…) essendo privo di alea è nullo in quanto connotato da causa illecita e quindi contraria a norma di legge “.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

E’ in atti memoria della ricorrente.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del procedimento d’appello e, per l’effetto, della sentenza impugnata, per violazione degli artt. 101,115 e 122 c.p.c., per avere il giudice a quo ritenuto inutilizzabili, ai fini della decisione, i documenti in lingua straniera allegati, nel giudizio di merito, dalla contribuente a sostegno della propria tesi circa la legittimità dell’operazione negoziale controversa. Infatti la CTR ha affermato che “Ai sensi dell’art. 122 c.p.c., nel processo è obbligatorio l’uso della lingua italiana e l’onere di fornire l’eventuale traduzione ricade sulla parte che produce i documenti in lingua straniera, perché il giudice ha la facoltà, ma non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore. (…) Tuttavia la società “BMS” si è sottratta al predetto onere di produrre la traduzione giurata, pertanto, dato atto del comportamento omissivo dell’appellante, la Commissione ritiene di non utilizzare tali documenti ai fini del presente giudizio.”.

Deduce la ricorrente che la norma di rito citata riguarda gli atti del processo, non le prove precostituite prodotte dalle parti in lingua straniera, e che la dichiarata inutilizzabilità dei documenti non già tradotti costituisce una sanziona processuale non dettata da alcuna disposizione e, nel caso di specie, rilevata d’ufficio solo nella sentenza, senza essere stata eccepita da controparte o preceduta da una sollecitazione del giudice d’appello a depositare la traduzione giurata dei documenti già prodotti o comunque a collaborare a renderli pienamente intelligibili anche al giudicante, con la conseguenza che non era configurabile una condotta omissiva della stessa parte.

2.Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c.,, comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, “in quanto i giudici di secondo grado non si sono pronunciati in relazione al motivo d’appello formulato da BMS, con cui è stata censurata la violazione, da parte dell’ufficio, degli obblighi di contraddittorio preventivo sanciti dal diritto comunitario.”.

3. Con il terzo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, art. 23, comma 1; nel D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 27, convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, per aver la CTR erroneamente ritenuto la competenza della Direzione regionale del veneto dell’Agenzia delle entrate a compiere indagini e ad eseguire la verifica fiscale sulla quale si basa l’accertamento controverso.

4. Con il quarto motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis, 39 e 4; della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3; e degli artt. 1325,1343,1344 e 1345 c.c. e art. 12 preleggi.

Sostiene la contribuente che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali non possono reputarsi nulli per mancanza di causa o per illiceità della causa o perché conclusi in frode alla legge e che, laddove questa Corte ha ritenuto contestabile la nullità del negozio per frode alla legge tributaria (Cass. 26/10/2005, n. 20816; Cass. 26/06/2009, n. 15029), lo ha fatto con riguardo a operazioni poste in essere prima della entrata in vigore della norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis; mentre lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotta da tale ultima norma preclude l’applicazione, per le materie ed operazioni così individuate, del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c. Aggiunge che la disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, non consente di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione dalla legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore. Assume, inoltre, che la norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis ed i relativi obblighi di contraddittorio preventivo devono trovare applicazione ogniqualvolta sia contestata l’integrazione dei relativi presupposti di applicabilità, ponendosi altrimenti la norma in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., poiché legittimerebbe l’Ufficio a negare le garanzie così individuate, ricorrendo all’espediente di contestare la nullità dei negozi posti in essere dal contribuente.

In sintesi, deduce che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari, nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti e obblighi.

5.Con il quinto motivo di ricorso la società ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1414,1418,1813,1815 e 1933 c.c., per avere i giudici di secondo grado negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 c.c., ritenendo che esso configurasse invece un contratto aleatorio.

I giudici, ad avviso della ricorrente, hanno in tal modo violato non solo l’art. 1362 c.c., perché hanno interpretato il contratto in modo opposto alla comune intenzione delle parti contraenti, desumibile dal tenore letterale delle clausole, ma anche l’art. 1815 c.c., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.

