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Accordo tra coniugi su trasferimento immobiliare è revocabile anche dopo la sentenza definitiva

Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.26127 del 07/10/2024

È possibile che un accordo tra coniugi sul trasferimento di un immobile venga revocato, anche dopo che la sentenza di separazione è passata in giudicato?

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 26127 del 7 ottobre 2024), la risposta è affermativa. L'accordo tra coniugi che prevede il trasferimento di un immobile, stipulato durante la separazione, può essere impugnato se lede i diritti dei terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo ha recepito.

La natura negoziale degli accordi di separazione

Gli accordi patrimoniali tra coniugi, anche se inseriti in una sentenza di separazione o di divorzio, hanno natura negoziale. Ciò significa che sono considerati atti contrattuali privati, frutto dell'autonomia contrattuale delle parti. La sentenza che li recepisce ha funzione dichiarativa e non altera la natura dell'accordo. Di conseguenza, tali accordi sono soggetti alle ordinarie impugnative negoziali, come l'azione revocatoria prevista dall'art. 2901 del codice civile.

La tutela dei creditori attraverso l'azione revocatoria

L'azione revocatoria è uno strumento che consente ai creditori di tutelarsi contro gli atti del debitore che riducono la garanzia patrimoniale. Se un coniuge trasferisce un immobile all'altro coniuge e questo trasferimento pregiudica i diritti dei creditori, questi possono agire per far dichiarare inefficace l'atto nei loro confronti. Questo è possibile anche se l'accordo è stato omologato o recepito in una sentenza passata in giudicato.

Il caso concreto esaminato dalla Cassazione

Nel caso affrontato dalla Corte, un ex marito aveva trasferito alla ex moglie la sua quota di proprietà della casa coniugale, in base a un accordo raggiunto durante una separazione giudiziale. Una banca, creditrice dell'uomo, ha promosso azione revocatoria per tutelare il proprio credito. L'uomo sosteneva che il trasferimento derivava da una sentenza definitiva e costituiva un atto dovuto, non soggetto a revocatoria ai sensi dell'art. 2901, terzo comma, del codice civile.

La Corte di Cassazione ha rigettato questa argomentazione. Ha affermato che l'accordo tra i coniugi mantiene la sua natura negoziale, anche se recepito in una sentenza. Pertanto, può essere impugnato dai creditori tramite azione revocatoria.

I precedenti giurisprudenziali richiamati

La Suprema Corte ha richiamato numerosi precedenti che confermano questo orientamento. Tra questi, la sentenza n. 8516/2006, che sottolinea come gli accordi tra coniugi in sede di separazione abbiano natura negoziale e siano soggetti alle ordinarie impugnative. Anche le Sezioni Unite, con la sentenza n. 21761/2021, hanno affermato che gli accordi patrimoniali tra coniugi, inseriti in un verbale di udienza o in una sentenza, sono atti negoziali validi e trascrivibili.

La differenza tra separazione consensuale e giudiziale

La Corte ha evidenziato che, ai fini dell'azione revocatoria, non vi è differenza significativa tra un accordo patrimoniale inserito in una separazione consensuale o in una separazione giudiziale. In entrambi i casi, l'accordo mantiene la sua natura negoziale e può essere impugnato se lede i diritti dei creditori.

Conclusione

In sintesi, se un coniuge trasferisce un immobile all'altro coniuge durante la separazione, e questo atto pregiudica i diritti dei creditori, questi possono agire in revocatoria per tutelare le proprie ragioni. Ciò è possibile anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione che ha recepito l'accordo. La sentenza ha efficacia dichiarativa e non trasforma l'accordo in un atto sottratto alle impugnative negoziali.

Accordo tra coniugi avente ad oggetto trasferimento immobiliare, passaggio in giudicato della sentenza che recepisce l'accordo, impugnativa negoziale a tutela delle parti o di terzi, ammissibilità

L'accordo tra coniugi avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, anche nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, è soggetto alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti e dei terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo ha recepito, spiegando quest'ultima efficacia meramente dichiarativa, come tale non incidente sulla natura di atto contrattuale privato del suddetto accordo.

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Cassazione civile sez. III, sentenza 07/10/2024 (ud. 02/07/2024) n. 26127

FATTI DI CAUSA


1. MPS Gestione Crediti Banca Spa, in nome e per conto della Banca dei Monte dei Paschi di Siena Spa, deducendo di essere creditrice, in forza di decreto ingiuntivo n. 233/2009 emesso dal Tribunale di Massa, nei confronti di Pu.Lo., fideiussore di Isola del Benessere Srl, conveniva in giudizio quest'ultimo e il coniuge Gi.Lu., chiedendo dichiararsi l'inefficacia, ai sensi dell'art. 2901 cod. civ., del verbale di separazione consensuale con assegnazione dei beni del Tribunale di Massa del 6 agosto 2007, nonché dell'atto del 3 aprile 2008, con cui erano stati ceduti alla convenuta il diritto di abitazione e poi i diritti reali, per la quota del 50 per cento, dell'immobile sito in C, distinto al foglio (omissis), mapp. (omissis), sub. (omissis).

