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Violenza di genere, pena patteggiata giustifica il licenziamento

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.24140 del 09/09/2024

Può un lavoratore essere licenziato per una condanna ottenuta tramite patteggiamento?

Sul quesito risponde la Sezione lavoro della Cassazione con l’ordinanza n. 24140 del 9 settembre 2024.

La vicenda riguardava un dipendente dell'ATAC (Azienda del trasporto pubblico di Roma) licenziato dopo aver patteggiato una pena per atti persecutori, minacce e molestie nei confronti della sua ex moglie. Dopo la sentenza, l’azienda ha deciso di sospenderlo cautelativamente, ritenendo compromessa la fiducia necessaria per il ruolo di autista di mezzi pubblici.

Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, sostenendo che il patteggiamento non equivalga a una condanna e, di conseguenza, non giustifichi il provvedimento. Tuttavia, la Cassazione ha ribadito un principio già consolidato: il patteggiamento, pur non configurando una sentenza di condanna formale, implica un’ammissione di responsabilità. Infatti, la sentenza ex art. 444 c.p.p. esonera l’altra parte dall’onere della prova e costituisce un "elemento probatorio essenziale" per il giudice.

Nel caso specifico, la Corte ha evidenziato che i fatti accertati rientrano nei punti 6 e 7 dell'art. 45 del Regio Decreto n. 148/1931, che consente il licenziamento di chi si renda "indegno della pubblica stima" o sia condannato per delitti. La condotta violenta del lavoratore ha portato a una rottura del rapporto fiduciario con il datore di lavoro, giustificando la destituzione.

In conclusione, la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare, precisando che anche reati commessi al di fuori dell'ambito lavorativo, come la violenza di genere, possono compromettere la fiducia del datore di lavoro e giustificare l'interruzione del rapporto.

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Cassazione civile sez. lav., ordinanza 09/09/2024 (ud. 16/05/2024) n. 24140

RILEVATO CHE

1. Nella gravata sentenza di legge che Be.Fa., dipendente dell'ATAC Spa dal 2.6.1997, aveva portato a conoscenza della datrice di lavoro, in data 7.9.2017, l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma con la quale, a seguito di sentenza di patteggiamento (per il reato di cui all'art. 612 bis commi 1 e 2, per avere compiuto reiteratamente atti persecutori, minacce e molestie nei confronti del coniuge separato), era stato disposto nei suoi confronti l'affidamento in prova ai servizi sociali con obbligo di rincasare presso la propria abitazione entro le 22:00 nonché di non uscire prima delle ore 7:00.

2. Con lettera del 25.9.2017 veniva disposta la sospensione cautelare a tempo indeterminato senza stipendio; la contestazione disciplinare era poi notificata il 30.11.2017; il 13.12.2017 veniva comunicato l'opinamento di destituzione (in quanto i fatti imputati integravano la fattispecie prevista dall'art. 45 punto 6 e 7 del Regio Decreto n. 148/1931 e violavano l'art. 3.2 del codice etico aziendale) confermato in data 12.7.2018; il relativo provvedimento veniva impugnato dal lavoratore il 27.7.2018.

3. Il Tribunale di Roma, sia in fase sommaria che in sede di opposizione, dichiarava inammissibile l'impugnativa del recesso per intervenuta decadenza in quanto già nell'atto di opinamento della destituzione doveva desumersi la chiara volontà della datrice di lavoro di recedere dal rapporto.

4. La Corte di appello di Roma, con la sentenza oggi impugnata, riteneva, invece, tempestiva l'impugnativa di licenziamento del 25.7.2018 rispetto alla comunicazione della destituzione del 6/12.7.2018; riteneva, altresì, tempestiva e specifica la contestazione disciplinare nonché il provvedimento di recesso; considerava, inoltre, i fatti oggetto della sentenza di patteggiamento e risultanti dagli atti del procedimento penale sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 45 del RD n. 148/31 che prevede l'adozione della sanzione della destituzione; concludeva, infine, nel senso che risultava definitivamente compromessa la fiducia del datore di lavoro nella esecuzione della prestazione lavorativa diligente ed equilibrata nel rapporto con i fruitori del trasporto pubblico.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Be.Fa. affidato a tre motivi, l'intimata non ha svolto attività difensiva.

6. Il Collegio si e riservato il deposito dell'ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.

CONSIDERATO CHE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo il ricorrente eccepisce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 4 cpc, in relazione all'art. 112 cc, per vizio di ultrapetizione. Egli sostiene che la Corte territoriale ha valutato gli atti del procedimento penale nonostante gli stessi fossero stati prodotti solo in sede di reclamo e, quindi, non acquisiti ritualmente.

3. Con il secondo motivo si obietta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione di norma di diritto nonché l'erroneità della interpretazione della norma impiegata in motivazione, ex art. 360 co. 1 n. 5 cpc, in relazione all'art. 116 cpc, per avere la Corte territoriale mal esercitato il proprio prudente apprezzamento delle prove, assegnando ai fatti di causa valenza difforme da quella riferita nel giudizio di primo grado e "assumendo su di sé diversa rilevanza sulla scorta di un proprio convincimento, scaturente da questioni portate alla sua cognizione e non già a quelle del primo giudice".