Le parti, aggiunge la ricorrente, in realtà, avevano inteso concludere un contratto di mutuo, come emergeva dalle clausole del contratto e dal loro comportamento.

6. Con il sesto motivo di ricorso la società ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109; della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis; e del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, per avere la CTR erroneamente escluso la deducibilità dal reddito imponibile Ires delle commissioni pagate dalla contribuente a DFD, in quanto costi sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli. Sostiene la ricorrente che, a mente dell’art. 109, comma 5, l’inerenza dei componenti negativi di reddito alla determinazione dell’imponibile Ires è correlata al solo fatto che si riferiscano ad attività e beni da cui derivino ricavi, o altri proventi, che concorrano a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione, presupposto sussistente nel caso di specie atteso che la commissione era stata sostenuta per il prestito di azioni che erano produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare. D’altro canto, della L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4-bis, confermano la deducibilità dei costi derivanti da contratti soltanto civilisticamente illeciti, operando il divieto di deduzione nel solo caso in cui i costi derivino da acquisti di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.

Aggiunge poi la ricorrente che in tema d’Iva la giurisprudenza comunitaria esclude che l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, comporti necessariamente la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta sul valore aggiunto. La stessa ricorrente premette inequivocabilmente che è estranea al presente giudizio la materia dell’Iva, nel contesto della quale lo stesso motivo colloca il principio giurisprudenziale in questione, enfatizzando, anche graficamente, che esso è stato elaborato proprio sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia, secondo la ricorrente, esso, per “osmosi”, andrebbe considerato ai fini della presente controversia, quanto meno come conferma che la nullità civilistica di un contratto, per mancanza o illiceità della sua causa, non comporti di per sé l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria dei relativi effetti fiscali.

7.I motivi di ricorso, esaminati congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

7.1. La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD, che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.

Come già chiarito da questa Corte, ” I vantaggi che il contratto di stock lending consente di conseguire al soggetto che presta i titoli vanno individuati nella possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative. Autorevole dottrina, occupandosi dell’argomento, ha posto in rilievo che la fattispecie in esame è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla conclusione del contratto che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti. Si e’, pertanto, ritenuto che, sul piano civilistico, l’operazione sia sostanzialmente “neutrale” per il prestatario che ottiene unicamente un vantaggio fiscale, che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore.” (Cass. 13/04/2021, n. 9628, in motivazione).

7.2. Nel caso di specie, la ricorrente ha sottoscritto con la società ceca DFD Czech un contratto di prestito di azioni della Mont Bazon (società unipersonale portoghese, con sede nella zona franca di Madeira, di cui era unica azionista la DFD Czech); la Mont Bazon aveva interamente investito il suo attivo in una quota di partecipazione totalitaria in un comparto della Selected Capital Opportunity Ltd, avente sede nelle Isole Vergini britanniche. A garanzia delle obbligazioni economiche scaturenti dal contratto, la BMS s.r.l. ha depositato su un proprio conto corrente, acceso presso la Banca di Gestione Patrimoniale S.A., appartenente al gruppo bancario Credit Suisse, una provvista in denaro (collateral); la proprietà ed il possesso qualificato delle azioni sono stati temporaneamente trasferiti alla ricorrente, che le ha concesse in pegno alla DFD Czech, per garantirne la restituzione alla scadenza del prestito, ed i relativi titoli sono stati depositati presso la Ing Trust di Hong Kong; i diritti economici pertinenti alle azioni sono stati trasferiti alla ricorrente, mentre quelli amministrativi sono rimasti in capo alla DFD Czech (che si è impegnata sia a non votare, senza l’approvazione scritta della BMS s.r.l., nell’assemblea della Mont Bazon la trasformazione, la fusione, la scissione o la liquidazione della società portoghese; sia a deliberare l’integrale distribuzione dell’utile di esercizio conseuito dalla società portoghese).