All'esito della costituzione dei convenuti, il Tribunale di Massa dichiarava il difetto di legitimatio ad processum in capo all'attrice, per non avere quest'ultima dimostrato l'inclusione del rapporto sostanziale controverso tra quelli gestiti dall'Ufficio periferico di Pisa, il cui responsabile, Bo.Pa., aveva rilasciato la procura, in calce all'atto di citazione, al difensore della società attrice.

2. La Corte d'appello di Genova, investita del gravame proposto da Banca Monte dei Paschi di Siena, lo ha accolto, rilevando, preliminarmente, che il difetto di rappresentanza era stato sanato mediante la proposizione dell'appello da parte della società che, secondo il giudice di primo grado, era stata difettosamente rappresentata.

Ha poi ritenuto ammissibile l'azione revocatoria, disattendendo l'eccezione sollevata dal Pu.Lo. secondo la quale il trasferimento di proprietà non scaturiva dal verbale di separazione consensuale, ma dalla sentenza - n. 734/2007 del Tribunale di Massa - che aveva chiuso il giudizio di separazione giudiziale, sul rilievo che quest'ultima si limitava a recepire l'accordo raggiunto dai coniugi in ordine alle questioni economiche, che prevedeva, tra l'altro, l'assegnazione della casa coniugale alla Gi.Lu. e l'impegno del Pu.Lo. a trasferire al coniuge la quota di comproprietà di cui era titolare.

Esaminando, in particolare, i presupposti dell'azione esperita, ha escluso che il trasferimento fosse stato effettuato in adempimento dell'obbligo di mantenimento gravante sul Pu.Lo. nei confronti della moglie ed ha qualificato l'atto dispositivo come a titolo gratuito, considerando irrilevante la consapevolezza, in capo alla Gi.Lu., del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, e precisando che, seppure si fosse voluto qualificare l'atto dispositivo come a titolo oneroso, ciò non ostava alla revocabilità del trasferimento, emergendo detta consapevolezza dal ricorso per separazione personale e dal provvedimento presidenziale del 5 novembre 2002, in cui si dava atto delle difficoltà economiche in cui versava il Pu.Lo. A tanto ha aggiunto che l'atto di trasferimento aveva ad oggetto l'unico cespite immobiliare del debitore, cosicché la consapevolezza del debitore e del terzo del pregiudizio patrimoniale arrecato poteva ritenersi in re ipsa; con riguardo, poi, alla ragione di credito, ha osservato che era stata riformata, in appello, la sentenza che aveva revocato, in primo grado, il decreto ingiuntivo in forza del quale la Banca aveva agito ai sensi dell'art. 2901 cod. civ.

3. Pu.Lo. propone ricorso per la cassazione della suddetta sentenza, con quattro motivi.

Siena NPL 2018 Srl resiste con controricorso.

Gi.Lu. è rimasta intimata e non ha svolto attività difensiva in questa sede.

4. All'esito dell'adunanza camerale del 22 settembre 2023, in prossimità della quale la controricorrente ha depositato memoria illustrativa, il Collegio, con ordinanza interlocutoria, ha rinviato la causa alla pubblica udienza, in ragione della particolare rilevanza della questione prospettata con il primo motivo di ricorso.

Fissata la pubblica udienza, il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte ed entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va disattesa l'eccezione d'inammissibilità del controricorso per difetto di legitimatio ad causam.

1.1. Il ricorrente, al riguardo, evidenzia che Siena NPL 2018 Srl e, per essa, il suo procuratore speciale Juliet Spa, si è limitata a dichiarare, in controricorso, di essere "...piena e legittima titolare di un portafoglio di crediti, tra cui quello inerente il presente procedimento..." e, per l'effetto, di essere titolare del diritto di contraddire quale successore del diritto controverso ex art. 111 cod. proc. civ. di Banca Monte dei Paschi di Siena, come "...da avviso di cessione pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed allegato...".

Sostiene che, diversamente da quanto dedotto, nella specie, non si controverte del diritto di credito oggetto di pretesa cessione, ma unicamente del diritto di contraddire in relazione alla domanda di inefficacia ex art. 2901 cod. civ. di un atto di compravendita immobiliare, intercorso tra i coniugi a seguito di sentenza di separazione, e che il cessionario del credito in relazione al quale è stata proposta dal cedente azione revocatoria non possa considerarsi successore a titolo particolare nel diritto controverso, stante l'inapplicabilità del richiamato art. 111 Cost.

Soggiunge, sotto altro profilo, che, in ogni caso, il soggetto che intende contraddire in qualità di successore, a titolo universale o particolare, deve dimostrare tale qualità e che, nel caso de quo, tale prova non è stata fornita, non potendo a tal fine valere l'avviso di cessione pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale in cui non viene in alcun modo individuato il credito pretesamente vantato.

1.2. Con specifico riferimento al primo rilievo, è sufficiente rammentare che è ormai superato l'orientamento giurisprudenziale invocato dal ricorrente (Cass. n. 25660/14), seguito anche da Cass. n. 29637/17, secondo cui "in tema di azione revocatoria, qualora la parte attrice ceda il proprio credito nel corso del giudizio, è inammissibile l'intervento in causa del cessionario, non trovando applicazione l'art. 111 cod. proc. civ.".

