Licenziamento,  giusta causa, utilizzo improprio permessi ex Legge 104/1992, abuso del diritto

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.24130 del 09/09/2024

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Licenziamento,  giusta causa, utilizzo improprio permessi ex Legge 104/1992, abuso del diritto

Può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso.
In coerenza con la ratio del beneficio, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto, oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell'abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell'unione Europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza Europea.

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Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 09/09/2024, (ud. 26/06/2024) n. 24130

FATTI DI CAUSA

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d'Appello di Napoli rigettava il reclamo proposto dalla Casa Religiosa Collegio Francesco Denza contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 1681/2021 che pure aveva respinto la sua opposizione all'ordinanza dello stesso Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, in accoglimento del ricorso proposto da Bi.Ma., aveva annullato il licenziamento disciplinare irrogato in data 10.9.2019 a detta lavoratrice e aveva condannato la Casa Religiosa alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento dell'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge, nonché a versare i contributi assistenziali e previdenziali con la medesima decorrenza.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che, nella contestazione disciplinare del 5.9.2019 che aveva preceduto il licenziamento, alla lavoratrice, titolare, dal marzo 2011 e senza limiti temporali, dei permessi ex art. 33 L. n. 104/1992, al fine di assistere la madre, portatrice di handicap grave, era stato addebitato 1) che l'8.5.2019 ella aveva prestato assistenza alla madre esclusivamente dalle 12,30 circa sino alle ore 15,50 circa; 2) che il 31.5.2019 la stessa aveva prestato assistenza alla madre esclusivamente dalle ore 11,00 circa alle ore 15,45 circa; 3) che nei giorni 25.5.2019 e 22.6.2019 non aveva affatto prestato assistenza alla madre, essendo rimasta presso la sua abitazione.

2.1. Tanto premesso, la Corte, richiamata una serie di precedenti di legittimità in subiecta materia, e riesaminate le risultanze processuali, prima, in ordine ai due giorni per i quali la datrice di lavoro assumeva non essere stata assolutamente prestata assistenza alla disabile da parte della lavoratrice, e, poi, in ordine agli altri due giorni oggetto di contestazione di assistenza limitata, condividendo quanto espresso dai giudici della doppia fase del grado precedente, giungeva alla conclusione che non sussisteva la prova del fatto contestato, essendovi invece prova dell'uso dei permessi conforme alla propria ratio. Aggiungeva che, una volta comprovato che i permessi erano stati usati in modo coerente alla propria ratio – costituita dal favorire l'assistenza della persona handicappata in ambito familiare – non era possibile per il giudice sindacare il modo in cui l'assistenza sia prestata (per acquisti nell'interesse della persona disabile; presso la residenza del disabile o presso quella della persona dedita all'assistenza, ecc.), né poteva pretendersi che l'assistenza sia svolta nelle stesse ore in cui era svolta l'attività lavorativa (richiamando a riguardo Cass. 54712/2016).

2.2. In definitiva, secondo la stessa Corte, l'elemento essenziale che connota il corretto esercizio del diritto in esame è costituito dal nesso di causalità fra la fruizione del permesso e l'attività di assistenza nesso causale la cui esistenza nel caso esaminato giudicava ampiamente dimostrata.

3. Avverso tale decisione la Casa Religiosa Collegio Francesco Denza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

4. L'intimata ha resistito con controricorso e successiva memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la "violazione e falsa applicazione dell'art. 33, co. 3, della legge n. 104/92", nonché la "Violazione dell'onere della prova (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.".

1.1. Secondo la ricorrente, nonostante dalla sentenza emerga in maniera plastica che per le giornate dell'8 maggio e del 31 maggio 2019, la lavoratrice aveva prestato assistenza, rispettivamente, per solo tre ore e mezza e per solo cinque ore, su sedici ore di permesso, la Corte d'Appello aveva ritenuto che non si sarebbe configurato l'abuso del diritto in quanto la lavoratrice si era comunque recata "per un lasso di tempo del tutto idoneo all'assistenza della disabile, essendovi prova del fatto che la stessa coabitava con l'altro figlio, le nipoti e la nuora". Pertanto, la Corte aveva violato il principio secondo cui l'assistenza dev'essere fornita personalmente e per tutto il tempo dal lavoratore richiedente il permesso.

1.2. Inoltre, per la ricorrente, diversamente da quanto erroneamente ritenuto dal Collegio napoletano, era indubbio che il datore di lavoro aveva provato – in linea con quanto insegnato dalla Cassazione – che la Bi.Ma. non ha prestato assistenza al familiare disabile per tutte le ore di permesso sia direttamente che indirettamente e che, di contro, la Bi.Ma., pur essendone onerata, non aveva provato il contrario.