Il contratto tra le società prevedeva che se la Mont Bazon avesse distribuito dividendi inferiori ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. non avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech alcuna commissione (fee); se, invece, la Mont Bazon avesse distribuito dividendi per un ammontare uguale o superiore ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech una fee di importo pari agli stessi utili, maggiorata di una posta pari 15,22% dell’ammontare di questi ultimi, ma comunque non superiore ad Euro 346.000,00.

Dal punto di vista fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, i dividendi percepiti dalla BMS s.r.l. erano esenti da imposta sino al 95 per cento del loro ammontare, mentre l’eventuale commissione pagata dalla stessa BMS s.r.l. alla DFD Czech veniva integralmente dedotta dallo stesso D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109.

7.3. La CTR, con la decisione impugnata in questa sede, dopo aver rilevato che l’accertamento non si fondava sullo stesso D.P.R. n. 917 del 1986, art. 37-bis, nel valutare la complessiva operazione, nel corso della quale i dividendi distribuiti non erano mai stati inferiori alla soglia di Euro 220.000,00, ha affermato che il contratto era nullo per mancanza dell’alea, potendo DFD Czech predeterminare l’importo dei dividendi che la Mont Bazon avrebbe distribuito ed essendo già a conoscenza di quanto la stessa Mont Bazon incassava dalla Selected Capital Opportunity Ltd. Il giudice a quo ne ha tratto poi la conseguenza che il contratto aveva il solo fine di conseguire illegittimi vantaggi fiscali ed era connotato da causa illecita e quindi contraria a norma di legge.

7.4. Tanto premesso, ritiene il collegio che la decisione impugnata sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 c.p.c. Deve, innanzitutto, rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie. Nel caso in esame, sostanzialmente le parti concordano sull’esistenza e sul contenuto degli accordi di prestito di azioni, mentre controvertono soltanto sull’individuazione della soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che l’operazione in esame debba essere traguardata ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, ed art. 89.

Infatti, in fattispecie analoga, questa Corte ha già ritenuto, con orientamento consolidato da una serie di pronunce conformi, che “In tema di imposte sui redditi, l’operazione di “stock lending”, ossia di prestito di azioni, che preveda, a favore del mutuatario, il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente, o meno, all’ammontare dei dividendi riscossi) realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che in un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile.” (Cass. 12/05/2017, n. 11872; conformi Cass. 28/09/2020, n. 20424; Cass. 23/03/2021, n. 8061; Cass. 13/04/2021, n. 9628; Cass. 09/06/2021, n. 16145).

Nella formulazione vigente ratione temporis, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, dispone: “In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”.

Come è stato evidenziato nei citati arresti giurisprudenziali, l’usufrutto di azioni è un’operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società, a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. Il predetto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto, quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione, individuando un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni ed imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.

Anche nel contratto di stock lending, come nell’usufrutto di azioni, il trasferimento (temporaneo) della titolarità del diritto a percepire il dividendo si associa ad un costo, rappresentato dalla commissione.

Il fenomeno, ad un’analisi economica e giuridico-tributaria oggettiva e sostanziale, è dunque lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito, anche perché la stessa disposizione citata si riferisce letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, “sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione”, per cui l’interpretazione adottata non realizza alcuna impropria estensione analogica del dettato della norma (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).

Pertanto, il costo sostenuto (ovvero la commissione) dal prestatario (borrower) per l’operazione di stock lending deve ritenersi indeducibile come quello sostenuto dall’usufruttuario per l’acquisto del diritto d’usufrutto.

Non sembra fondata la considerazione, avanzata in dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la pronuncia di questa Corte (Cass. n. 11872 del 2017, cit.), che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione, da parte dell’usufruttuario, di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto. Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esenti, ai sensi del ridetto art. 89, senza che al riguardo spieghi alcuna incidenza (diversamente da quanto opinato da parte ricorrente nella memoria illustrativa) il regime di imposizione cui è assoggettato il “prestatore” delle azioni (cfr. Cass. 09/06/2021, n. 16145, cit., in motivazione, al punto 16.4).

Del resto, la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.

Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.