Questa Corte, invero, già con la sentenza del 22 giugno 2022, n. 20315, ha affermato l'opposto principio, al quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui "il cessionario di un credito beneficia ope legis, in conseguenza della cessione, degli effetti dell'azione pauliana vittoriosamente esperita dal cedente".

Come è stato esaustivamente spiegato anche con successive pronunce (tra le tante, Cass., sez. 3, 23/02/2023, n. 5649), "non è possibile configurare un diritto alla declaratoria di inefficacia dell'atto come suscettibile di autonoma considerazione, agli effetti dell'art. 111 cod. proc. civ., rispetto al diritto di credito cui l'azione revocatoria accede quale strumento finalizzato alla conservazione della garanzia patrimoniale di cui tale diritto gode ex art. 2740 cod. civ.", in quanto chi agisce in revocatoria non fa valere un diritto diverso dal diritto di credito, ma propone una azione a tutela dello stesso, cosicché oggetto della successione, quale fenomeno processuale regolato dall'art. 111 Cost., non è propriamente una successione nel diritto sostanziale, ma una successione nel diritto "affermato" in giudizio e, in tal senso, una successione nella qualità di parte.

1.3. Ciò non toglie ovviamente che la titolarità di un diritto di credito, anche sub iudice, costituisce pur sempre condizione dell'azione revocatoria, sotto il profilo della legitimatio ad causam dell'attore (Cass., sez. 6 - 3, 30/06/2020, n. 12975; Cass., sez. 2, 04/11/2004, n. 21100).

Sul punto, in linea generale, va ribadito il principio secondo cui la parte che agisce affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un'operazione di cessione in blocco secondo la speciale disciplina di cui all'art. 58 del D.Lgs. 1 dicembre 1993, n. 385, ha l'onere di dimostrare l'inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale (così Cass., sez. 1, 22/02/2022, n. 5857; Cass., sez. 6 -1, 05/11/2020, n. 24798), a meno che il resistente non l'abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta (Cass., sez. 1, 02/03/2016, n. 4116; Cass., sez. 6 -1, 05/11/2020, n. 24798).

Del pari, occorre rammentare che il menzionato art. 58 del D.Lgs. n. 385 del 1993, nel consentire "la cessione a banche di aziende, di rami d'azienda, di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco" detta una disciplina (ampiamente e sotto plurimi profili) derogatoria rispetto a quella ordinariamente prevista dal codice civile per la cessione del credito e del contratto (per questi aspetti, diffusamente, Cass., sez. 1, 31/12/2017, n. 31188): regolamentazione giustificata principalmente dall'oggetto della cessione, costituito, oltre che da intere aziende o rami di azienda, da interi "blocchi" di beni, crediti e rapporti giuridici, individuati non già singolarmente, ma per tipologia, sulla base di caratteristiche comuni, oggettive o soggettive, motivo per cui la norma prevede la sostituzione della notifica individuale dell'atto di cessione con la pubblicazione di un avviso di essa sulla Gazzetta Ufficiale, cui possono aggiungersi forme integrative di pubblicità (da ultimo, Cass., sez. 3, 16/04/2021, n. 10200).

Si è, quindi, affermato che. in tema di cessione in blocco dei crediti da parte di una banca ex art. 58 del D.Lgs. n. 385 del 1993, è sufficiente a dimostrare la titolarità del credito in capo al cessionario la produzione dell'avviso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale recante l'indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di ciascuno di essi, allorché sia possibile individuare senza incertezze i rapporti oggetto della cessione (in questo ordine di idee, oltre alla citata Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31118; cfr. Cass., sez. 3, 13/06/2019, n. 15884; Cass., sez. 3, 10/02/2023, n. 4277).

Ebbene, nell'avviso di cessione pubblicato in Gazzetta Ufficiale Parte Seconda n. 151 del 23 dicembre 2017, allegato quale doc. 2 ter al controricorso, sono espressamente indicati i crediti derivanti dal rapporto con Banca MPS sorti anteriormente al 31 dicembre 2016 e passati a sofferenza in data anteriore al 31 dicembre 2016; sicché è evidente che il credito posto a fondamento dell'azione revocatoria sia ricompreso tra quelli oggetto di cessione.

2. Con il primo motivo il ricorrente denunziando, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 1399 cod. civ., 125 cod. proc. civ. e 182 cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 75 cod. proc. civ., 83 cod. proc. civ. e 183 cod. proc. civ., contesta la decisione impugnata con cui il giudice d'appello, richiamando un precedente di questa Corte e, precisamente, Cass. n. 4798 del 2020, ha ritenuto che il difetto di legitimatio ad processum fosse stato sanato ex tunc.

Evidenzia che le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4248 del 2016, hanno stabilito che il giudice, in caso di difetto di rappresentanza, deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio, assegnando un termine alla parte che non vi abbia autonomamente provveduto, con effetti ex tunc, ma hanno pure precisato che qualora il rilievo del vizio non sia officioso, ma venga sollevato dalla controparte, l'onere di procedere alla sanatoria sorge immediatamente, non essendovi necessità di concedere un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l'avversario è chiamato a contraddire tempestivamente, con la produzione necessaria allo scopo.

