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Persecuzione per motivi religiosi? Sì alla protezione internazionale

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.123 del 04/01/2023

Lo straniero che è perseguitato per motivi religiosi può ottenere lo status di rifugiato in Italia?

È La questione che si pone la Cassazione con l'ordinanza n. 123 del 4 gennaio 2023.

Nel caso di specie, un cittadino cinese chiede al Tribunale il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo dovuto fuggire dal proprio paese a causa del timore di essere arrestato per la sua adesione ad un movimento religioso cristiano evangelico.

Il tribunale e la Corte d'Appello rigettano la richiesta di protezione internazionale sulla base di due motivi:

1- l'oppressione e la repressione dell'associazione religiosa in questione non costituisce una forma di persecuzione perché la stessa non aveva richiesto e ottenuto il riconoscimento da parte del Governo;
2- il racconto del richiedente in merito agli atti di persecuzione per motivi religiosi è scarsamente credibile perché le autorità cinesi gli avevano rilasciato il passaporto e il visto per l'espatrio.

La Suprema Corte cassa la sentenza della Corte d'appello ricordando che ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato ovvero della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), proprio con riferimento alla verifica della effettività della libertà di culto, il giudice di merito deve valutare in concreto:

  • se l'ingerenza da parte dello Stato di origine sia prevista dalla legge e sia diretta a perseguire almeno un fine legittimo ovvero "la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui" (art. 9, par. 2, CEDU), oppure al contrasto di "riti contrari al buon costume" (art. 19 della Costituzione);
  • e se costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tale fine.

Protezione internazionale, Status di rifugiato, persecuzione per motivi religiosi, accertamento

Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato ovvero della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), con riferimento alla verifica della effettività della libertà di culto, il giudice di merito deve valutare in concreto se l'ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge sia diretta a perseguire almeno un fine legittimo secondo l'art. 9, par. 2, CEDU, e art. 19 Cost. e se costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tale fine.

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Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n. 123 del 04/01/2023

RILEVATO

CHE:

- Z.Z. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, depositata il 20 gennaio 2021, di reiezione dell'appello avverso l'ordinanza del locale Tribunale che aveva respinto le sue domande per il riconoscimento dello status di rifugiato e di ogni altra forma di protezione;

- dall'esame della sentenza impugnata emerge che a sostegno di tali domande il richiedente aveva riferito di essere nato e vissuto in Cina e di essersi determinato a lasciare il paese a causa del timore di essere arrestato per la sua adesione al movimento religioso cristiano evangelico chiamato "Sheng Ming Liang";

- il giudice ha disatteso il gravame evidenziando che non sussistevano le condizioni per il riconoscimento delle protezioni richieste;

- il ricorso è affidato a tre motivi;

- il Ministero dell'Interno non spiega alcuna attività difensiva.

CONSIDERATO

CHE:

- con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, allegando l'illogicità della sentenza, nella parte in cui ha ritenuto che l'oppressione e la repressione di un'associazione religiosa che non avesse richiesto e ottenuto il riconoscimento da parte del Governo non costituisse una forma di persecuzione;

- con il secondo motivo deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, commi 3 e 6, D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, artt. 8 e 27, D.P.R. 12 gennaio 2015, n. 21, art. 6 e 16 direttiva 2013/32/UE, per aver la sentenza impugnata ritenuto non credibile il racconto del richiedente all'esito di una valutazione condotta secondo parametri non conformi alle pertinenti previsioni normative;

- i motivi, esaminabili congiuntamente, sono manifestamente fondati;

- la Corte di appello ha rilevato, alla luce delle informazioni acquisite, che il governo cinese esercitava un capillare controllo sulle associazioni religiose e sulle modalità di manifestazione del credo, richiedendo la registrazione, previo esame ed approvazione da parte del Governo, di qualsiasi soggetto collettivo che volesse proporsi quale ente religioso;

- ha aggiunto che pur essendo in teoria possibile la registrazione per tutti i "nuovi" culti - ossia, i culti diversi dal cattolicesimo, protestantesimo, taoismo, buddismo e islam - tale registrazione sarebbe di fatto impossibile;