7.5. Dunque il fulcro della ripresa a tassazione – pur nel contesto della qualificazione giuridica dell’operazione, ai fini fiscali, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, ed art. 89 – continua ad individuarsi, in fatto, nel medesimo presupposto, ovvero nella contestazione dell’indebita deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta, contemporaneamente all’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon. Ciò che costituisce (al netto delle argomentazioni – già definite irrilevanti nei citati arresti di legittimità- spese per ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive) il nucleo dell’avviso d’accertamento e della motivazione della sentenza impugnata.

Non vi e’, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate.

8. Per quanto fin qui detto, e per quanto infra si aggiungerà, ricondotto il contratto di stock lending nel perimetro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, il ricorso va complessivamente rigettato, essendo infondato il sesto motivo, sulla violazione dell’art. 109 T.u.i.r., ed inammissibili, o comunque infondati, tutti gli altri.

8.1. E’ infondato il primo motivo, sebbene vada corretta la motivazione adottata dalla CTR. Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, “Il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall’art. 122 c.p.c., si riferisce agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, sicché, quando siffatti documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 c.p.c., ha la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore, di cui può farsi a meno allorché trattasi di un testo di facile comprensibilità, sia da parte dello stesso giudice che dei difensori. Ne consegue che non è configurabile la nullità di una consulenza tecnica di ufficio regolarmente redatta in lingua italiana benché fondata su pubblicazioni in inglese.” (Cass. 12/03/2013, n. 6093).

A conferma che la produzione del documento in lingua straniera integra già, di per sé solo, una produzione istruttoria con la quale la parte assolve all’onere di comprovare le proprie allegazioni, a prescindere dalla successiva ed eventuale traduzione dello stesso scritto, questa Corte ha del resto affermato che “Non è tardiva la produzione, con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, della traduzione in italiano di documenti redatti in lingua straniera tempestivamente depositati, atteso che detta traduzione non integra un nuovo mezzo di prova soggetto alle preclusioni istruttorie di cui alla norma citata in quanto l’attitudine dimostrativa di uno scritto discende dal contenuto che esso esprime, quale che sia l’idioma impiegato nella sua redazione, sicché è con la produzione del documento in lingua straniera che la parte assolve all’onere di comprovare le proprie allegazioni difensive, mentre la traduzione, che può essere disposta dal giudice ai sensi dell’art. 123 c.p.c. senza previsione di termini, è incombente meramente accessorio e facoltativo che si colloca al di fuori dell’area delle attività processuali finalizzate alla definizione del “thema decidendum” e del “thema probandum”, soggette a termini perentori.” (Cass. 18/05/2018, n. 12365).

Pertanto la produzione di documenti redatti in lingua straniera, e non muniti contestualmente di traduzione allegata, non è vietata dall’ordinamento processuale e, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, non può quindi ritenersi ex se nulla, né comunque “inutilizzabile”, categoria di matrice penalistica che comunque, ove pure la si voglia trasferire nel contesto del giudizio civile, non può prescindere da un riferimento normativo, assente nel caso di specie.

Dalla ritualità della produzione istruttoria in questione consegue che, in tema di valutazione delle prove, l’art. 122 c.p.c. che prescrive l’uso della lingua italiana in tutto il processo, non esonera il giudice dall’obbligo di prendere in considerazione qualsiasi elemento probatorio decisivo, ancorché espresso in lingua diversa da quella italiana, restando affidato al suo potere discrezionale il ricorso ad un interprete a seconda che sia o meno in grado di comprenderne il significato o che in ordine ad esso sorgano contrasti tra le parti (cfr. Cass. 24/01/2011, n. 1608). Ed infatti questa Corte non ha ritenuto precluso, al giudice, di utilizzare eventualmente le proprie conoscenze linguistiche, avendo affermato, già da tempo, che “Quando si tratti di lingua universalmente nota, come il francese, e se il giudice dimostri di averne perfetta conoscenza, non occorre la nomina di un traduttore, prevista dall’art. 123 c.p.c.” (Cass. 06/06/1969, n. 1991). Nello stesso senso, si è detto che qualora si renda necessario procedere all’esame di documenti che non sono scritti in lingua italiana, la nomina di un traduttore, ai sensi dell’art. 123 c.p.c., non costituisce un dovere del giudice del merito, ma una sua facoltà discrezionale, sicché la mancata nomina del traduttore (nella specie, per essere stata la traduzione operata da tale giudice) non può formare oggetto di censura in sede di legittimità (Cass. 05/04/1984, n. 2217).