Assume, di conseguenza, che, avendo eccepito il difetto di rappresentanza già in comparsa di costituzione e risposta di primo grado e non avendo la controparte, nonostante i termini ex art. 183 cod. proc. civ. concessi dal giudice, provveduto ad alcuna "sanatoria", risulta del tutto irrilevante il fatto che Banca Monte dei Paschi di Siena Spa, nel giudizio di appello, fosse validamente rappresentata e che avesse inteso ratificare tutte le precedenti attività processuali (essendo già decorsi per la stessa i relativi termini decadenziali e non potendo, quindi, beneficiare di ulteriori possibilità).

2.1. Il motivo è infondato, anche se la motivazione della decisione impugnata, sul punto, deve essere corretta nei termini che di seguito si precisano.

2.2. Varrà rammentare che:

a) il potere di rappresentanza processuale, con la connessa facoltà di conferire la procura alle liti al difensore, non può mai essere attribuito disgiuntamente dal potere di rappresentanza sostanziale (tra le tante, Cass., sez. 1, 03/01/2017, n. 43; Cass., sez. 3, 26/06/2007, n. 14766; Cass., sez. L, 19/09/2001, n. 11828; Cass., sez. U, 08/05/1998, n. 4666; Cass., sez. U, 09/06/1998, n. 5653): in tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, il dovere del giudice di accertare, anche d'ufficio, la legittimazione processuale delle parti comporta che egli deve verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire o contraddire in nome e per conto dell'ente abbia anche dichiarato di far ciò in una veste astrattamente idonea, per legge o per espressa disposizione statutaria, ad abilitarlo alla rappresentanza sostanziale dell'ente stesso nel processo;

b) al fine di perseguire la conservazione degli atti processuali, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il difetto di legittimazione processuale della persona fisica, che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato di effettiva rappresentanza dell'ente medesimo, il quale rappresenti la volontà, anche tacita, di ratificare l'operato del falsus procurator (Cass., sez. 1, 15/11/2016, n. 23274; Cass., sez. 6 -2, 18/03/ 2015, n. 5343; Cass., sez. 3, 15/09/2008, n. 23670; Cass., sez. 3, 02/02/2006, n. 2270),

c) ai sensi dell'art. 182 cod. proc. civ., nel testo riformulato dalla legge n. 69/2009, applicabile ai giudizi iniziati successivamente alla data - 4 luglio 2009 - della sua entrata in vigore, "Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o mettere in regola gli atti e documenti che riconosce difettosi"; al successivo secondo comma, è previsto che "Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L'osservanza del termine sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione";

d) il citato art. 182 cod. proc. civ. ha reso doverosa l'assegnazione del termine per regolarizzare il vizio, eliminando la preclusione derivante da maturata decadenza ed assicurando la salvezza dei diritti con effetto retroattivo sin dal momento della prima notificazione, ed ha esteso il rimedio anche alle ipotesi di vizio riguardante la procura alle liti (Cass., sez. U, 21/12/2022, n. 37434 del 2022 ha espresso il principio che "Il vigente art. 182, secondo comma, cod. proc. civ. non consente di "sanare" l'inesistenza o la mancanza in atti della procura alle liti");

e) l'art. 182 cod. proc. civ. è sicuramente applicabile anche al giudizio di appello, giusta il richiamo contenuto nell'art. 359 cod. proc. civ. (in tal senso, Cass., sez. 3, 19/05/2021, n. 13597); sul punto, Cass., sez. 6 -3, 27/01/2022, n. 2498, ha ribadito che "l'applicabilità del rimedio di cui all'art. 182, comma 2, c.p.c. nella fase dell'appello, in quanto contenente un principio non incompatibile con il giudizio di secondo grado, appare condivisibile per tre ordini di ragioni. In primo luogo, perché l'orientamento di legittimità sopra descritto è conforme al "più generale dovere di positiva collaborazione fra i soggetti del processo", in un'ottica di perseguimento del diritto di accesso al giudice, dell'articolo 6, par. 1, CEDU e di limitazione delle interpretazioni formalistiche (principio affermato, da ultimo, da Cass. SU n. 26338 del 7 novembre 2019 e da Corte Edu, caso Succi c. Italia del 28/10/2021); in secondo luogo, tale soluzione appare in linea con il principio di conservazione degli atti processuali ai sensi dell'articolo 159 cod. proc. civ.; infine, accedendo alla tesi opposta, si determinerebbe una sostanziale equipollenza tra il giudizio di appello e quello di legittimità, non giustificata da reali ragioni processuali, posto che il giudice d'appello rimane giudice del merito con piena cognizione della domanda, nei limiti dell'appello");