2. Con un secondo motivo denuncia la "violazione dell'art. 4 della circolare Inps n. 53 del 2008 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)". Per la ricorrente, la Corte d'Appello ha pure violato chiaramente la circolare INPS indicata in rubrica, perché "Tale norma obbliga il lavoratore a comunicare all'INPS e al datore di lavoro entro 30 giorni dall'avvenuto cambiamento le eventuali variazioni delle notizie o delle situazioni autocertificate nel modello di richiesta"; sicché, secondo la ricorrente, essendo presente nel modulo di domanda di permessi per l'assistenza ai familiari disabili rilasciato dall'INPS, la residenza della persona disabile dove deve essere fornita l'assistenza, era evidente che la variazione di tale dato anagrafico deve essere obbligatoriamente indicata. Pertanto, per quanto concerne i permessi richiesti per i giorni 25 maggio e 22 giugno 2019 la Bi.Ma. aveva il dovere di comunicare che l'assistenza alla madre sarebbe stata prestata presso la propria abitazione e non in quella della madre, ma questo non era affatto avvenuto.

3. Il primo motivo è privo di fondamento.

4. Per pacifica giurisprudenza di questa Corte può costituire giusta causa di licenziamento l'utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall'assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984/2014; Cass. n. 8784/2015; Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 9217/2016; Cass. n. 17968/2016; Cass. n. 9749/2016; Cass. n. 23891/2018, Cass. n. 8310/2019; Cass. n. 1394/2020).

In coerenza con la ratio del beneficio, l'assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. sez. VI, 16.6.2021, n. 17102; id., sez. lav., 19.7.2019, n. 19580; id., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310; id., sez. lav., 13.9.2016, n. 17968), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell'abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell'unione Europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza Europea in termini v. Cass. n. 9217 del 2016).

4.1. Inoltre, la verifica in concreto, sulla base dell'accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell'esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all'apprezzamento del giudice di merito (in termini Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062 del 2017; Cass. n. 30676 del 2018).

Nondimeno, in relazione a fattispecie concrete più simili a quella che ci occupa, questa Corte ha sancito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 L. n. 104 del 1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (cfr. Cass. sez. lav., 20.8.2019, n. 21529, in cui fu respinta la tesi datoriale secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all'assistenza al disabile); ovvero, per contro, che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell'aver svolto l'attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce pertanto giusta causa di recesso del datore di lavoro (così Cass. sez. lav., 22.3.2016, n. 5574, già cit.).

Tutti tali principi sono stati, di recente, confermati anche in Cass. 24.8.2022, n. 25290, pure riferita a caso analogo a quello in esame, ponendosi in luce che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall'altro, possono essere fruiti "a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno", ma per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una "persona con handicap in situazione di gravità".

5. Tanto premesso, il primo motivo di ricorso presenta diversi profili d'inammissibilità.

5.1. In particolare, esso, non solo è riferito nel suo svolgimento innanzi riassunto esclusivamente ai giorni 8.5 e 31.5.2019, ma anche in relazione a questi due giorni non tiene conto in modo completo di quanto effettivamente accertato e valutato dalla Corte di merito.

Questa, difatti, ha anzitutto giudicato "pacifico che in entrambe le giornate la Bi.Ma. si sia recata presso il luogo di residenza della madre e che ivi sia rimasta per tre ore e mezza il primo giorno e per circa cinque ore e mezza il secondo".

La stessa Corte, poi, oltre a tener conto di quanto considerato dai "giudici delle precedenti fasi di giudizio" (che è quello unicamente preso in esame dalla ricorrente), ha aggiunto "che l'attività marginale svolta durante il tragitto per l'acquisto di beni al mercatino di M non è idonea a ritenere sussistente il contestato abuso, tenuto conto invece del fatto che l'acquisto di capi di abbigliamento effettuato presso il negozio Ymea ben poteva essere finalizzato a soddisfare le esigenze dell'assistita... (a tal proposito deve essere disattesa ogni valutazione circa il gusto espresso dalla Bi.Ma. nella scelta del vestiario per l'anziana madre)" (v. in proposito in extenso pag. 7 della sua sentenza).

5.2. Ulteriore profilo d'inammissibilità dello stesso motivo è riscontrabile dove vi si denuncia, in termini non meglio specificati, (anche) la "violazione dell'onere della prova".

Invero, la ricorrente, non solo non precisa la norma di diritto di cui si assume la violazione ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., ma, in realtà, come sopra detto nel riassumere la censura in parte qua, in termini peraltro assertivi, sostiene, da un lato, che essa società avrebbe assolto al proprio onere probatorio e, dall'altro, che la controparte non avrebbe provato il contrario, sull'assunto che la lavoratrice ne fosse "onerata".