Dunque la discrezionalità del giudicante, rispetto alla nomina o meno di un traduttore, dipende dalla sua possibilità, o meno, di comprendere comunque il significato del documento in lingua straniera, pur in assenza di una traduzione.

In tale contesto, quindi, deve ribadirsi quanto è stato già ritenuto da questa Corte anche con specifico riferimento al giudizio tributario, ovvero che ” Nel processo tributario, come in quello civile, la lingua italiana è obbligatoria per gli atti processuali in senso proprio e non anche per i documenti prodotti dalle parti, relativamente ai quali il giudice ha, pertanto, la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore ex art. 123 c.p.c., di cui si può fare a meno allorché non vi siano contestazioni sul contenuto del documento o sulla traduzione giurata allegata dalla parte e ritenuta idonea dal giudice, mentre, al di fuori di queste ipotesi, è necessario procedere alla nomina di un traduttore, non potendosi ritenere non acquisiti i documenti prodotti in lingua straniera.” (Cass. 17/06/2015, n. 12525).

Non si è quindi uniformata a tali principi la CTR, nell’affermare l’l’inutilizzabilità di documenti prodotti dalla contribuente e non tradotti.

Tuttavia tale violazione non ha prodotto effetti concreti sulla decisione, per quanto qui rileva, ovvero per la descrizione oggettiva della fattispecie del contratto di prestito di titoli, nella sua dimensione negoziale “pura”, ovvero così come convenuto tra le parti, a prescindere da asserite nullità o comunque distorsioni della sua causa.

La stessa CTR, infatti, nonostante l’erronea premessa, ha comunque descritto, sinteticamente, la fattispecie negoziale del contratto di stock lending (“Come si evince dagli atti di causa(…)”), la cui conclusione ed il cui contenuto, come già rilevato, non sono oggetto di sostanziale contrasto tra le parti. E poiché, per le ragioni già esposte, è lo stesso contratto di stock lending concluso tra le parti che, sussunto nel perimetro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, legittima la ripresa a tassazione, si può concludere che l’errore imputato alla CTR non ha comunque compromesso la percezione e l’esame, da parte del giudice a quo, del fatto primario e del presupposto dell’imposizione.

8.2. E’ inammissibile il secondo motivo, con il quale si denuncia l’omessa pronuncia in relazione al motivo d’appello “con cui è stata censurata la violazione, da parte dell’ufficio, degli obblighi di contraddittorio preventivo sanciti dal diritto comunitario.”.

Va premesso che così come formulato il mezzo non attinge la pretesa violazione degli obblighi di contraddittorio previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sui quali la CTR si è espressamente pronunciata (e che comunque, non applicandosi la predetta norma al caso de quo, non rileverebbero). Inoltre va dato atto che la stessa ricorrente espone (nella parte introduttiva del ricorso) che vi è stata l’attivazione del contraddittorio ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7.

Tanto premesso, “Affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, “in primis”, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi.” (Cass. 04/07/2014, n. 15367; conforme da ultimo Cass. 14/10/2021, n. 28072).

Nel caso di specie, non può ritenersi assolto il predetto onere di riportare puntualmente, nel ricorso, il motivo d’appello che sarebbe stato pretermesso, poiché la ricorrente, sul punto, si è limitata a riprodurre (dopo la premessa “formulando il motivo di seguito trascritto”), da pag. 25 a pag. 28 del ricorso, riproduzioni in caratteri minuscoli di pagine di atti oggettivamente non leggibili. Lo stesso dicasi per le pagine da 28 a 32 del ricorso, con riferimento alla proposizione della medesima censura nel ricorso introduttivo.