d) anche Cass. n. 29244 del 2021 ha precisato che all'inevitabile rigore proprio della rilevabilità officiosa, anche in sede di legittimità, del difetto di rappresentanza - sia sostanziale (cfr. Cass., sez. U, n. 24179 del 2009; Cass. n. 16274 del 2015; Cass. n. 4293 del 2013) che processuale, quest'ultima non potendo sussistere senza la prima (art. 77 cod. proc. civ.) - corrisponde, simmetricamente, l'ampia sanabilità del vizio della rappresentanza volontaria ai sensi dell'art. 182 cod. proc. civ., interpretato nei sensi di cui si è detto, atteso che è questa lettura a rendere tale disposizione compatibile con l'art. 6 CEDU che, nell'assicurare il diritto di accesso ad un tribunale, impone di evitare eccessivi formalismi nell'interpretazione della norma processuale, specie in tema di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi (cfr., ex plurimis, Corte EDU 19/12/1997, Brualla Gomez de la Torte c. Spagna; 29/07/1998, Guerin c. Francia; 28/10/1998, Perez de Rada Cavanilles c. Spagna; 28/06/2005, Zednik c. Repubblica Ceca); la ratifica e la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli artt. 83 e 125 cod. proc. civ. (in tal senso Cass., sez. U, 21/12/2022, n. 37434; Cass., sez. 3, 15/09/2008, n. 23670; Cass., 6-2, n. 5343 del 18/3/2015; Cass., sez. U, 04/03/2016, n. 4248; Cass., sez. 1, 16/11/2021, n. 34775); con la conseguenza che la concezione tradizionale dell'art. 1399 cod. civ., secondo cui detta disposizione non si applica ai vizi processuali, è stata superata anche con riferimento alla procura alle liti e la giurisprudenza si è consolidata nel senso della non operatività delle preclusioni processuali;

e) le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4248 del 2016, hanno, tuttavia, precisato che, qualora il rilievo del vizio di rappresentanza non sia officioso, l'onere di sanatoria sorge immediatamente in capo al rappresentato - anche in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 372 cod. proc. civ. - senza necessità di assegnare un termine che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte "l'avversario è chiamato a contraddire" tempestivamente, con la produzione della documentazione necessaria allo scopo, volendosi "salvaguardare l'ordinamento dal disvalore "di sistema" costituito dall'emissione di sentenze inutiliter datae"; e tale principio ha trovato conferma in numerose pronunce successive (Cass., sez. 2, 04/10/2018, n. 24212; Cass., sez. L, 24/12/2019, n. 34467; Cass., sez. 5, 04/07/2019, n. 17974; Cass., sez. 6 -5, 17/05/2019, n. 13312; Cass., sez. 2, 16/10/2020, n. 22564; Cass., sez. 1, 20/10/2021, n. 29244), cosicché, in assenza di una tempestiva reazione all'eccezione, la nullità della procura o il difetto di rappresentanza diviene insanabile (in tal senso, Cass., sez. 2, 16/10/2020, n. 22564; Cass., sez. 1, 03/11/2022, n. 32399).

3. Tanto premesso, va rilevato che, ai fini dell'esame della doglianza qui prospettata, è del tutto irrilevante il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 4248 del 2016, di cui il ricorrente lamenta la mancata applicazione da parte del Giudice di appello, in quanto dalla stessa sentenza impugnata (pagg. 3 e 4) emerge che Banca Monte dei Paschi di Siena, al fine di dimostrare la sussistenza del potere di rappresentanza in capo a Bo.Pa., il quale aveva rilasciato la procura alle liti al difensore in primo grado, aveva prodotto, allegandolo all'atto di citazione (doc. 2), l'atto di nomina dei responsabili e sostituti degli Uffici periferici di MPS Gestione Crediti Banca Spa, rep. n. 185417, racc. n. 7998, del 27 maggio 2008 - dal quale risultava che Bo.Pa., quale responsabile dell'Ufficio Periferico di Pisa, ben poteva "assumere la rappresentanza in giudizio di fronte a qualsiasi magistratura, con la facoltà di nomina di Avvocati e Procuratori, con mandato speciale a proporre ogni azione, domanda e gravame, compiere ogni atto processuale a tutela dei diritti della società, nominare arbitri" e "recedere dalle azioni anzidette, accettare analoghi recessi dalle altre parti in causa e consentire le annotazioni di inefficacia delle trascrizioni di pignoramento immobiliare..." - nonché la visura camerale, dalla quale risultava che l'Ufficio periferico di M di Banca MPS aveva cessato la propria attività ed era stato accorpato dall'Ufficio di P.

Tali documenti evidenziano chiaramente che il Bo.Pa., quale responsabile della filiale o succursale dell'istituto bancario, rivestisse la qualifica di institore, ai sensi dell'art. 2203 cod. civ. (Cass., sez. 3, 25/07/2008, n. 20425), e, quindi, avesse i poteri per conferire lo ius postulandi, con riferimento alle controversie concernenti gli atti compiuti nella filiale, questione questa logicamente preliminare a quella della ratifica del difetto di rappresentanza su cui poggia la sentenza qui impugnata.

Va, pure, osservato che, per la rappresentanza processuale della persona giuridica è sufficiente l'indicazione della funzione e del potere del soggetto che ha rilasciato la procura, senza che, in assenza di una puntuale e tempestiva contestazione relativa all'effettiva esistenza del potere esercitato, si configuri l'onere di dimostrare il proprio potere rappresentativo (Cass, sez. U, 05/11/2021, n. 31963).

Tale specifica contestazione non è stata svolta dall'odierno ricorrente, sul quale incombeva il relativo onere, pur a fronte della tempestiva produzione in primo grado, da parte della controparte, del conferimento al Bo.Pa., con atto notarile, del potere di rappresentanza.

Quanto detto vale a ritenere insussistente l'eccepito difetto di rappresentanza.