- ha osservato che i culti semi-legali, rientranti nel c.d. grey market, cioè le chiese protestanti clandestine e quelle cattoliche clandestine, il confucianesimo e le religioni popolari erano formalmente non registrati e perciò illegali, ma di fatto tollerati, quantomeno dal 2000, mentre i culti completamente illegali - quali quello cui appartiene l'odierno ricorrente - erano definiti "culti maligni" e vietati dal codice penale cinese;

- ciò posto, la sentenza impugnata ha argomentato dal mancato diniego della registrazione del culto - mai chiesta - l'inconfigurabilità di una situazione di persecuzione dei suoi adepti da parte delle autorità statuali, avendo tale culto scelto di operare al di fuori della legge cinese e in modo sostanzialmente segreto del culto sia nella pratica religiosa, sia nell'attività di proselitismo;

- ha, infatti, evidenziato che un'associazione segreta, nella sua organizzazione, nelle sue regole interne, nella sua attività esterna, nella ricerca di proseliti, nelle sue fonti di finanziamento, non può essere considerata quale oggetto di persecuzione se lo Stato la persegue, dovendo operare in modo trasparente, democratico, riconosciuto e riconoscibile, al fine di rendere evidente comprendere che si tratta di persone che intendono solo riunirsi liberamente, nella specie per manifestare il loro credo, e ha ritenuto non decisivo, in senso contrario, il fatto che gli aderenti fossero perseguiti o ricercati dalla polizia;

- ha, quindi, concluso che il fatto che, nel caso di specie, gli aderenti fossero perseguitati o ricercati dalla polizia non assumeva rilevanza non essendovi evidenza di un loro tentativo di rispettare le leggi dello Stato e di operare al loro interno;

- sotto altro profilo, pur non avendo posto in discussione l'appartenenza del richiedente alla specifica confessione religiosa dallo stesso indicata, ha escluso la sussistenza in Cina di atti di persecuzione per motivi religiosi - ritenendo scarsamente credibile, sul punto, il racconto del richiedente - in ragione dell'avvenuto rilascio del passaporto e del visto per l'espatrio;

- orbene, con riferimento ai limiti alla libertà di religione e di associazione e alla loro rilevanza ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato ovvero della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), questa Corte - proprio con riferimento alla verifica della effettività della libertà di culto - ha evidenziato che il giudice di merito deve valutare in concreto se l'ingerenza da parte dello Stato di origine nella libertà del ricorrente di manifestare il proprio culto sia prevista dalla legge sia diretta a perseguire almeno un fine legittimo secondo l'art. 9, par. 2, CEDU, e art. 19 Cost. e se costituisca una misura necessaria e proporzionata al perseguimento di tale fine (cfr. Cass. 1 luglio 2022, n. 20990; Cass. 25 maggio 2022, n. 16890; Cass. 24 marzo 2022, n. 9586; Cass. 17 novembre 2021, n. 35102);

- in applicazione di tale principio è stato affermato che la repressione statuale della libertà di professare liberamente il proprio culto, anche in forma associata, non può essere giustificata per il solo fatto di essere finalizzata a vietare le associazioni a carattere segreto;

- la sentenza impugnata non risulta coerente con il riferito principio, avendo escluso in radice la possibilità che i limiti alla libertà di culto previsti dall'ordinamento cinese possano essere privi di una giustificazione compatibile con la tutela dei diritti umani;

- ovviamente, sarà compito del giudice, in sede di rinvio, qualora ritenga tali limiti privi di tale giustificazione, procedere all'accertamento, da compiersi secondo con un certo grado di individualizzazione, che il richiedente, ove la tutela gli fosse negata, rimarrebbe esposto a rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti;

- all'accoglimento dei primi due motivi di ricorso segue l'assorbimento del motivo residuo con cui il ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 per aver la Corte di appello disatteso la domanda per il riconoscimento della protezione umanitaria senza approfondire aspetti rilevanti ai fini della valutazione comparativa tra la situazione personale ed esistenziale del richiedente sul territorio italiano e la condizione in cui questi si sarebbe trovato in caso di rimpatrio;

- la sentenza impugnata va, dunque, cassata con riferimento ai motivi accolti e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso e dichiara assorbito il restante; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale, il 18 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2023.

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