Pubblicato il

Fa timbrare il badge al collega, licenziamento legittimo

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.10239 del 18/04/2023

Il comportamento del lavoratore, che fa timbrare il badge aziendale per risultare presente quando ancora non ha raggiunto il luogo di lavoro, costituisce una condotta grave che può giustificare il licenziamento per giusta causa.

È quanto stabilito dalla Sezione Lavoro della Cassazione con l’ordinanza n. 10239 del 18 aprile 2023. 

Nel caso di specie, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per giusta causa, sostenendo l'illegittimità dello stesso e chiedendo di essere reintegrato nel posto di lavoro. Tuttavia, il Tribunale di Taranto prima e la Corte di appello di Lecce poi, aveva confermato la legittimità del licenziamento.

La Corte di appello aveva osservato che, sebbene non fosse possibile determinare in che misura l'utilizzo improprio del badge avesse permesso al lavoratore di attestare falsamente la sua presenza in azienda, la contestazione riguardava principalmente l'uso distorto del rilevatore delle presenze e del badge personale. L'azienda aveva emesso un ordine di servizio che imponeva ai lavoratori di eseguire personalmente la timbratura all'interno dell'azienda e non da parte di terzi. Pertanto, la durata dell'assenza dal posto di lavoro risultava irrilevante. Inoltre, in considerazione dell'abuso di fiducia nei confronti dell'azienda, la sanzione del licenziamento è stata ritenuta proporzionata-

Il lavoratore ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la violazione dell'ordine di servizio non fosse sufficiente a integrare la "giusta causa di licenziamento".

La Suprema Corte ha precisato che il giudizio dei giudici di merito non può essere censurato in sede di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto nella norma generale. Nel caso in esame, il ricorrente non ha indicato i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici di merito e si è limitato a contrapporre una valutazione dei fatti diversa rispetto a quella alla base della decisione impugnata.

La Cassazione ha aggiunto che la condotta del lavoratore che consegna il tesserino ad altri per farlo timbrare è oggettivamente grave. La Corte di merito ha valutato correttamente l'irrilevanza della durata dell'assenza e la ripetizione della condotta, che ne connota la gravità e che giustifica la sanzione irrogata. Pertanto, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

Cassazione civile sez. lav., Ordinanza 18/04/2023, (ud. 02/12/2022, dep. 18/04/2023), n. 10239

RILEVATO CHE

1. D.P.N. impugnò il licenziamento per giusta causa intimatogli da (Omissis) s.p.a. il 23.5.2017 deducendone l'illegittimità e chiedendo in via principale di essere reintegrato nel posto di lavoro in precedenza occupato ed in via subordinata la condanna della società datrice al risarcimento del danno.

2. Il Tribunale di Taranto, sia in sede sommaria che all'esito dell'opposizione confermò la legittimità del licenziamento.

3. La Corte di appello di Lecce investita del reclamo da parte del lavoratore lo ha rigettato confermando l'accertata legittimità del recesso.

3.1. Il giudice del reclamo ha osservato che, pur non essendo possibile accertare in che misura l'utilizzo improprio del badge avesse permesso al lavoratore di attestare falsamente la sua presenza in azienda, tuttavia la contestazione di addebito non aveva tanto ad oggetto l'assenza ingiustificata quanto piuttosto l'uso distorto del rilevatore delle presenze e del badge personale che in base anche all'ordine di servizio del 2 novembre 2012 dell'(Omissis) doveva necessariamente essere eseguita personalmente dai lavoratori all'interno dell'azienda e non da parte di terzi compiacenti come puntualmente contestato al lavoratore restando così irrilevante la durata dell'assenza dal posto di lavoro.

3.2. Inoltre, ha ritenuto proporzionata la sanzione irrogata trattandosi di abuso di fiducia punito con il licenziamento dall'art. 14 punto 5 allegato A dell'Accordo Nazionale 27.11.2000.

3.3. Da ultimo ha evidenziato che la scelta aziendale di applicare ad alcuni dipendenti per fatti analoghi la meno grave sanzione della retrocessione era giustificata dall'applicabilità nei loro confronti, e non anche nei riguardi del D.P., del regolamento di cui all'allegato A al R.D. n. 148 del 1931 (art. 55).

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.P.N. affidato ad un unico motivo. (Omissis) s.p.a.-(Omissis) ha resistito con tempestivo controricorso.

CONSIDERATO CHE

5. Con il ricorso D.P.N. ha denunciato in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18 comma 4, ovvero in relazione all'art. 18 comma 5 della medesima legge così come modificati dalla L. n. 92 del 2012.

5.1. Deduce il ricorrente che erroneamente sia la Corte del reclamo che il giudice di primo grado avevano ritenuto che la violazione dell'"ordine di servizio" - con il quale era stato previsto che l'uso del badge da parte di altri colleghi, vietato, sarebbe stato sanzionato con il licenziamento - fosse sufficiente ad integrare la "giusta causa di licenziamento" ravvisandovi l'abuso di fiducia previsto dal CCNL del 2000. A prescindere dalla durata dell'assenza e dal possibile conseguente danno arrecato all'azienda, la quale aveva remunerato il servizio per tutto il tempo che risultava lavorato, la condotta era illecita in quanto attraverso tale uso del badge egli avrebbe dissimulato la propria "presenza" in servizio in un "determinato momento" (dopo l'apparente entrata in servizio o prima dell'apparente uscita dalla sede).

5.2. Ad avviso del ricorrente, invece, la condotta accertata in giudizio non integrerebbe una giusta causa di recesso in considerazione del suo effettivo disvalore. Sottolinea che la medesima condotta era stata diversamente trattata con riguardo ad un altro dipendente resosi responsabile proprio della timbratura in suo favore. Inoltre, il tempo non lavorato era esiguo e le finalità sottese erano irrilevanti (non perdere tempo a parcheggiare) sicché il fatto sarebbe privo di rilievo al punto da risultare insussistente o quanto meno da non poter essere punito con una sanzione disciplinare così grave.

6. Il ricorso non può essere accolto.

6.1. Va qui ribadito che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. 20/05/2019 n. 13534).

6.2. Nel caso in esame il ricorrente non ha indicato i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici di merito, e si limita a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata.

6.3. Peraltro, l'operazione di sussunzione della condotta accertata nella fattispecie astratta e la valutazione di gravità effettuata dalla Corte del reclamo è stata motivatamente agganciata a standard di percezione del disvalore della condotta del tutto condivisi. E' oggettivamente grave la condotta di chi in maniera truffaldina consegni ad altri il tesserino attestante la sua presenza in azienda, facendolo timbrare per risultare presente quando ancora non aveva raggiunto il luogo di lavoro. Correttamente la Corte di merito ha sottolineato l'irrilevanza in sé della durata dell'assenza ed ha evidenziato che la ripetizione della condotta, tutt'altro che episodica, ne connota la gravità e giustifica la sanzione irrogata.

7. In conclusione il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13 comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13 comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 2 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2023.

©2022 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472