4. Con il secondo motivo, deducendo la "violazione e falsa applicazione degli artt. 404, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all'art. 2909, nonché all'art. 2901, terzo comma, cod. civ.", il ricorrente rimarca che il trasferimento della proprietà non scaturisce da un "verbale di separazione consensuale", ma da una pronuncia passata in giudicato, e precisamente dalla sentenza n. 734/07 emessa dal Tribunale di Massa, e costituisce l'adempimento di una statuizione in essa contenuta; con la conseguenza che l'atto dispositivo doveva essere inquadrato nella categoria dell'atto dovuto, come tale non revocabile ex art. 2901, terzo comma, cod. civ., ed avverso il quale era esperibile il solo rimedio dell'opposizione di terzo ex art. 404, secondo comma, cod. proc. civ.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. Questa Corte, con orientamento costante ed univoco, non ha mai dubitato della esperibilità dell'actio pauliana in relazione ad atti traslativi riversati negli accordi di separazione consensuale o di divorzio congiunto (cfr. Cass., sez. 1, 23/03/2004, n. 5741; Cass., sez. 3, 26/07/2005, n. 15603; Cass., sez. 3, 14/03/2006, n. 5473; Cass., sez. 1, 12/04/2006, n. 8516; Cass., sez. 1, 20/03/2008, n. 7450; con riferimento alla revocatoria fallimentare, Cass., sez. 3, 13/05/2008, n. 11914; Cass., sez. 1, 10/04/2013, n. 8678; Cass., sez. 3, 05/07/2018, n. 17612).

In particolare, Cass. n. 8516/2006 ha evidenziato come, in accordo con i postulati della concezione c.d. "privatistica" della separazione consensuale - a cui favore militano tanto il tenore letterale dell'art. 158, primo comma, cod. civ., e l'art. 711, quarto comma, cod. proc. civ., quanto i limiti ai poteri di controllo del Giudice prefigurati dall'art. 158, secondo comma, cod. civ. - "questa Corte (abbia)... ripetutamente affermato che l'accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale - più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale e salvo quanto appresso si dirà, del connotato della "patrimonialità") - rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mera condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia compatibile con le norme cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di controllare, in termini più pregnanti, che l'accordo relativo all'affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l'interesse di questi ultimi". Con la conseguenza, tra l'altro, che l'avvenuta omologazione lascia affatto impregiudicata la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l'azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali (Cass., sez. 1, 29/03/2005, n. 6625; Cass., sez. 1, 04/09/2004, n. 17902; Cass., sez. 1, 20/11/2003, n. 17607; Cass., sez. 1, 05/03/2001, n. 3149).

Al tempo stesso, questa Corte ha costantemente riconosciuto la validità delle clausole dell'accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti fra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cass., sez. 1, 15/05/1997, n. 4306; Cass., sez. 1, 11/11/1992, n. 12110) ovvero la costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis, il diritto di abitazione (cfr., in tal senso, già la remota Cass., sez. 1, 12/06/1963, n. 1594), clausole che presentano, peraltro, una loro propria "individualità", quali espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti interessate (cfr. Cass., sez. 1, 02/12/1991, n. 12897), dando vita, nella sostanza, a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322 cod. civ. (Cass., sez. 2, 17/06/2004, n. 11342; Cass., sez. 1, 11/11/1992, n. 12110; Cass., sez. 2, 21/12/1987, n. 9500; Cass., sez. 1, 27/10/1972, n. 3299; con riguardo altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cass., sez. 1, 17/06/1992, n. 7470).

Considerato, tuttavia, che pattuizioni del genere ben possono rivelarsi lesive, in concreto, dell'interesse dei creditori all'integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente, si è pure affermato che nessun ostacolo testuale o logico - giuridico si frappone alla loro impugnazione - ove ricorrano i relativi presupposti - tramite azione revocatoria, tanto ordinaria (cfr., al riguardo, Cass., sez. 1, 23/03/2004, n. 5741) che fallimentare; spiegando che tali azioni non possono ritenersi precluse né dall'avvenuta omologazione dell'accordo di separazione, cui resta affatto estranea la funzione di tutela dei terzi creditori, e che lascia comunque inalterata la natura negoziale della pattuizione), né dalla pretesa "inscindibilità" della pattuizione stessa dal complesso delle altre condizioni della separazione. (Cass., n. 8516/2006, cit.), discutendosi, nell'ipotesi considerata, " non già di una revocatoria "della" separazione, quanto piuttosto di una (peraltro difficilmente concepibile) revocatoria "nella" separazione: l'impugnativa mira a colpire, cioè, non la separazione in sé, ma il segmento della fattispecie complessa in cui si annida il vulnus alle aspettative di soddisfacimento dal ceto creditorio" (Cass., n. 8516/2006, cit.).

4.3. Le conclusioni cui giungono i precedenti sopra richiamati valgono anche nel caso qui in esame, con la sola differenza che, mentre in quelli gli accordi patrimoniali erano posti ad oggetto di separazione consensuale omologata dal Tribunale, nel caso in esame essi sono invece posti ad oggetto di ricorso di separazione giudiziale necessariamente concluso con sentenza che ne ha recepito il contenuto. Si tratta però di differenza che, ai fini in esame, rimane priva di rilievo.