6. Per il resto, la censura in esame è priva di fondamento, perché la decisione gravata è conforme ai suesposti principi di diritto enunciati da questa Corte in relazione ai permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, risultando, peraltro, che i giudici del reclamo hanno richiamato appunto diverse delle decisioni di legittimità espressive di tali principi (cfr. in particolare pag. 4 dell'impugnata sentenza).

Ed in base a tali premessi principi la Corte territoriale, come già accennato in narrativa, ha poi diffusamente valutato le contestazioni mosse anzitutto con riferimento ai giorni 25 maggio e 22 giugno 2019, giungendo alla conclusione che appariva "del tutto giustificata e condivisibile la sentenza impugnata che ha ritenuto ampiamente dimostrato l'uso corretto dei permessi fruiti nei giorni" in questione, ritenendo che la lavoratrice fosse "dedita all'assistenza della madre presso la propria abitazione in Pozzuoli" (v. in extenso pagg. 5-7 della sua sentenza).

7. Come si è premesso, secondo questa Corte, la valutazione circa il grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del diritto spetta al giudice del merito, e non è sindacabile direttamente in questa sede di legittimità (cfr. Cass. n. 21529/2019 già cit.).

Nella decisione in esame, però, i giudici del doppio grado di giudizio nel merito neppure hanno riscontrato un parziale discostamento delle condotte della lavoratrice da un uso legittimo dei permessi in questione, ma, come pure premesso, in ordine a tutti e quattro i giorni di permesso oggetto delle contestazioni disciplinari, in base all'accertamento fattuale compiuto, hanno motivatamente concluso che non vi fosse prova di quanto addebitato.

8. Il secondo motivo è interamente inammissibile per diverse ragioni.

9. In primo luogo, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, le circolari della P.A. sono atti interni destinati ad indirizzare e disciplinare in modo uniforme l'attività degli organi inferiori e, quindi, hanno natura non normativa, ma di atti amministrativi, sicché la loro violazione non è denunciabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. (così, ex plurimis, Cass., sez. VI, 10.8.2015, n. 16644). Esse, comunque, non sono vincolanti per il giudice (cfr., tra le altre, Cass., sez. trib., 29.11.2022, n. 35098).

9.1. Pertanto, l'art. 4 della Circolare dell'INPS n. 53/2008 (circolare, peraltro, neanche prodotta in questa sede), non è norma di diritto di cui si possa denunciare la violazione giusta l'art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.

10. Ma lo stesso è inammissibile anche per ulteriore e concorrente ragione.

10.1. Invero, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, in materia di ricorso per cassazione i motivi – a pena di inammissibilità, devono investire questioni comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo ammissibili in sede di legittimità questioni nuove e nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, fatta eccezione per le questioni rilevabili d'ufficio, non potendo la parte modificare, nel giudizio di legittimità, la posizione rivestita nel giudizio di merito, infatti, diversamente, si consentirebbe tanto all'appellante di modificare, in un successivo grado di giudizio, il contenuto dell'atto di impugnazione ed i relativi motivi, con manifesta contraddizione rispetto alla logica che regola l'esercizio dello stesso del diritto di gravame in appello, le cui ragioni e conclusioni vanno presentate in detta fase processuale, quanto, correlativamente, all'appellato, di modificare le proprie difese rispetto a quelle svolte nell'atto di costituzione (in tal senso, ex plurimis, Cass., sez. V, 8.4.2022, n. 11468). E da tanto consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni non esaminate dal giudice di merito, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonché il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla Suprema corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (in tal senso id., sez. I, 2.9.2021, n. 23792; id., sez. II, 24.1.2019, n. 2038).

10.2. Ebbene, nella specie, la ricorrente neanche deduce se, come e quando la questione attualmente posta con il secondo motivo sia stata trattata in sede di reclamo; il che non risulta assolutamente dal testo dell'impugnata sentenza.

10.3. Inoltre, la ricorrente neppure deduce che il dovere di comunicazione circa il luogo dove prestare assistenza al disabile, che ora assume incombente sulla lavoratrice, trovi fondamento in una norma primaria (diversa, cioè, dall'art. 4 della menzionata circolare), sicché vanamente fa valere un aspetto fattuale non accertato nei gradi di merito, e cioè che, in relazione ai giorni 25 maggio e 22 giugno 2019, la lavoratrice non aveva comunicato che l'assistenza sarebbe stata prestata presso la propria abitazione.

11. La ricorrente, in quanto soccombente, dev'essere condannata al pagamento, in favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre al rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, e distrae in favore del difensore della controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 26 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2024.

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