Peraltro, anche gli allegati in appendice al ricorso sono a loro volta riprodotti in caratteri minuscoli ed illeggibili.

Deve pertanto ritenersi che il ricorso, in parte qua, non assolve effettivamente alle finalità di specificità ed autosufficienza evidenziate dalla citata giurisprudenza di questa Corte e necessarie per integrare i requisiti di forma-contenuto di cui all’art. 366 c.p.c..

Tanto premesso, il motivo, ferma la sua inammissibilità, è anche infondato. Infatti, il motivo d’appello che secondo la ricorrente sarebbe stato pretermesso avrebbe attinto a monte la legittimità dell’atto impositivo, ipotizzandone la nullità. Tuttavia, rigettando integralmente l’appello e confermando la sentenza impugnata, e quindi la pretesa erariale oggetto dell’accertamento, la CTR ha comunque presupposto anche la legittimità dello stesso atto impositivo ed ha quindi – almeno implicitamente, ma necessariamente- rigettato anche tale eventuale motivo di appello, poiché ” Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo.” (Cass. 08/03/2007, n. 5351, ex plurimis).

Pertanto non vi sarebbe comunque l’omessa pronuncia denunciata.

Ad abundantiam va peraltro rilevato che il mezzo neppure evidenzia la decisività del motivo la cui decisione sarebbe stata omessa, atteso che l’ipotetica violazione di un obbligo di contraddittorio preventivo di natura comunitaria richiederebbe che il contribuente avesse assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass., Sez. U, Sentenza n. 24823 del 09/12/2015), ciò che difetta nel motivo.

8.3. Infondato è il terzo motivo di ricorso, relativo al preteso difetto di legittimazione della DRE a compiere l’attività di verifica posta a base dell’accertamento. Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ribadito con numerose pronunce (cfr. ex plurimis Cass. 03/10/2014, n. 20915; Cass. 27/11/2015, n. 24263; Cass. 19/01/2016, n. 848; Cass. 14/10/2016, n. 20856; Cass. 21/12/2018, n. 33289 e Cass. 08/10/2020, n. 21694, in motivazione, da cui sono tratte le argomentazioni che seguono), il D.Lgs. n. 300 del 1999, in sede di istituzione delle Agenzie fiscali, ha espressamente attribuito un potere di autoregolamentazione all’Agenzia delle entrate.

L’art. 57, comma 1 ha previsto che “alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia”. L’art. 61, comma 2, ha poi aggiunto che “in conformità con le disposizioni del presente decreto legislativo e dei rispettivi statuti, le agenzie fiscali hanno autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria”, indicazione poi ripresa dal successivo art. 66, il cui comma 1 ha previsto che “Le agenzie fiscali sono regolate dal presente decreto legislativo, nonché dai rispettivi statuti deliberati da ciascun comitato di gestione”, il comma 2 ha aggiunto che “gli statuti… recano principi generali in ordine all’organizzazione e al funzionamento dell’Agenzia” e, al comma 3, che “l’articolazione degli Uffici a livello centrale e periferico, è stabilita con disposizioni interne che si conformano alle esigenze della conduzione aziendale”.

In base a tale quadro normativo, quindi, il Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate (richiamato nel controricorso) ha previsto che le Direzioni Regionali “…esercitano, nell’ambito della rispettiva regione o provincia, funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti degli uffici, curano i rapporti con gli enti pubblici locali e svolgono attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’accertamento e del contenzioso.”.

Sulla base di tali premesse, con provvedimento 23 febbraio 2001, n. 36122 (pubblicato nella G.U., serie generale n. 151 del 2 luglio 2001, richiamato nel controricorso) il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha stabilito esplicitamente la competenza anche delle Direzioni regionali all’attività di verifica.