In tal senso soccorrono le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite con la sentenza del 29 luglio 2021, n. 21761, che, rispondendo a quesito riguardante la validità e trascrivibilità di accordi patrimoniali conclusi in sede (e ai fini del giudizio) di separazione o divorzio, ha affermato il principio di diritto, secondo cui: "Le clausole dell'accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l'attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all'art. 29, comma 1-bis, della L. n. 52 del 1985, come introdotto dall'art. 19, comma 14, del D.L. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla L. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l'ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari".

In sostanza, le Sezioni Unite hanno affermato il valore meramente dichiarativo della pronuncia (sentenza di separazione o di divorzio) in relazione alle pattuizioni sui rapporti economici, rilevando che "i due istituti" (ossia, da un lato, la separazione consensuale tra i coniugi e, dall'altro, il divorzio congiuntamente richiesto dai medesimi, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16) - pur presentando innegabili diversità sul piano della disciplina (le quali essenzialmente si compendiano nel fatto che, nel secondo caso, il procedimento non termina con l'omologazione da parte del tribunale, bensì con una sentenza emessa all'esito dell'audizione dei coniugi) - "si presentano strettamente connessi l'uno all'altro sul piano dogmatico. Ed invero, ad accomunare le due fattispecie è certamente la connotazione, presente in entrambe, dell'essere finalizzate ad ottenere mediante il consenso dei coniugi, piuttosto che con la pronuncia costitutiva del giudice, le divisate modificazioni dello status coniugale, con le conseguenti ricadute sull'affidamento ed il mantenimento della prole, ove esistente, e sui profili economici concernenti i rapporti tra i coniugi stessi".

Hanno, quindi, evidenziato che "la pacifica... natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322 c.c., comma 2, comporta che - al di fuori delle specifiche ipotesi succitate - nessun sindacato può esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizioni stipulate dalle parti. Come del resto - sul piano generale - il giudice non può sindacare qualsiasi accordo di natura contrattuale privato, che corrisponda ad una fattispecie tipica, libere essendo le parti di determinarne liberamente il contenuto (art. 1322 c.c., comma 1), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private e, se si tratta di pattuizioni atipiche, sempre che l'accordo sia anche meritevole di tutela secondo l'ordinamento (art. 1322 c.c., comma 2)".

4.4. Alla stregua dei principi sopra esposti (in senso conforme si sono espresse Cass., sez. 3, 12/05/2022, n. 15169; Cass., sez. 1, 11/08/2022, n. 24687), appare evidente che il giudice a quo ben ha fatto ad affermare (si veda pag. 8 della motivazione della sentenza impugnata) che "la sentenza in questione (ossia la sentenza n. 734/2007 del Tribunale di Massa) recepisce l'accordo in ordine alle questioni economiche raggiunto tra i coniugi, i quali hanno rassegnato conclusioni conformi", accordo che prevedeva, tra l'altro, "l'assegnazione della casa coniugale alla signora Gi.Lu. e l'impiego del signor Pu.Lo. a trasferire alla medesima la quota di comproprietà di cui era titolare", a nulla rilevando che tale accordo sia poi confluito, all'esito di un procedimento di separazione giudiziale, nella sentenza che ha definito quel giudizio, e ciò, come rilevato dalla Corte d'appello, "in ragione dell'autonomia degli accordi patrimoniali tra coniugi a margine dei giudizi di separazione e divorzio rispetto al provvedimento giudiziale che li recepisce".

Deve, quindi, ritenersi che l'accordo tra coniugi avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, anche nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, è soggetto alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti e dei terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo ha recepito, spiegando quest'ultima efficacia meramente dichiarativa, come tale non incidente sulla natura di atto contrattuale privato del suddetto accordo.

5. Con il terzo motivo, censurando la sentenza impugnata per violazione degli artt. 115,116,132 cod. proc. civ., anche in relazione all'art. 2727 cod. civ. per nullità della sentenza - error in procedendo - il ricorrente sostiene che l'operazione di cessione, lungi dal costituire un atto di mera liberalità, rappresenta l'adempimento dell'obbligo giuridico di mantenimento nei confronti dell'ex coniuge derivante prima dall'ordinanza con cui il Presidente del Tribunale aveva assegnato la casa coniugale alla Gi.Lu. e poi dalla sentenza n. 734/07, con cui il Tribunale aveva statuito l'obbligazione di trasferimento del diritto di comproprietà in favore della stessa Gi.Lu.

Censura, inoltre, la decisione gravata per avere ritenuto che ricorresse il requisito soggettivo della consapevolezza del pregiudizio in capo alla Gi.Lu., senza considerare che i coniugi, al momento della formalizzazione degli atti oggetto di revocatoria, da tempo erano separati di fatto, ed appalesandosi del tutto irrilevante il fatto che, in sede di provvedimenti provvisori afferenti il procedimento di separazione giudiziale, il Presidente del Tribunale avesse contenuto nella misura di Euro 50,00 il contributo a carico del Pu.Lo. in favore di ciascuno dei tre figli.