4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del RD n. 148/31 in materia di sanzioni disciplinari, ai sensi dell'art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte territoriale ritenuto sussumibile la condotta contestata nell'art. 41 del Regio Decreto citato (sanzionante lievi negligenze punite con sanzione conservativa) e per non avere rilevato che la sentenza di patteggiamento, in sede penale, tecnicamente non è configurabile come una pronuncia di condanna e non era stata oggetto di discussione nelle varie fasi del procedimento amministrativo.

5. Il primo motivo è infondato.

6. Il potere del giudice di pronunciare entro i confini delle domande proposte dalle parti si rapporta ai soli elementi essenziali delle stesse, rappresentati dalla "causa petendi" e dal "petitum", sicché non integra vizio di ultrapetizione la valutazione dei mezzi di prova dedotti dalle parti, relativamente ai fatti sui quali permanga la contestazione tra le medesime (Cass. n. 15734/2022).

7. Inoltre, nel rito del lavoro, l'acquisizione di nuovi documenti o l'ammissione di nuove prove da parte del giudice di appello rientra tra i poteri discrezionali allo stesso riconosciuti dagli artt. 421 e 437 c.p.c., e tale esercizio è insindacabile in sede di legittimità anche quando manchi un'espressa motivazione in ordine alla indispensabilità o necessità del mezzo istruttorio ammesso, dovendosi la motivazione ritenere implicita nel provvedimento adottato (Cass. n. 26117/2016).

8. La gravata sentenza è in linea con i suddetti principi, avendo acquisito gli atti del procedimento penale e avendo, in relazione ad essi, valutato l'oggetto della domanda con riguardo alla causa petendi e al petitum originariamente prospettati, per cui alcuna denunciata violazione di legge, come articolata nel motivo, è ravvisabile.

9. Il secondo motivo è parimenti infondato.

10. In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (per tutte, Cass. Sez. Un. n. 20867/2020).

11. Nel caso di specie, invece, la Corte territoriale sulla base della documentazione legittimamente acquisita in sede di reclamo, ha ritenuto che dai fatti contestati, e ritenuti dimostrati, risultava compromessa la fiducia del datore di lavoro nella esecuzione della prestazione lavorativa, diligente ed equilibrata, nel rapporto con i fruitori del trasporto pubblico: ciò a fronte di una valutazione dei fatti non compiuta dal primo giudice che aveva, invece, considerato inammissibile l'impugnativa del licenziamento per intervenuta decadenza.

12. È evidente, quindi, che non si verte in ipotesi di violazione dell'art. 116 cpc come delineata dalla giurisprudenza di legittimità.

13. Il terzo motivo è, infine, anche esso infondato.

14. In primo luogo, in punto di fatto, va rilevato che la Corte territoriale ha svolto la propria valutazione sull'addebito contestato non solo sulla base della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cpc, ma esaminando tutti gli atti del procedimento penale: in particolare, la denuncia della ex moglie, il verbale di sommarie informazioni testimoniali dell'amica di quest'ultima, il referto del Pronto Soccorso, l'ordinanza del Tribunale del Riesame avverso la misura cautelare del divieto di avvicinamento all'ex coniuge, giungendo alla conclusione che l'azione delittuosa del Be.Fa. era stata reiterata nel tempo e si era estrinsecata non solo in insulti verbali ma anche in minacce, in comportamenti persecutori ed ossessivi e soprattutto connotati da violenza fisica.

15. In secondo luogo, in punto di diritto, deve evidenziarsi che la decisione della Corte territoriale è conforme ai principi affermati da questa Corte (Cass. n. 11665/2022) che ha statuito che, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.

16. In ossequio a tale principio, la Corte distrettuale ha ritenuto, con un accertamento di fatto congruamente e adeguatamente motivato, che nessuna delle infrazioni disciplinari, punite dal Regio Decreto n. 148/1931 con sanzione conservativa (artt. 41 e 42), era riferibile alla contestazione di cui è causa, che rientrava, invece, nella previsione dell'art. 45 punti 6 (questo ritenuto dai giudici di seconde cure di per sé già sufficiente stante la forte riprovazione sociale nei confronti della cd. violenza di genere sicuramente ravvisabile in un atteggiamento persecutorio, violento e minaccioso tenuto dal lavoratore nei confronti dell'ex coniuge) e 7 (si riportano le fattispecie astratte: 6. "chi per azioni disonorevoli ed immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima"; 7. "chi sia incorso in condanna penale, sia pure condizionale, per delitti, anche mancati o solo tentati, o abbia altrimenti riportata la pena della interdizione dai pubblici uffici"), che prevedeva la sanzione della destituzione, essendo appunto significativo l'aspetto della reazione violenta ed aggressiva, rilevante nel contesto lavorativo in cui il dipendente, conducente di mezzi di trasporto pubblico, esponeva l'azienda ad un rischio di analogo atteggiamento intollerante nei confronti dell'intera utenza.

17. Quanto, infine, alla valenza della cd. sentenza di patteggiamento ex art. 444 cpp, deve ribadirsi il consolidato principio affermato da questa Corte (Cass. n. 3980/2016; Cass. n. 30328/2017) secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone comunque una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall'onere della prova e costituisce un importante elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione.

18. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

19. Nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità non avendo la società intimata svolto attività difensiva.

20. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 maggio 2024.

Depositata in Cancelleria il 9 settembre 2024.

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