Tale esito non contrasta con i principi costituzionali in tema di riserva di legge in materia fiscale, riservatezza e inviolabilità del domicilio sanciti dall’art. 14 Cost. – il cui comma 3, a tutela del domicilio, ammette ispezioni e accertamenti fiscali alle condizioni stabilite da leggi speciali – posto che la ripartizione delle competenze degli organi operata dal Direttore dell’Agenzia delle entrate costituisce diretta attuazione dei poteri conferiti dal D.Lgs. n. 300 del 1999. Ne deriva, inoltre, che l’espressa abrogazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies – da ritenersi necessaria in ragione dell’originaria collocazione delle Direzioni regionali nel Ministero delle Finanze – non ha amputato i poteri delle Direzioni regionali regolati dal Direttore dell’Agenzia delle entrate, risultando i poteri di accesso, ispezione e verifica già ex lege in capo all’Agenzia delle entrate nel suo complesso e già attribuiti in via generale dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e dalla medesima esercitati secondo la disciplina adottata nell’ambito dei poteri di autorganizzazione.

Quanto poi al D.L. n. 185 del 2008, art. 27, con esso il legislatore non ha inteso attribuire “alle Direzioni Regionali delle Entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente”, ma solamente “fondare su norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi” (v. Cass. n. 33289 del 21/12/2018 cit.).

Deve quindi ritenersi legittima l’attività d’indagine e la verifica condotta dalla Direzione regionale delle entrate, sfociata nel processo verbale posto alla base dell’atto impositivo, a prescindere dalla circostanza che la ricorrente non appartenesse (come sostiene nel mezzo) alla categoria dei c.d. “grandi contribuenti”.

8.4. Ricondotto lo stock lending nel perimetro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, divengono inammissibili, perché irrilevanti, le doglianze della contribuente nella parte in cui censurano, per vari aspetti, la violazione della disposizione antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, non applicandosi quest’ultima al caso de quo, anche per il riflesso conseguente sulla parte motiva dell’accertamento. Inammissibili per irrilevanza, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione già esplicate, sono pure le censure attinenti all’interpretazione ed alla qualificazione della natura del contratto da un punto di vista strettamente civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia (anche con riferimento alla mancanza o all’illiceità della causa o alla frode alla legge). Sono pertanto inammissibili il quarto ed il quinto motivo.

8.5. Infondato, come anticipato, è il sesto motivo (con cui si sostiene la deducibilità dei costi derivanti da contratti civilisticamente nulli), in quanto argomentato sull’insussistente presupposto della invalidità dello stock lending e sull’applicabilità nella specie del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, mentre nel caso di specie, per le ragioni già esposte, si deve applicare il comma 8 della medesima disposizione, con la conseguente indeducibilità dei costi.

Premesso che l’esclusione della nullità assoluta del contratto in questione esclude ogni rilevanza della relativa questione ai fini della presente decisione, giova peraltro sottolineare che nel medesimo motivo la stessa ricorrente, nel riferirsi alla giurisprudenza comunitaria in tema d’Iva (secondo cui l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta, in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, non comporterebbe necessariamente la perdita del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto), sottolinea inequivocabilmente che il principio in questione è stato elaborato sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia la materia dell’Iva, come rilevato nello stesso mezzo, è pacificamente estranea a questo giudizio.

9. Le spese seguono la soccombenza

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

Codice Civile > Articolo 1325 - Indicazione dei requisiti | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1343 - Causa illecita | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1344 - Contratto in frode alla legge | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1345 - Motivo illecito | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1362 - Intenzione dei contraenti | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1367 - Conservazione del contratto | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1414 - Effetti della simulazione tra le parti | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1418 - Cause di nullita' del contratto | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1813 - Nozione | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1815 - Interessi | Codice Civile

Codice Civile > Articolo 1933 - Mancanza di azione | Codice Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 101 - Principio del contraddittorio | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 112 - Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 115 - Disponibilita' delle prove | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 122 - Uso della lingua italiana - Nomina dell'interprete | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 123 - Nomina del traduttore | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 366 - Contenuto del ricorso | Codice Procedura Civile

Codice Procedura Civile > Articolo 384 - Enunciazione del principio di diritto e decisione della causa nel merito | Codice Procedura Civile

Costituzione > Articolo 14 | Costituzione

Costituzione > Articolo 97 | Costituzione

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472