5.1. Anche il terzo motivo è infondato sotto entrambi i profili di doglianza denunziati.

5.2. Quanto al primo, deve ribadirsi l'ammissibilità dell'azione revocatoria ordinaria del trasferimento di immobile, effettuato da un coniuge in favore dell'altro in ottemperanza ai patti assunti in sede di separazione giudiziale, poiché esso trae origine dalla libera determinazione del coniuge, sicché l'accordo costituisce esso stesso parte dell'operazione revocabile e non fonte di obbligo idoneo a giustificare l'applicazione dell'art. 2901, terzo comma, cod. civ.(Cass., sez. 3, 22/01/2015, n. 1144; Cass., sez. 6 -3, 06/10/2020, n. 21358). Invero, la volontà, espressa nell'accordo di separazione di trasferire un bene al coniuge, ai fini della revocatoria, va visto come l'atto stesso di disposizione del patrimonio e, dunque, l'atto di trasferimento non è adempimento dell'obbligo assunto con l'accordo di separazione.

5.3. In relazione, poi, al secondo profilo di doglianza, che attiene al requisito della consapevolezza del pregiudizio arrecato o arrecabile dall'atto di trasferimento immobiliare, occorre rammentare, in linea generale, che la giurisprudenza di legittimità, da tempo, riconosce che le attribuzioni patrimoniali dall'uno all'altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell'evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell'atto di "donazione" vero e proprio e, dall'altro, a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l'assenza di un prezzo corrisposto); tali attribuzioni, sempre secondo il consolidato indirizzo di legittimità, svelano una loro "tipicità", la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva "onerosità" oppure di quelli della gratuità, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all'art. 2901 cod. civ., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio - compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati solo riflessi, patrimoniali, maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale (così già Cass., sez. 1, 23/03/2004 n. 5741; e, in senso conforme, Cass., sez. 2, 25/10/2019, n. 27409; Cass., sez. 3, 30/12/2023, n. 36562).

L'onerosità dell'attribuzione patrimoniale non può, dunque, farsi discendere tout court dall'astratta sussistenza di un obbligo legale di mantenimento, ma può emergere dall'esigenza di riequilibrare o ristorare il contributo apportato da un coniuge al ménage familiare e non adeguatamente rappresentato dalla situazione patrimoniale formalmente in essere fino al momento della separazione. E tale accertamento, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, sfugge al sindacato di legittimità (Cass., sez. 1, 10/04/2013, n. 8678).

Se ne trae la conseguenza che la qualificazione dell'atto dispositivo per cui è causa come atto a titolo oneroso o come atto a titolo gratuito dipendeva dalla possibilità di ricondurlo, in concreto, ad una causa che, trovando titolo nei pregressi rapporti anche di natura economica delle parti e nella necessità di darvi sistemazione nel momento della dissoluzione del vincolo, giustificasse lo spostamento patrimoniale fra i coniugi.

Ebbene, la Corte d'appello ha puntualmente spiegato, in esito all'esame delle risultanze istruttorie, che non risultava in alcun modo che il trasferimento fosse stato effettuato in adempimento dell'obbligo di mantenimento gravante sul Pu.Lo. nei confronti della moglie, "tanto più che in sede di provvedimenti presidenziali non era stato posto a carico del medesimo alcun assegno a favore della moglie".

E, in difetto di altri elementi che lasciassero trasparire che la cessione dell'immobile avesse funzione solutoria, ha, correttamente, escluso la natura onerosa dell'atto dispositivo prospettata dall'odierno ricorrente, considerando di conseguenza irrilevante la consapevolezza, in capo alla Gi.Lu., del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie, trattandosi di atto successivo al sorgere del credito.

Tale accertamento, che illustra in modo esaustivo il percorso argomentativo che ha condotto alla decisione, così sottraendosi alla censura di difetto o di carenza di motivazione, non è stato idoneamente censurato dal Pu.Lo. che, anche in questa sede, si limita a reiterare deduzioni difensive esposte nel giudizio di merito e già sottoposte al giudice d'appello - il quale non si è discostato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 3, 04/07/2019, n. 17908; Cass., sez. 3, 15/04/2019, n. 10443; Cass., sez. 3, 12/07/2023, n. 19899) - al solo fine di sollecitare un riesame delle questioni di fatto, precluso in sede di legittimità.

6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. e censura la sentenza nella parte in cui non ha disposto la compensazione delle spese di lite, in tutto o in parte, pur sussistendo una "soccombenza reciproca" o comunque il concorso di "...altre gravi ed eccezionali ragioni...".

Il motivo è infondato.

Deve darsi continuità all'orientamento di questa Corte secondo cui il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della lite, poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (Cass., sez. U, 08/11/2022, n. 32906; Cass., sez. 6 -3, 06/10/2021, n. 27056; Cass., sez. 3, 12/04/2018, n. 9064; Cass., sez. L, 01/06/2016, n. 11423).

Ciò è quanto ha fatto la Corte d'appello che ha ritenuto soccombente l'odierno ricorrente in relazione all'esito complessivo della lite ed ha provveduto alla determinazione delle spese di lite, facendo applicazione del principio della soccombenza, secondo cui la parte integralmente vittoriosa non deve sopportare nemmeno parzialmente tali spese (Cass., sez. 2, 09/06/2023, n. 16404).

7. L'infondatezza dei motivi impone il rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, pari ad Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 2 luglio 2024.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2024.

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